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Autore: Fusterya    17/04/2012    4 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Secondo capitolo: dopo la reazione di John, Sherlock sta annegando nel sangue.  



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"Andiamo, Sherlock, alzati!" la voce di John era concitata, dura.
 Lo teneva per l'omero destro e le sue dita gli si conficcavano nella carne, gli facevano male. Sherlock era seduto per terra, su un marciapiede grigio, QUEL marciapiede grigio, e guardava il cemento davanti a sé, col capo abbassato.
C'erano pozzanghere di sangue scarlatto tra le sue gambe. Accompagnato da un suono suono viscoso e sinistro, ne cadde un altro grosso fiotto che gli schizzó l'interno cosce dei pantaloni.
John, accovacciato davanti a lui, quasi urlava. Lo scuoteva. Aveva la sua pistola automatica nella mano destra, la stringeva tanto che le sue nocche erano bianco latte.
"Mi senti, cazzo? Ti devi muovere, devi alzarti!".
Lui si portò le mani al volto e sentì il viscido calore del sangue imbrattargli i palmi. Era lui che sanguinava così?
Non provava dolore, non sentiva niente altro che la sensazione calda del sangue che fluiva giù dalla sua testa, gli scivolava lungo il collo, impregnandogli i vestiti, e gocciolava dalla sua fronte, zampillando per terra nella pozza già formata davanti a sé.
"Non posso" gli rispose guardandosi le mani zuppe "devo stare qui".
Alzò la testa e lo sguardo di John era folle di rabbia.
C'era altra gente intorno, gente blaterante che provava ad avvicinarsi a loro, ad allungare le mani per prendere Sherlock: vide due braccia strette in una giacca beige venire verso di sé, urtando John. Che senza neanche guardare, sollevò la pistola verso quel volto sconosciuto e fece fuoco.
Sherlock sussultò, l'uomo cadde all'indietro, gli altri urlarono.
Gli occhi di John avevano una luce distorta che lui non gli aveva mai, mai visto.
"Li ammazzo tutti se non ti alzi in piedi e non vieni con me!"
"Non posso!" ansimava lui, sentiva il terribile sapore del sangue in bocca" devo stare qui, è previsto che io resti qui!"
La folla si stava di nuovo radunando attorno a loro, sentiva le loro voci allarmate e sovrapposte, frasi confuse come : aiutiamolo, chiamate un'ambulanza.
 Una ragazza dai tratti asiatici si accovacciò tra loro ed prese Sherlock per il bavero "Signore, ho chiamato i soccorsi, come si sente?"
"No!" mormorò lui cercando di allungare le mani verso John, ma John, fulmineo come il bravo soldato che era, continuò a fissarlo senza battere neanche una volta le ciglia, gli lasciò il braccio, agguantò lei per i capelli tirandola violentemente in mezzo a loro, esattamente nel mezzo, e le sparò in testa.
Sherlock avvertì l'odore forte della detonazione bruciargli il naso e il sangue della ragazza, bollente, che gli schizzava in faccia come fosse sotto la doccia.
John la lasciò andare e quella cadde di faccia nella gigantesca pozzanghera cremisi tra le gambe di uno Sherlock ammutolito.
"Li ammazzo tutti" ripeté John calmo. 
"Non servirà, non posso!" finalmente si riscosse, si arrabbiò, urlò "non posso venire con te, non ora!"
John tacque un istante, quello sguardo livido di follia era sempre lì.
Anche il suo volto era schizzato di sangue, ne aveva tra i capelli biondi, sulla giacca verde militare.
Per una frazione di secondo, il suo sguardo si addolcì e tornò ad essere quello placido e rassicurante  del suo vecchio amico di sempre.
"Ok, come vuoi" accondiscese "allora non c'è altro modo".
John Watson sollevò la mano destra che stringeva la pistola, se la puntò sotto il mento e sparò.
Sherlock Holmes sentì un urlo che non aveva niente di umano prorompergli dalla gola mentre il corpo di John si sbilanciava in avanti e si accasciava tra le sue braccia insanguinate.

Il thé che placidamente roteava nella tazza di porcellana, sospinto da uno dei più brutti cucchiaini d'argento che avesse mai visto, era scuro e viscoso, aveva il colore profondo di un cognac invecchiato bene.
