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Autore: Pendragon of the Elves    16/04/2012    3 recensioni
Near osservava il cadavere di Light Yagami disteso supino e finalmente muto a venti metri da lui. La partita era finita e lui era l’unico vincitore. Ma come poteva sentirsi appagato se al puzzle che era la sua vita sarebbero sempre mancati i pezzi più importanti?
Breve racconto su Near e i suoi sentimenti dopo la risoluzione del caso.
(Per maggior comprensione, leggere prima il "Racconto di Mello").
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mello, Near
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'L's Heritage'
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Racconto Di Near
 
 
Ora c'era nuovamente silenzio. Si sentiva solamente il cigolio delle vecchie pale dell’impianto di ventilazione. L’eco delle spaventose urla che c’erano state poco prima si era perso nell’aria ma continuava ad aleggiare nelle menti dei presenti. Nessuno muoveva un muscolo. Near osservava il cadavere di Light Yagami disteso supino e finalmente muto a venti metri da lui. Il Dio della morte se n’era ormai andato.
I membri del quartiere generale giapponese erano sconvolti, quelli dell’SPK erano turbati. L’unico che si comportava come se non fosse successo niente, era lui.
Se ne stava seduto nella sua solita posizione ma senza arricciarsi i capelli: fissava impassibile il corpo dell’assassino, la cui faccia era contorta in una maschera d’odio profondo e malato che non aveva nulla di umano. Se quel volto un tempo aveva potuto modulare espressioni umane, ora non lo dava a vedere: doveva aver perso quella capacità molto tempo prima.
Se quello di Kira aveva un’espressione terribile, quello di Near era l’indifferenza personificata. Ai suoi piedi, giacevano i pupazzetti di quella storia: il narratore era stato crudele, pensò. Ma, ora, anche quel episodio era terminato: Kira, il più grande pluriomicida del secolo, era morto. Era la conclusione: la resa dei conti compiuta. O, almeno, così avrebbe dovuto essere. Sì, il mondo era salvo dal regime di terrore instaurato da Kira ma Near era amareggiato: aveva vinto la battaglia ma la sua vita sarebbe stata più vuota di prima. Aveva compiuto la sua vendetta e, come si era aspettato, era amara e non colmava il vuoto dentro di lui. Nulla sarebbe servito a farlo sentire meglio ora che L e Mello erano morti. Lui aveva battuto il criminale più pericoloso che il mondo avesse conosciuto ma come poteva gioire della sua morte se gli erano state portate via le persone più care. Come poteva sentirsi appagato se, al puzzle che era la sua vita, sarebbero sempre mancati i pezzi più importanti. Ora che Light Yagami era morto sarebbe stato molto più difficile ignorare il suo dolore. “L, Mello: l’ho sconfitto… per voi”.
Chinò il capo e cominciò a raccogliere i suoi giocattoli. Di L e Mello gli sarebbero rimasti solo quei pupazzetti di plastica e un ruolo da svolgere: quello del più grande detective del mondo. La cosa non gli procurava né felicità né orgoglio. Sarebbe dovuta andare diversamente: avrebbe dovuto investire quella carica con Mello al suo fianco.
Alzò lo sguardo verso i membri del quartiere generale giapponese: stavano ancora fissando il corpo del loro vecchio amico.
Matsuda era accasciato a terra, le guance rigate dalle lacrime che grondavano da due occhi sconvolti, dalla bocca aperta fuoriuscivano rumorosi respiri affannati. Le sue mani ancora strette sulla pistola. Mogi e Ide fissavano il corpo di Light Yagami a occhi spalancati pieni di orrore.
Aizawa, che fino a quel momento si era comportato come gli altri, abbassò un attimo lo sguardo per poi puntarlo su di Near.
«Il criminale è stato sconfitto. Mi dispiace per voi: so che eravate in buoni rapporti». disse infine il ragazzo dai capelli bianchi. Dalla sua voce non traspariva nessuna emozione.
Matsuda chiuse gli occhi abbassando la testa. Il suo petto era scosso da tremiti e singhiozzi. «Ma com’è potuto accadere? Sembrava un bravo ragazzo… e noi che all’inizio lo appoggiavamo! Non avrei mai creduto…».
«Su, Matsuda. Come avremmo potuto saperlo…» tentò Aizawa ma il giovane non lo ascoltava: era ancora sotto shock.
«Portatelo fuori: ha bisogno d’aria». disse pacatamente Near.
Aizawa lo guardò con malcelato astio ma aiutò ugualmente Matsuda ad alzarsi e lo scortò all’esterno del capannone seguito dai suoi colleghi.
«L… L aveva capito tutto! Avremmo dovuto ascoltarlo! Lui aveva sempre avuto ragione!» urlò il giovane poliziotto prima di uscire.
“L…”. Near chinò il capo andando a coprire lentamente i suoi occhi con le palpebre.
I membri dell’SPK rivolsero la loro attenzione a Teru Mikami che, sconvolto, era rimasto immobile. Gli puntarono addosso una pistola e lo perquisirono alla ricerca di eventuali penne o pagine del quaderno della morte. Rester gli porse il foglietto insanguinato dove, per poco, sarebbe stato scritto il suo nome. Near non si voltò neanche.
“L… chissà se sarebbe contento di come sono andate le cose…”. La risposta era sicuramente no: Mello non avrebbe dovuto morire. Come suo ultimo gesto, l’aveva aiutato, rimettendoci la vita. Un solo pensiero alleggeriva quella perdita: aveva mantenuto la promessa. Nonostante questo, Near non se lo sarebbe mai perdonato: avrebbe dovuto farlo restare. Non avrebbe dovuto lasciarlo andare. Avrebbe dovuto alzarsi e fermarlo. Dopotutto, conosceva la promessa che Mello aveva fatto tanti anni prima e che aveva mantenuto con la sua stessa vita. Ricordava quel giorno, soltanto pochi anni prima…
 
