Ten
little things that make me hate (love) you ♥
#8- Gloom [1330
parole]
Per Yurij lo
stress alle volte poteva
dimostrarsi una bestia pressoché invincibile.
Gli uncinava il cuore e, premendogli con forza le tempie, lo soffocava
con
lentezza: le sue dita lunghe ed artigliate gli avvolgevano il collo; il
gelido
alito gli mozzava il respiro rubando ogni
singola boccata d’aria ed i denti affilati come rasoi bucavano la
candida cute
del giovane, succhiandone via ogni energia.
Yurij allora cercava un posto, uno
qualsiasi, dove, sedendosi, avrebbe potuto nascondere il viso
tra le mani
per provare a calmare l’opprimente disagio che gli azzannava
l’anima.
Completamente solo in quella
trappola
mortale, si ritrovava a cadere a corpo libero in un gelido abisso di
timori,
dove non c’erano né le calde mani di Kei ad intrecciarsi con le sue, né
il
tepore del corpo del giapponese a rassicurarlo
d’esser vivo. Quindi, il male acquistava una forma ben più perversa ed
insidiosa che si depositava sulle membra del giovane uomo al pari
dell’umido
terriccio su di una bara.
Il profilo di Kei si faceva evanescente, e al suo posto si imponeva una
piccola
scatola di antidepressivi che il russo rigirava tra le mani senza aver
davvero
la speranza che quelle pillole potessero aiutarlo.
Era sempre stato restio a chiedere un parere medico, soprattutto se ciò
avesse
riguardato la sua condizione psicologica, però
in quegli ultimi tempi aveva finalmente compreso che da quel punto di
vista
necessitava di un aiuto.
Yurij non era debole, per nulla, ma
il nemico più mostruoso che avesse prendeva le semplici sembianze del
suo
stesso subconscio.
Lo scuoteva, lo rivoltava e lo riduceva a brandelli.
Quando calava le difese, troppo spossato dal lavoro o in seguito ad una
violenta lite col compagno, ecco che nell’angolo più recondito e
segretamente
marcito del suo cuore lo stress iniziava a germogliare coi propri
velenosi frutti.
Rabbia, rancore, frustrazione ed infine depressione.
Lo inasprivano, succhiando via ogni traccia della gioia di vivere che
aveva scoperto
solo in quella manciata di anni e
Yurij si vedeva strappar via anche il piacere di poter ascoltare il respiro di Kei.
Già, le sue sensazioni si ovattavano, restituendogli solo quanto di più
doloroso potesse erroneamente
captare: la solitudine dei propri
tormenti.
Hiwatari, in quei momenti, assumeva le sembianze d’uno spettro e,
divenendo
assolutamente impalpabile, non poteva; no, anzi, proprio non riusciva ad afferrare la mano di Yurij
caduto nelle fauci di un marcescente abisso.
Ed il russo, allora, gridava il suo nome fino a sentire i polmoni
bruciare,
fino ad avvertire il proprio cuore esplodere…
Kei lanciava silenziose occhiate al compagno che, accomodatosi,
scartava le due
pilloline di cui, a detta del medico, aveva bisogno.
Nel mutismo dei loro dialoghi, il giapponese da tempo stava soffocando
con
Ivanov fra le deterioranti catene di quella meschina trappola psichica.
Hiwatari c’era.
Si proclamava presente col suo silenzio e legato con un grumo
di carne e
sangue –dicesi cuore- al caparbio
russo
che lo ripeteva, lo faceva sempre…
«Sto
bene.»
Ma
non ci credeva più neanche lui.
L’unica debolezza di Yurij si era sempre concentrata nell’equilibrio
psicologico del ragazzo e Vorcov, a suo tempo, aveva notato tale
particolare,
per poi tentare di cancellarlo con assurde
diavolerie.
Bhé, bisognava dire che per un po’, in effetti, il monaco fosse
riuscito nel nobile intento.
Però, il giovane Ivanov aveva ormai liberato da anni la propria mente
da simili
vincoli ed era tornato a riacquistare e a tenersi
stretto quei difetti che lo
rendevano
umano.
Eppure, non poteva e non doveva
continuare a precipitare nell’infinita e meschina trappola tesagli dal
suo
stesso nero ego…
Kei gli prese una mano e, restando zitto, raccolse tra le dita le due
pasticche; poi si inginocchiò di fronte al ragazzo che, seduto a volto
chino,
non aveva mosso un solo muscolo.
Il giapponese lo percepiva dai suoi respiri, lo intravedeva negli occhi
azzurri
che azzardavano un’inutile fuga, lo comprendeva grazie alle sue gelide
mani: Yurij,
con la sua ben nota testardaggine,
cercava semplicemente di tenere Kei lontano da quel suo universo di
cristallo,
rigettando l’idea che anche il giapponese vi rimanesse legato… e, no, si rifiutava di accettare che
Hiwatari, con le sue fredde
attenzioni
fatte di indifferente amore, si
fosse
già immerso fino al collo ed arrancasse per portare in superficie lui legato al fondo.
Kei conosceva la causa del malessere di Yurij –almeno
di questo ne aveva intuito il principio-: il Giappone non
era la terra ideale dove vivere, non se fin da bambini non si veniva
abituati
ai suoi folli ritmi.