Sherlock si chiese se non fosse il caso di svuotarlo nel lavabo e passare al cognac vero, anche se non erano ancora le 6 del mattino.
"Notte tranquilla, naturalmente" chiosò una voce ironica da dietro le sue spalle.
Sherlock storse le labbra.
"Come ogni notte, Mycroft,"
"Ti ho sentito a due piani di distanza" lo informò il fratello, già perfettamente sbarbato e vestito, affiancandosi a lui e prendendo tazza e bollitore "E credo ti abbia sentito anche John Watson dall'altra parte della città."
Sherlock gli si allontanò per andarsi a sedere al tavolo di cristallo della enorme cucina moderna. Casa di Mycroft era immensa, costosa e vittoriana: tutto era nuovo ma perfettamente classico, sembrava un'ala privata del Diogene's.
Tranne la cucina, appunto, che sembrava la plancia di comando dell'Enterprise.
Sherlock scivolò in una sedia di plexiglas trasparente di chissà quale designer e si prese le tempie tra le dita.
Il mal di testa quella mattina era atroce.
Dietro gli occhi chiusi rivedeva John che si puntava la pistola sotto il mento con quello sguardo folle ma carico d'affetto.
Quasi sentiva in bocca il sapore di tutto quel sangue.
Non gli era mai accaduto prima, ma i sogni degli ultimi giorni, che esplodevano così vividi e violenti durante un sonno veramente esiguo e agitato, cominciavano a spossarlo.
Aveva pensato che di dover cambiare qualcosa in quello che stava assumendo, poi aveva deciso che era più sicuro smettere.
Doveva riacquistare equilibrio, istinto, raziocinio.
Mycroft gli si sedette di fronte con la tazza tra le mani e lo scrutò per lungo tempo mente lui si passava le mani tra i capelli neri, trasandati, e poi si rimassaggiava le tempie, e poi di nuovo si passava le mani tra i capelli, in una specie di strano loop.
"Sei ridotto male" sentenziò infine.
Sherlock lo guardò di traverso.
"Dovresti smettere con quello schifo che prendi per dormire... o per stare sveglio... o qualunque cosa faccia, visto che a quanto pare non ti aiuta neanche in quello"
Sherlock scrollò le spalle "è una tua impressione, dopo penso meglio e lavoro meglio, invece. E quello che penso ultimamente non mi piace".
"Fai questi sogni da quando hai rivisto John, non è vero?"
Sherlock bevve un sorso di thé che in bocca gli sembrò sapone.
Dover dire cose scontate e inutili lo irritava più del solito, in questa situazione.
Per un attimo immaginò di ribaltare il pesante tavolo di vetro e farlo spaccare in mille pezzi sul pavimento.
Sarebbe stato liberatorio. Una volta, forse, lo avrebbe fatto senza neanche rifletterci.
"Mycroft, sai bene quanto me che i sogni sono il sistema che usa il mio cervello, e quello di tutti, per processare le informazioni ricevute di giorno”
“... e per sfogare tutto ciò che di insensato abbiamo dentro” concluse il fratello, senza malizia alcuna.
Sherlock si sollevò gli occhi inviperito, ma poi trattenne le parole.
Mycroft era... triste.
Lo guardava senza compatimento, senza sufficienza, senza ironia. Era triste e basta.
Un’espressione non nuova per Sherlock, ma che affondava la sua radice in un tempo lontanissimo che a lui non piaceva ricordare.
Sherlock distolse lo sguardo infastidito.
“Smetti di essere preoccupato” gli ordinò “non sopporto quando lo fai. Questa agonia sta per finire. Libererò il tuo scantinato e anche te.”
Mycroft si arrese e aprì il giornale che aveva portato con sè.
“Tra qualche giorno la notizia sarà ufficiale. Sei pronto per tutto il clamore mediatico?”
Sherlock terminò il thè con un lungo sorso: lo disgustava... il suo scarso senso del gusto  era definitivamente andato a farsi benedire, ultimamente, ma almeno era ancora caldo.
“La cosa mi preoccupa molto poco per quanto mi riguarda.”
Mycroft appoggiò il quotidiano sul tavolo.