Era autunno inoltrato. Lo stanco sole delle quattro del pomeriggio si avviava flemmatico verso l’orizzonte. Lasciava dietro di se i suoi ultimi tiepidi raggi che filtravano attraverso le fronde degli alberi che parevano dipinte con le tinte del fuoco. C’erano un sacco di foglie, tutte diverse, tutte con una tonalità differenti l’una dall’altra. Andavano a formare un complicato puzzle dove i dettagli erano migliaia ed erano minuscole chiazze di colore: tutte così diverse tra loro ma tutte importanti per il risultato finale.
I ragazzi della Wammy’s avevano avuto il permesso di uscire ad ammirare quel quadro dipinto di foglie che si preparavano all’arrivo dell’inverno.
Near era in uno dei salotti del piano terra, una stanza dalla quale poteva ammirare in sicurezza quello spettacolo, dove era relegato a causa della luce del sole che lo assediava ovunque andasse: per gli albini non era salutare uscire, anche se c’era quel sole basso e prossimo al tramonto. Così, si limitava a guardare, senza provare nulla in particolare. E perché avrebbe dovuto sentire qualcosa? Non poteva partecipare a quel momento e registrarne il ricordo con tutti e cinque i sensi. Lui non poteva uscire e sentire gli odori, il profumo delle foglie e dell’aria, a sentire il calore del giorno scemare e il vento accarezzargli la pelle: per lui erano solo immagini, solamente immagini al di là di un vetro. Il mondo era fuori dove il sole gli precludeva l’accesso. E, questo, contribuiva a renderlo più semplice, il mondo, più distante, quasi meno reale ai suoi occhi, ma, le cose distanti, erano più facili da analizzare obbiettivamente. Era per questo che Near era cresciuto così indifferente.
Sullo sfondo di quella vetrata, se ne stava a completare il suo puzzle. Aveva molti pezzi e, la maggior parte di questi, erano bianchi. Afferrava senza esitazione i piccoli quadratini di cartone e li disponeva senza errori e senza fretta a formare il puzzle che si sviluppava sempre come si aspettava.
Fare un puzzle è come risolvere un caso. Basta trovare i pezzi e metterli in ordine. L’unica cosa che poteva comprometterne la riuscita era una tessera mancante. In questa eventualità, bastava cercare più a fondo, perché per non trovare una cosa era comunque necessario che esistesse: se esisteva si poteva trovare. Il meccanismo era molto semplice. E restava tale solo se il puzzle non prendeva una strana piega, se non intervenivano forze misteriose. Sembrava proprio quella la direzione che aveva preso l’ultimo caso apparso in TV da pochi giorni. “Decine di criminali che muoiono per arresto cardiaco…”. Non era normale. Anche lui aveva pensato a qualche possibile causa ma neanche le sue più assurde ipotesi sembravano essere corrette. Poteva trattarsi di un tipo di virus o qualche agente organico? Non poteva essere: quale tipo di virus ha effetti del genere? Contagiando solo i criminali, poi. Una strana sostanza chimica di nuova invenzione? Certo, anche se fosse così avrebbe dovuto trattarsi del lavoro di un’immensa organizzazione ma, date le dimensioni dell’intera faccenda, poteva soltanto trattarsi della CIA o dell’FBI. Coincidenza? Possibile ma davvero molto poco probabile. Un giudizio divino? Near sistemò un altro pezzettino al suo posto, incastrandolo tra due suoi gemelli. Il mondo pareva pensarla così. Da quanto aveva sentito, era ormai molto diffusa sulla rete la voce secondo la quale si starebbe compiendo il giudizio di una divinità punitrice dei malvagi: lo chiamavano Kira, il giustiziere divino. Near aveva pensato a lungo al caso ma, nonostante quest’ultima ipotesi, per quanto assurda, sembrava essere la più gettonata e verosimile, non era disposto a crederci. Qualunque cosa stesse succedendo, non era comunque normale perché, da qualsiasi punto la si guardasse, l’intera situazione travalicava ogni logica e, con essa, i limiti del possibile. Non era l’unico a essere preoccupato: lo era anche L. Era in visita alla Wammy’s da una settimana ma, negli ultimi giorni era sembrato molto pensieroso. Quel giorno, non era neanche mai uscito dalla sua camera. Non poteva che esserci una sola ragione: il grande detective aveva già cominciato a indagare sul caso. “Presto se ne andrà”, pensò.
Con la coda dell’occhio vide Mello che s’incamminava verso l’uscita: come al solito, mentre lo oltrepassava, non lo degnò di una sguardo. Lui fece altrettanto. Vide che Watari lo chiamava in cucina e gli consegnava una fetta di torta. Sicuramente era per L. A conferma della sua teoria, vide Mello salire le scale diretto al terzo piano.
“Mello…”. Da quando aveva saputo dell’indecisione di L, si era impegnato al massimo per superarlo. Near non dubitava che lo facesse per dimostrare a L che era degno della sua stima e che fosse consapevole che, nonostante i suoi lodevoli sforzi, sarebbe sempre stato il meno adatto ma, il pensiero di essere invidiato Mello lo amareggiava.
Molti anni prima, loro due, erano stati amici. Avevano trascorso assieme molti momenti felici. Near ammirava Mello per la sua determinazione, la sua forza d’animo e il grande cuore che bilanciavano una testardaggine invidiabile e una certa avventatezza. Gli era affezionato. Ricordava ancora la prima volta che si erano parlati: era un giorno piovoso e loro due erano seduti su un divano del primo piano, posto d’innanzi a una finestra: guardavano la pioggia. Per quel periodo, la sua vita era stata illuminata da una fonte luminosa benefica che non lo feriva: Mello era il suo sole. Ingenuamente si era inconsciamente illuso del fatto che avrebbe potuto andare avanti così per sempre ma poi, l’indecisione di L li aveva allontanati. Mello era una persona molto orgogliosa: doveva dimostrare di valere. Conscio della sua bravura, cercava in ogni frangente di superarlo e, quando si rese conto di non riuscirci, cominciò a vederlo come un ostacolo insormontabile. Finì per realizzare che non sarebbe mai stato più bravo di lui e, per questo motivo, cominciò a non sopportarlo. Ma era questa rivalità che Near non sopportava, solo il pensiero lo rattristava. Così, per il momento, smise di pensarci.
Passarono diversi minuti e Mello non compariva. Near rovesciò la tavoletta di sughero e, per l’ennesima volta, ricominciò il gioco. “Vuol dire che L gli sta parlando…”.
Il tempo passava. Near completava il quadro. I tic tic delle tessere che si incastravano tra loro sembrava scandire gli attimi della sua vita. Per lui le tessere del puzzle e per L i casi da risolvere.
Rifletteva così Near quando, dopo mezz’ora, Mello scese di nuovo. Near lo fisso dall’angolo dei suoi occhi nascosti dalle ciocche bianche. Aveva sul volto la solita espressione di uno che ha appena parlato con L: un’espressione confusa, di un ragazzo che non sa se essere felice, lusingato o preoccupato. Ma c’era qualcosa in più: quando gli passò accanto, lo guardò, lo fece negli occhi, e nel suo sguardo si leggeva ancora insofferenza, ma un’insofferenza colpevole del proprio sprezzo: vedeva sentimenti contrastanti riflettersi nei suoi occhi. Sembrava in preda ad un tumultuoso conflitto interiore che forse Mello ritenne troppo presto da sanare perché volse lo sguardo e uscì dalla stanza. Near rimase di nuovo solo con tutta la sua logica che, in quel frangente, non gli disse comunque cosa pensare.
 
