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Autore: Miss Demy    18/04/2012    38 recensioni
C'è un'età per l'amicizia, per l'affetto fraterno, per le confidenze, e un'età per l'Amore capace di far scalpitare i cuori e mandare in tilt il cervello.
Tra l'amicizia e l'Amore, alcune volte il passo può essere breve, altre impiega più di dieci anni. E se razionalmente non fosse giusto? Ascolta il tuo cuore, non c'è nient'altro che tu possa fare.
Dal cap.1:
Un colpo di tosse li destò da quella pericolosa lite.
Voltandosi verso l’arco che collegava il salone al resto dell’appartamento, gli occhi spalancati e imbarazzati di Hana li osservavano. Non era l’unica.
Setsuna, aveva assistito. Era curiosa di ascoltare come il suo fidanzato avrebbe giustificato quella scena che lo vedeva ancora in ginocchio, tra le gambe dischiuse di Usagi, cingendole la vita e con il viso a pochi centimetri di distanza da quello della ragazzina. Che nervi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mamoru/Marzio, Nuovo personaggio, Setsuna/Sidia, Usagi/Bunny | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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 Capitolo 4: Sensi di colpa 

«Ma proprio adesso doveva accadere?» Hiroshi continuava a domandarselo da quasi un’ora. Non c’era nulla che egli potesse fare per sistemare quella situazione imprevista, si limitava a dondolarsi avanti e indietro, su una di quelle sedie di plastica rigida attaccate alla parete cercando scaricare l'agitazione. Con il busto incurvato e i gomiti sulle gambe, strofinava il pollice sul mento ruvido, osservando la moglie camminare lungo il corridoio e sospirare nervosamente. Sebbene ci provasse, non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di quella ragazza spaventata che piangeva, riuscendo a farlo sentire in colpa mentre la prendeva in braccio e cercava di calmarla sussurrandole: «Stai tranquilla, non puoi più restare in queste condizioni, dobbiamo farti visitare.»

Il cuore gli si stringeva nel petto mentre lei, madida di sudore, continuava ad aggrapparsi a lui, come a volergli impedire di avviarsi verso la porta d’ingresso. «No, no, non ci voglio andare in ospedale» lo implorava con voce flebile, mentre stringeva la sua camicia e cercava di combattere contro il forte dolore che le impediva persino di respirare.
 
Sospirò Hiroshi, portandosi dritto e passando una mano tra i folti capelli, ai quai i suoi cinquantaquattro anni avevano donato l’effetto sale-pepe.
«Allora?» aggrottò la fronte, facendo così accentuare le piccole rughe.
La donna arrestò il suo passo nervoso; l’ansia, che quella situazione le aveva messo addosso la faceva sentire come se una bomba ad orologeria fosse stata innestata nel suo cervello, col rischio di esplodere da un momento all’altro.
Nella sua vita non erano mancati momenti difficili in cui maturare meglio il ruolo di madre ma occuparsi di qualcuno che non fosse sua figlia l’aveva ricoperta di responsabilità troppo pesanti anche per lei. Fissò il marito negli occhi tanto blu quanto stanchi.
«Niente, è spento, non so come rintracciarli» spiegò stringendo il telefono cellulare.

Hiroshi si alzò, andandole vicino e scrutando il lungo corridoio; il suo sguardo era sempre più agitato mentre attendeva di veder comparire colui che stavano attendendo con ansia.
Si domandò se in quell’ospedale i medici fossero sempre così lenti ad arrivare o se quell’attesa così lunga e snervante fosse solo una sua impressione dovuta dalla circostanza.
Lasciando uscire un sospiro di sollievo, l’uomo posò una mano sulla spalla della donna facendo un cenno con il capo davanti a sé ed esortandola a voltarsi.
«Ecco, è arrivato.»
 
 
Mentre si avviava a passo svelto verso la camera pre-operatoria, il volto di Mamoru veniva impallidito dalle luci al neon situate sul soffitto, mentre il suo camice spiccava tra le pareti giallo ocra dell’ampio corridoio. Di certo, i turni di notte non erano il massimo che un medico potesse desiderare e spesso sperava che tutto fosse tranquillo senza casi d’urgenza per i quali dover intervenire. Aveva bisogno di una bella vacanza, di spezzare la routine fatta solo di lavoro, casa, e sporadiche serate in qualche bel ristorantino insieme alla sua donna. Una volta terminato l’intervento di appendicectomia, avrebbe parlato con il primario: se gli avesse concesso il venerdì, avrebbe potuto accontentare Setsuna portandola fuori città per un week end. L’avrebbe resa felice e lui ne avrebbe approfittato per rigenerarsi dalla solita vita. Bloccò i suoi pensieri rimanendo sorpreso quando si accorse dell’uomo dai capelli brizzolati che, con aria preoccupata, sibilò qualcosa alla donna non appena lo notò.
 