“John sarà di nuovo assalito dai cronisti, e non solo. E’ il caso di parlargliene. Se ha ancora conservato intatte le sue facoltà mentali dopo la tua... visita da fantasma.”
Sherlock guardò il fratello con aria greve.
"Non vuole vedermi, ma neanche posso affidare a qualcun altro una cosa così delicata, a nessuno."
"Posso parlargliene io"
Sherlock sorrise, un sorriso da crotalo: "Odia te più di me, tu che mi hai venduto a Moriarty e hai dato il via a tutto questo".
Mycroft sollevò le sopracciglia: "Casomai non me lo ricordassi...."
Sherlock gli fece cenno con la mano di lasciar perdere.
"Avevi i tuoi motivi, lo so" minimizzò.
In fondo suo fratello era per una buona percentuale come lui. Il fine giustifica i mezzi.
“Troverò un modo”
Si alzò facendo stridere la sedia sul pavimento, intenzionato a rifugiarsi nel suo antro.
“Sherlock...” Mycroft aveva una voce perentoria “trova il modo, sì. La matassa non è ancora del tutto sbrogliata e tu lo sai.”
Mancano dei pezzi, lo so bene, pensò Sherlock senza rispondere.
Tutto ciò che c’era dietro Jim Moriarty è stato quasi portato alla luce, ogni cecchino cacciato come una lepre e fatto fuori, ogni fiancheggiatore, ogni insospettabile collaboratore, ogni spia, ogni pedina. Quasi ogni filo della ragnatela è stato seguito, dipanato, spezzato.
Quasi.
Ne manca uno di cui non conosciamo nemmeno il nome, ma troverò quel filo, lo seguirò, lo dipanerò, lo spezzerò.  
“Troverà lui me quando saprà che sono ancora vivo, è per questo che dobbiamo farlo al più presto” disse come se Mycroft avesse potuto sentire quello che aveva detto nella propria mente. E Mycroft aveva potuto.
“Troverà anche John, non appena saprà che sei ancora vivo. L’esca perfetta per te, un’altra volta.”
Sherlock aveva camminato lentamente fino alla grande vetrata che dava sul giardino curatissimo, guardava fuori sapendo che tra meno di un’ora, all’arrivo della governante e del giardiniere, sarebbe ricominciata la sua prigionia. E per una volta provò sollievo, non poteva più sopportare la puntura dello sguardo del fratello dietro la sua schiena.
La luce cominciava a cambiare, il giorno si faceva spazio a fatica in una giornata nuvolosa e pesante.
Si morse le labbra esangui e screpolate.
“Troverò un modo anche stavolta, Mycroft: che il diavolo mi porti se non lo farò.”
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Ore dopo, Sherlock è ancora seduto sul suo letto - un detestabile letto singolo posto vicino ad una parete qualsiasi - con la schiena appoggiata al muro, e fissa la finestra in alto, la cui cornice superiore termina appena sotto il soffitto, un rettangolo soffocante che dà sul cortile esterno della bella magione di Mycroft.
Il fratello lo nasconde lì da allora, nessuno ficcherebbe mai il naso in casa di Mycroft Holmes. Inoltre i sistemi di sicurezza e di sorveglianza avevano dato per mesi a Mycroft la flebile illusione che forse sarebbe stato difficile per Sherlock uscire non visto.
Mito sfatato dopo la sua visita in Baker Street, naturalmente. E molte altre visite in giro per Londra, da Molly soprattutto, come  Mycroft aveva scoperto dopo.
Ha allestito parte del seminterrato per lui. Una spartana camera da letto, un bagno, un grande spazio antistante che serviva da laboratorio-sala computer-soggiorno.
Ci sono un divano, una tv, una libreria, una serie infinita di apparecchiature ultratecnologiche, monitors, pc, libri... ma non assomiglia in niente a Baker street.
Ogni volta che si guarda attorno, Sherlock prova umanissima, irritante, miserabile nostalgia.
In fondo nessuno più di lui è abitudinario, un ossessivo borderline tenuto insieme da sempre, e  alla bell’e meglio, da una serie di punti fermi che era meglio non cambiassero mai. Il violino, che ora non poteva né desiderava suonare. La sua poltrona, che era rimasta là. La sua tazza da thè. La sua casa, che ora rischiava di essere data via.