Near tornò al presente, lasciando quel ricordo lontano. Guardò il pupazzetto di Mello abbandonato a terra ed estrasse da una tasca dei pantaloni una vecchia busta stropicciata: quella che L gli aveva lasciato sotto il cuscino prima di partire. Ora sapeva perché, quel giorno, il suo sguardo era così tormentato: quel giorno aveva dato una parola, aveva promesso al più grande detective del mondo di aiutare il suo più grande nemico. Nonostante il fatto che per lui fosse un amaro boccone da mandare giù, nonostante il fatto che più si rifiutava di inghiottirlo più quel boccone diventava letale. Anche se poi aveva tradito la parola data, aveva deciso di onorarla ma, alla fine, aveva atteso troppo e gli Shinigami si erano presi anche Matt.
Near chiuse gli occhi: aveva sacrificato la vita del suo migliore amico e la sua per una causa maggiore, sapendo che gli eventi sarebbero solo diventati tessere nelle sue mani, mani che sarebbero riuscite a risolvere il puzzle, e l’avrebbero risolto da sole.
Era l’unico vincitore. Ma come poteva sentirsi appagato se al puzzle che era la sua vita sarebbero sempre mancati i pezzi più importanti?
“Alla fine, Mello non è riuscito a finire il gioco… e chi non riesce a completare il puzzle… è solo un perdente…“.
 