L’educazione di Ivanov, di tipo militare, sarebbe potuta calzare a
pennello con
lo stile di vita del paese del Sol Levante, se solo il giovane avesse
continuato ad inibire le proprie sensazioni o a subire gli strambi
trattamenti
che lo facevano tanto rassomigliare ad una macchina…
Ma Yurij era umano, straniero,
ambizioso e certamente non poteva godere di una salute invidiabile per
i suoi
oscuri trascorsi.
E se un avvocato giapponese impiegava dieci ore per concludere con
successo la
stesura di un’arringa straordinaria, il russo avrebbe dovuto impiegarne
venti
per farla apparire quanto meno accettabile alle orecchie dei giudici;
ed era
già notevole che avesse conquistato
una carica tanto importante in un Paese dove i forestieri erano tenuti discretamente alla larga –come anche addirittura certi stessi compatrioti..!
“Yurij, basta che tu lo dica e torneremo in Russia anche solo per una
vacanza.”
Quel sussurro fece sorridere Ivanov che finalmente sollevò gli occhi
per
fissare le iridi scure di Kei ben piantate –con
fare neutrale- sulle
sue.
“Sei preoccupato?”
D’istinto, prima che Hiwatari potesse fuggire,
Yurij gli prese la mano dove l’altro stringeva le medicine e le lasciò
cadere a
terra.
Alle orecchie del giapponese, il suono sordo delle pillole che
rotolarono sul
pavimento bianco sembrò assai simile ad un lontano grido di rabbia.
Già, parve quasi che quelle pasticche si stessero ribellando: desideravano e pretendevano
di poter piantare nel russo non solo il seme dei lori
benefici, ma anche il virus di un’ulteriore e collaterale corrosione.
In cuor suo Kei gioì.
Quello schifo
che Ivanov tanto tentennava nell’ingurgitare se ne andava al diavolo.
“Sì.”
Schietto, non aveva distolto per un singolo attimo lo sguardo dagli
occhi
appena velati del compagno.
Nel loro profondo vedeva vivificare un’inquietudine che, lo ammise, lo
turbava
ed alla medesima maniera accresceva una sorta di astio
nei confronti dello stesso Yurij.
Oh! Perché il suo compagno s’era
rassegnato, lasciando che le chimere fameliche della propria fragilità
lo tormentassero?
Hiwatari lo chiedeva con ardore, precipitando nell’azzurro cielo del
russo…
“Mi dispiace.”
Il bisbiglio di Ivanov fu ancora più rumoroso del lento scivolare delle
pillole; gli si insinuò nel petto, scavandovi piano ogni singola
sillaba solo
per poterne dimostrare la disperata
sincerità.
Yurij cercava il suo cuore.
Nient’altro.
Yurij desiderava il suo calore.
Nulla di più.
“Nei miei incubi ti ho visto sparire.” Aggiunse, poi, d’un tratto, in
aggiunta
alle sue non dovute scuse.
Kei fu decisamente colto di sorpresa a quell’inaspettata rivelazione e
si
chiese cosa avesse mai potuto spingere Yurij sulla soglia di simili timori. D’altra parte, il giapponese non
aveva mai neanche sfiorato la possibilità d’abbondare il russo e,
forse, in
quel caso sarebbe stato Hiwatari stesso ad impazzire per primo..!
Allora, Kei sospirò e, poggiando la fronte contro quella del compagno,
gli concesse di intrecciare più
saldamente
le loro dita; gli permise di ricercare la sua presenza nella maniera
più
concreta che potesse.
“Sono qui, anche io ci sono.”
Parlò a voce bassa, timoroso che persino i muri, ascoltandolo,
avrebbero potuto
ridere a tale sfoggio di altruismo.
Però, questo bastò affinché un sorriso si dipingesse sulle labbra di
Yurij,
lasciandolo confrontarsi liberamente con gli occhi di Kei.
Non percepiva più i pestilenti respiri dell’ansia sottrargli
l’ossigeno:
quell’oscena creatura senza volto e dalle fauci nere e marce si era
dileguata
in un soffocato gemito di dolore…
Ora restava solo Kei che, nutrendolo con la sua presenza, gli si imprimeva sotto pelle, nell’anima, sul
cuore ed ovunque quel calore, o meglio quella
consapevolezza d’avere una speranza, volesse lambirlo con le
proprie incandescenti ed inoffensive
fiamme.
*I
was alone,
staring over the ledge, trying my best not to forget all manners of
joy, all
manners of glee and our heroic pledge.*
*Owari*
*Ero
solo, sporgendomi
oltre il davanzale, facendo del mio meglio per non dimenticare la
gioia, l’allegria
e la nostra eroica promessa*
Come nella
raccolta precedente, le ultime tre shot presenteranno una strofa di
un testo dei Placebo e questa è la meravigliosa Meds
Ooooh! Ed
anche questa arriva dopo secoli… mi perdonate? =D
Se penso che
ho pronta solo la prossima shot e la decima è ancora da ideare…
argh! Non voglio pensare a quando aggiornerò! XD
E dire che
nove su dieci capitoli li avevo pronti e comunque sono una lumaca.
Sigh! T^T
Bhé, spero
comunque che anche questa storia possa esservi piaciuta, personalmente
ho cercato di impegnarmi il più possibile per rendere verosimile la
situazione,
da tutti i punti di vista, come ho tentato di fare in ogni shot.
Well, vi
saluto, allora, augurandomi di
ricevere un vostro parere! =)
Un bacio!
Iria.