«Che ci fate qui?» si avvicinò a loro a passo spedito, con sguardo curioso e il tono della voce un po’ più alto del solito; non sembravano star male, eppure uno strano presentimento si faceva strada in lui rendendolo inquieto.
 
«Mamoru, Usagi è stata male stanotte, l’abbiamo portata al pronto soccorso perché continuava a lamentarsi per il forte dolore» spiegò la donna con voce agitata, guardandolo come se solo lui potesse lenire quella sensazione di spavento che l’attanagliava.

«Al pronto soccorso hanno fatto degli accertamenti e hanno detto che è appendicite e va operata subito» Hiroshi specificò, facendo qualche passo indietro e appoggiando la schiena alla parete. L'immagine di Usagi che,  appresa la notizia, aveva iniziato a piangere e urlare si palesò nella sua mente.
Mamoru rilasciò all'aria un sospirò profondo, portando entrambe le mani a strofinare il viso. Conosceva Usagi, sapeva quanto fosse spaventata al solo pensiero di mettere piede in un ospedale e immaginava le sue lacrime, il suo disappunto per quella situazione che non avrebbe potuto evitare. Usagi era cocciuta e testarda, calmarla sarebbe stato arduo.
«Mamoru, ci hanno detto che la opererai tu, dimmi che è vero.» Più che una domanda di conferma, quella della donna era una speranza.

Lui annuì più volte, guardando la madre e scorgendovi tensione. «Stai tranquilla, ci penso io a lei» posò una mano sulla sua spalla con fare rassicurante, «avete chiamato Ikuko?»

«Sì, ci ho provato finora.»  Il telefono cellulare nella sua mano lo testimoniava. «Ma è spento e non so come avvisarli.»
Mamoru sembrò non essere in grado di dare consigli alla madre, il suo unico pensiero era entrare in sala operatoria e rasserenare Usagi, immaginandola come un indifeso coniglietto tremante. «Okay, adesso vado dentro, vi faccio sapere qualcosa appena potrò.»
 
 
 
In quel momento, il suo corpo era simile a una piccola foglia in un giorno di vento gelido, le sue membra tremavano, come avevano fatto solo poche volte nella vita, attraversate da un misto di paura irrefrenabile e un senso di impotenza per non poter fare altro che accettare la situazione senza poterla cambiare.
 
C’era stato il giorno in cui il suo cuore si era fermato per alcuni minuti. Una mattina di due anni addietro, la sensazione era stata quella di perdere il respiro, come se stesse morendo soffocata, quando un malinconico sussurro che invocava il suo nome l’aveva riportata alla realtà dal mondo dei sogni.
«Usa…» e Usagi si era svegliata, notando Mamo-chan seduto sul suo letto con lo sguardo triste e ansioso di incontrare i suoi occhi che, pian piano, spuntavano dalle palpebre.
Lo aveva visto lì, accanto a sé, con i pugni chiusi sul materasso e le labbra serrate; i flebili raggi di Sole che filtravano dalla saracinesca abbassata creavano giochi di luce sul suo viso, facendo sì che i ciuffi sulla sua fronte rendessero ombrata la zona dei suoi occhi. Non aveva avuto il tempo per domandarsi come mai il suo amico e vicino di casa fosse nella sua camera alle 6.30 del mattino, a svegliarla dolcemente. Le era bastato osservare il suo volto dalle espressioni troppo serie, non in grado di proferir parola, per capire tutto. Sussultando, si era automaticamente messa a sedere, sgranando gli occhi, ancora fissi su quelli di lui, e scuotendo la testa più volte, non accettando lo sguardo triste ed eloquente del ragazzo che valeva più di mille parole.
«No!» aveva sussurrato, stringendo il lenzuolo tra le mani, come se non volesse crederci, accettarlo. «No…»
Mamoru aveva avvolto le mani su quelle rigide di lei. «Se ne è andato nel sonno, non ha sofferto, Usa,» aveva cercato di edulcorare quell’amara realtà che faceva male.
Al diavolo il fatto che è anziano e malato,” aveva pensato lei, era una magra consolazione, vana, perché nonostante cercasse di razionalizzare l’accaduto, gli occhi continuavano a bruciare e il cuore sembrava essersi fermato sgretolandosi nel suo petto.
Per diciotto anni, c’era stato tanto amore per lei da parte di quella figura simile più a un padre che a un nonno, non poteva dissolversi o cancellarsi come se non fosse mai esistito, neppure il tempo lo avrebbe permesso.