John.
Ovviamente.
Nominarlo davanti a Mycroft è una tortura.
Dover fingere distacco, preoccupazione dovuta solo alle notizie negative che arrivano dal fronte delle indagini ed essere cosciente che non si tratta solo di quello.
Dopotutto era ciò che lo aveva spinto fuori, per la strada, fino a Baker Street, in un’azione tanto avventata quanto stupida, seppur ben pianificata.
Una cosa non da lui, il vecchio lui.  
Perché si sente cambiato, profondamente, e non in meglio.
La sua vita è confinata in 47 metri quadri camuffati dietro un finto muro affinché il personale di servizio di suo fratello non sappia mai che lì sotto c’è qualcuno. Durante il giorno, fino al primo pomeriggio, Sherlock si sforza di non far rumore e di non fare imprudenze che ne possano tradire la presenza, e questo non è da lui.
Niente, in questa situazione, è da lui.
Le droghe hanno aiutato molto, fino a un certo punto. Quelle per dormire di tanto in tanto, quelle per restare sveglio e processare tutte le informazioni che l’intelligence gli passa. Mycroft è spaventosamente preoccupato, ma gliele ha sempre procurate: ha paura di cosa potrebbe fare se rimanesse là sotto completamente lucido.
In questo momento è lucido, infatti, e riesce solo a guadare la finestra in alto, le braccia strette attorno al proprio stomaco che comincia a fare male per il digiuno, la mancanza di  sostanze, il dolore.
Non fisico.
Ancora poco e potrà venire fuori definitivamente da quel buco, ma la cosa non lo fa stare meglio. Ha i nervi a fior di pelle, l’esigenza impellente di fare in modo che John lo ascolti comincia a mangiargli la carne, letteralmente.
Gli manda almeno 5 messaggi al giorno da una scheda anonima prepagata, intervallati da ore di distanza per non essere ossessivo ma non dargli nemmeno tregua, come gli aveva promesso.
I testi dei messaggi sono abbastanza anonimi, sembrano provenire da un conoscente qualsiasi, ma lui sa che John è in grado di interpretarli. Non può chiamarlo. Se lo chiamasse e John rispondesse, dovrebbe parlare... e scommetterebbe qualunque cosa che il telefono di John è sotto controllo, non solo da parte di Mycroft.
Ma è anche piuttosto sicuro che John non risponderebbe affatto.  
Non avrebbe mai creduto che tre sole parole avrebbero potuto devastarlo tanto.
Lui che non aveva mai dato peso alle parole altrui.
Ma quelle parole erano diventate una pioggia di vetri che gli precipitava addosso con fragore, facendogli prendere coscienza, in maniera sanguinaria, di cosa avesse fatto veramente.
Mi hai abbandonato, gli aveva detto.
Mi. Hai. Abbandonato.
Mi hai abbandonato quando sei morto e mi hai abbandonato quando hai scelto di non dirmi che eri vivo.
Sherlock ricorda, deglutisce a fatica e si piega in avanti.
La nausea gli risale in gola come una marea nera e viscida, non riesce a contrastarla. Ha deciso da ieri di smettere con la chimica, come ha fatto altre volte, ma non sa davvero se quell’impellente necessità di vomitare sia dovuta all’astinenza che comincia, e che lui ha sempre saputo controllare, o alle parole di John.
Parole che lo fanno pensare al rosso, al sangue, al sangue del sogno. Alla pioggia di sangue del sogno.
John che, con sollievo, si punta la pistola e fa fuoco perché è stato lasciato solo, in mezzo alla morte, di fronte ad un cadavere spiaccicato sul cemento. Non ci vuole uno psicologo per interpretare quel sogno ricorrente.
Rigetta sul pavimento una roba giallastra, un residuo di chissà cosa rimasta nel suo stomaco perennemente semivuoto, poi si riappoggia esausto con la schiena contro il muro.
John. Devi ascoltare.
Stasera uscirò senza essere visto, non potrai non ascoltarmi.
Non ti ho abbandonato, ma tu devi ascoltare.
Non lo avrei mai fatto.
Non lo farò mai.
  
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