 
Fine
 
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Salve a tutti, questa è la mia seconda fanfic in assoluto. Scritta poco dopo il “Racconto di Mello”, è rimasta incompiuta per più di un anno fino a quando Hamber of the Elves -che ringrazio per il supporto- mi ha pregato di terminarla e pubblicarla. In verità, più che finirla, l’ho accorciata di almeno due pagine, ne ho modificato la storia e la conclusione. Secondo il progetto originale doveva essere più lunga e, ora che ci ho ripensato, davvero sconclusionata con un mancato OOC (che non ho mai avuto intenzione di fare!). è stato faticoso ma alla fine ce l’ho fatta: il pensiero di un lavoro incompiuto non mi perseguita più e posso tornare a dormire tranquillamente. Sono pure riuscita ad infilarci una mia interpretazione dell'odiossisma frase che Near pronuncia quando Roger annuncia loro la morte di L e che qui riprendo:«Chi non riesce a completare il puzzle è solo un perdente», diciamo che l'ho rielaborata in una chiave più malinconica.
Alcune curiosità: secondo la mia idea originale anche Near doveva giurare a L che avrebbe aiutato Mello ma mi sembra una stupidaggine dato che, secondo la mia trama, lui gli era affezionato come amico: un rifiuto da parte sua sarebbe stato assurdo come la necessità di pretendere la lui una tale promessa, non credete?
Grazie per aver letto questo racconto! Aspetto con ansia le vostre recensioni.
Pendragon of the Elves
 
 
  
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