Le lacrime erano uscite istintive, mentre lei rimaneva a fissare un punto indefinito del lenzuolo, non sapendo ancora che da quel momento in poi il dolore provato in quegli istanti avrebbe avuto il colore dell’alba che pian piano iniziava a rischiarire il buio della sua stanza, e il profumo sarebbe stato quello troppo aspro di Mamoru che le era rimasto sulla pelle anche dopo quell’abbraccio pieno di comprensione e conforto.
 
 
Smise di ricordare quel giorno. Nonostante tante volte, quando era in difficoltà, pensasse a suo nonno sperando riuscisse in qualche modo ad aiutarla, il tremore non si placava e la paura cresceva, scandita dall’infernale rumore dei ferri. Si voltò alla sua destra. Dalla posizione orizzontale, le infermiere ricoperte da camici di poliestere verde sistemavano il carrello degli strumenti operatori. Le sentiva parlare, ridere, anche se a lei arrivavano solo fastidiosi suoni confusi.
“Stupide insensibili senza rispetto per chi soffre” pensò tra sé, mentre una mano premeva sulla fronte, intenta ad attutire l’atroce mal di testa.
Il rumore della porta che veniva aperta attirò la sua attenzione. Voltandosi dalla parte opposta, il cuore smise di battere per un istante.
«Mamo-chan» sibilò, mentre una lacrima tra le sue ciglia scivolò sul tavolo operatorio. Il suo cuore riprese a battere così forte che per un attimo riuscì a distrarsi da ogni altro suono all’interno della stanza.
Mamoru era arrivato, e con lui tutta la protezione e la sicurezza che da sempre rappresentava per lei. Lui sistemò la mascherina sul viso prima di avvicinarsi e sfoggiare uno dei suoi sorrisi rassicuranti. Poco importava se il suo volto fosse per metà coperto, lei riuscì a scorgere la sua espressione attraverso la luce che riflettevano i suoi occhi blu.
«E io che pensavo che non ti avrei più rivista per qualche giorno!» Ironizzò cercando di smorzare la paura che leggeva sul suo viso umido.

«Dottor Chiba, qui è tutto pronto, stiamo aspettando l’anestesista.» L’infermiera lo aiutò a infilare i guanti di lattice osservandolo annuire soltanto, con occhi concentrati sulla ragazza.

«Mamo-chan, ti prego, troviamo una soluzione» tremava, allungando il braccio libero dalla flebo verso l’amico, «prenderò le medicine ma fammi andare via… Ti prego.» Un singhiozzo pose fine a quella vana richiesta, ma il suo sguardo eloquente non intendeva arrendersi.

«La signorina non ha smesso di piangere neppure per un attimo.»
E Usagi odiò ancora di più quella donna insensibile dal tono ironico. Che diavolo aveva da ridere in un momento tragico e delicato come quello?
«Ho tanta paura…» sussurrò, ignorando l’infermiera, mentre la sua mano si posava sul polso del ragazzo; lo strinse, come se quel contatto più intenso servisse a far capire le sensazioni di fragilità e sconforto che dilagavano come un fiume in piena dentro di sé. E forse, solo con il tono della sua voce riuscì a trasmettere la sua disperazione. «Sono sola, sono tanto sola, e tutto questo sembra un incubo.»
Mamoru sfilò i guanti, provocando disappunto nell’assistente di sala.

«Dottor Chiba, dopo dovrà lavarsi di nuovo!»

«Lo so» la liquidò con noncuranza mentre si sedeva sullo sgabello riservato all’anestesista e lo avvicinava al tavolo operatorio; prese la mano dell’amica e, quando la trovò gelida, iniziò a strofinarla con la sua, cercando di riscaldarla.
«Ehi, ascoltami.» La vide annuire con aria spaventata e continuò. «Non sei sola, ci sono io qui con te e ti prometto che non ti lascerò sola finché sarai in questo ospedale.» E alla parola ospedale, il pianto di Usagi riprese, le lacrime bagnarono le sue ciglia scivolando sulle guance rosse.
«Per favore, Usako, calmati,» la pregò con voce paziente, portando entrambe le mani a riscaldare quella di lei. Una si posò dopo su quel viso agitato provando a rilassarla con il suo tocco delicato. «Questo è l’intervento più facile che ci sia in chirurgia. Sai, è così semplice che è il primo intervento che spiegano agli specializzandi del primo anno.»

Sì, vero, lo avevano spiegato pure a Grey's Anatomy pensò ma quello non era un telefilm e lei non voleva essere sottoposta a nessun intervento chirurgico.
«Mi spavento, Mamo, per favore, cerchiamo una soluzione.» Cosa avrebbe dovuto fare per convincerlo?

Mamoru scosse la testa, lasciò la sua guancia andando a poggiare la mano sul fianco destro coperto solo da un telo blu. Lei trattenne il fiato, mordendosi il labbro inferiore per celare il dolore.
«Usa, questa è peritonite, non basta prendere medicine.»

Una voce lo interruppe. «Eccomi qui, Mamoru!» E Usagi credé di svenire non appena l’anestesista, nel suo camice blu, entrò sistemandosi i guanti. «Pronti per iniziare?»

«No, no, no, ti prego Mamo-chan, no!» Se non avesse avuto la flebo e il dolore al fianco che le impediva quasi di respirare, sarebbe scesa dal tavolo e scappata lontano.
«Mamo-chan?» Il dottor Tomoe sollevò un sopracciglio, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso dietro la mascherina; il ragazzo non vi badò, sospirò cercando di trovare le parole giuste in grado di calmare l’amica.
«Te lo prometto, andrà tutto benissimo e quando ti sveglierai mi troverai accanto a te, a prenderti in giro per questa cuffietta che ti hanno messo.» 

«Non la voglio la cicatrice.» Iniziò a piangere come una bambina, capendo che non avrebbe potuto far nulla per evitarlo.

«Resterà solo un segno leggerissimo, te lo prometto.» E con quel sussurro, mentre avvertiva gli occhi del medico e delle infermiere addosso, Mamoru cercò di celare la tenerezza che gli occhi lucidi di lei gli trasmettevano; era come se cercassero di trattenerlo, trovando in lui un’ancora di salvezza per far fronte a un pericolo troppo imminente, dal quale lui non poteva però proteggerla se non operandola.

«Okay, Dottor Chiba, se la soap opera è finita, io direi di iniziare.» Tomoe con tono sarcastico fece notare la sua impazienza; essere svegliato nel cuore della notte dal rumore fastidioso del suo cercapersone lo rendeva nervoso, non c’era posto per le smancerie durante quello che era stato considerato un intervento d’urgenza.
«Non iniziare finché non torno» lo ammonì Mamoru, alzandosi e andandosi a lavare di nuovo le mani, lanciando un occhiolino alla ragazza. Lei lo seguì con lo sguardo finché non lo vide scomparire dalla sua visuale. Sentì il cuore scalpitare mentre il dottor Tomoe dava un’occhiata alla sua cartella clinica, prima di posizionarsi dietro di lei sullo sgabello.
Mamoru ritornò dopo poco, infilò i guanti e si avvicinò al tavolo.
«Andrà tutto okay, te lo garantisco. Adesso però fai un bel respiro e conta fino a dieci.» E a quelle parole che venivano pronunciate con dolcezza, dietro quella mascherina che seguiva il fiato del ragazzo, Usagi respirò profondamente, riempiendosi i polmoni, mentre vedeva l’anestesista iniettarle qualcosa nel tubo della flebo. Annuì lentamente prima di iniziare a contare. «Uno. Due. Tre. Quattro. Cinq…»
E Mamoru continuò: «Bisturi dieci.»
Era arrivato il momento di incidere la pelle.
 
 
 
Pensò di avere un macigno sulle palpebre quando tentò di alzarle; la vista era appannata, come se si trovasse in un luogo avvolto dalla nebbia. Era il senso di stordimento quello che prevaleva. Si accorse di essere sveglia, ancora viva. Il suo animo si alleggerì. 
«Hmm…» biascicò muovendo poco la testa, mentre pian piano la visione davanti a sé iniziava a farsi più limpida.

«Ti sei svegliata, finalmente.» E quella voce calda e confortante, come una coperta in una notte d’inverno, l’avrebbe riconosciuta ovunque, in qualunque circostanza. Cercò di mettere a fuoco l’immagine offuscata. Fu grazie al suono dei passi sempre più vicini che capì che lui la stava raggiungendo e, quando il materasso si mosse, ebbe la conferma di averlo lì, accanto a sé, mentre si sedeva sul bordo del letto e le stringeva la mano.
«Sei stata bravissima. È andato tutto alla grande.»

Iniziò finalmente a scorgerlo, notandogli segni di affaticamento sotto gli occhi, e apprezzò ancora di più quel suo sorriso rassicurante che, ancora una volta, era rivolto a lei. Ricordò il dolore così intenso da svegliarla nel cuore della notte, della sua incapacità persino di respirare che l’aveva costretta a telefonare ad Hana, e dell’intervento subìto nonostante i suoi tentativi di evitarlo.
«Non mi sento molto bene» sibilò portando una mano a coprirle il viso.

«Tranquilla, è normale, adesso inizierai a sentirti sempre meglio.» Mamoru regolò il flusso della flebo, allentandolo.

«I miei sanno che sono qui?» Ricordò di non aver avuto modo di informarli. Quando il dolore era diventato insostenibile persino per lei, Hana era sembrata la persona più adatta da chiamare.
«Mia madre è qui fuori, sta provando a rintracciarli, per via del fuso orario il telefono sarà ancora spento.»
La vide annuire lentamente e sperò che sua madre fosse riuscita a mettersi in contatto con Ikuko. Non aveva dimenticato neppure per un istante le parole tristi che Usako gli aveva ripetuto in sala operatoria.
Sono sola, sono tanto sola…
 
Nonostante l’avesse sempre considerata una ragazza viziata e capricciosa, per una volta si rese conto della dura realtà. Lei era davvero sola. Da quando la conosceva non l’aveva mai vista – a parte Minako negli ultimi nove mesi – con delle amiche. E anche Ikuko approfittava spesso del fatto che sua figlia non fosse più una bambina per lasciarla da sola e seguire suo marito Kenji nei viaggi di lavoro, rimanendo lontano dalla città per intere settimane. Usagi restava spesso da sola. In quel momento realizzò appieno il significato di quell’affermazione che rimbombava nella sua mente ancora una volta, e capì di più il dolore e la nostalgia che le leggeva negli occhi ogniqualvolta si parlasse del nonno.
Ricordò tutte le volte che lo incrociava sul pianerottolo. Lui usciva di casa per andare in ospedale e Satoru Tsukino entrava nell’appartamento della nipote dopo la scuola. Si facevano compagnia a vicenda e ciò influenzava il suo carattere rendendolo più docile e dolce.
Per un solo istante ebbe la conferma di non essersi mai sbagliato su Usagi: era stato proprio dopo la morte di Satoru che aveva iniziato a colmare quella mancanza con atteggiamenti infantili sempre pronti ad attirare l’attenzione dei genitori. Ciò che però otteneva non era quell’affetto che tanto bramava, bensì regali e consensi a fare ciò che voleva, pronti a sostituirsi a un abbraccio o a una chiacchierata fatta di confidenze e consigli tra madre e figlia. E la cosa più grave era che per sfuggire alla solitudine, tante volte si era buttata tra le braccia di ragazzi che lei stessa sapeva benissimo essere non adatti a lei.
Almeno, quella continuava a essere la sua opinione.
 
«Dai, li informeremo presto, nel frattempo c’è mia madre qui con te.» Cercò di non mostrarle il dispiacere che quelle frasi gli avevano trasmesso e alle quali inevitabilmente continuava a pensare vedendola in quel letto. Attese una sua reazione ma non la ottenne. «Ci sono io» aggiunse, come se fosse tutto ciò che lei dovesse sapere.
Continuò ad osservarla, attendendo una sua frase, una parola, anche una sola sillaba.
Lei però non disse niente.
«Sai, il dottor Tomoe è rimasto molto colpito da te e anche l’infermiera di sala» ridacchiò piano per mettere a tacere quell’opprimente silenzio.
«Li odio» rispose lei, decisa nonostante la voce flebile, «odio tutti i medici.»
Una risata, notando che la solita Usagi si stava svegliando. La provocò. «Odi quindi anche me?»
Lei scosse lentamente la testa. «No. Mai.»

E lui accennò un sorriso. Ci avrebbe scommesso in quella sua risposta, la conosceva già, però era bello sentirglielo dire. Vide la sua mano scivolarle dal volto e posarsi sul materasso, proprio accanto alla propria gamba, mentre una smorfia di fastidio le stropicciò le labbra secche. Usagi provò a renderle umide con la lingua, invano.
«Ho sete» mugolò trovando fatica a parlare per via della bocca amara.

«Usa, per ora è meglio non bere»  le spiegò come un sussurro delicato per le orecchie. «Dopo avrai tutta l’acqua che vorrai.»

Ma quelle parole non furono piacevoli quanto la sua voce.
«Ho sete Mamo, per favore dammi un sorso d'acqua.» implorava lamentandosi, cercando ancora una volta di togliersi con la lingua la sensazione di asciutto.
Mamoru si lasciò tentare da quell’immagine sofferente; non sapeva se fosse dipeso dal suo viso pallido, dalla sua bocca che esprimeva necessità o dai movimenti deboli delle braccia con le quali cercava di sistemarsi meglio, ma quando si alzò e versò un po’ d’acqua in uno dei bicchieri di plastica posti sul vassoio accanto al comodino, capì che in fondo non c’era nulla  di male in ciò che stava per fare.

«Ti bagno solo le labbra per ora» patteggiò, tornando a sedersi sul letto. Con delicatezza, le accarezzò la bocca con un fazzoletto umido, rimanendo attratto dai movimenti delle sue labbra che, carnose e avide, cercavano di dissetarsi impossessandosi di quel pezzo di carta bagnata che egli teneva in mano.

«Ancora…» supplicò.

Solo allora lui distolse lo sguardo, realizzando che la solita fossetta sopra il labbro superiore era stata coperta dall’ematoma, troppo esteso rispetto a come lo ricordava il giorno prima.
«Va bene così?» Lo disse piano, mentre poggiava ancora il fazzoletto sulla sua bocca. «Faccio male?»
Come avrebbe mai potuto farle del male? Usagi se lo chiese in silenzio; scosse lentamente la testa, donandogli un sorriso colmo di gratitudine.
«No. tu non me ne fai mai.» Quelle erano le uniche parole che la sua mente fosse in grado di pensare. Le pronunciò spontaneamente. Non poté fare a meno di continuare a fissarlo, notando quanta delicatezza ci fosse in ogni suo tocco gentile e premuroso. Attese di incontrare i suoi occhi e iniziò a parlar loro con i propri.

Grazie. Perché nel momento in cui avrei preferito morire piuttosto che essere operata, non mi hai trattata da bambina come al solito ma mi hai stretto la mano infondendomi coraggio e protezione.
Grazie. Perché hai mantenuto la tua promessa, facendoti trovare qui al mio risveglio con uno dei tuoi sorrisi più belli.
Grazie. Perché è bello sapere che, nonostante tutto, finché ci sei tu, io non sarò mai sola.

Sperò con tutta l’anima che nelle proprie iridi, lui riuscisse a leggere ciò che il cuore le urlava fino quasi ad esplodere, incapace di trattenere tutte quelle emozioni contrastanti e confuse che non riusciva a spiegarsi.
 
«Okay, più tardi avrai tutta l’acqua che vorrai.» Si alzò per posare il bicchiere sul vassoio, poi tornò a fissarle le labbra. «E dopo torno e ti porto una pomata per quello; non mi piace vederti così.»
Si meravigliò vedendola annuire, avrebbe scommesso in uno dei suoi soliti no.
 
«Mamoru.» Hana entrò nella stanza, richiudendo la porta delicatamente. Si avvicinò alla ragazza con il telefono in mano.
«Usagi, parla con la mamma» le sorrise, porgendole l’apparecchio e scostandole alcuni ciuffi dalla fronte. Esortò il figlio a raggiungerla davanti alla porta e bisbigliò:
«Allora, come sta? È tutto okay?»

«Sì, stai tranquilla, pian piano si sentirà sempre meglio.» La rassicurò con un sussurro, mentre le sue labbra disegnavano un sorriso sul suo volto; con un braccio la strinse a sé, sentendola sospirare. E mentre scrutò la ragazza annuire al telefono, attratto dalla sua espressione malinconica, capì che neppure per sua madre era stato semplice affrontare quella situazione nel cuore della notte, soprattutto considerando che Usagi aveva un’influenza particolare su di lei. Riusciva sempre a convincerla a fare ciò che voleva e ciò contribuiva a renderla viziata e ribelle.

«Mamo-chan…» E lui si scostò dalla madre per raggiungere quella voce flebile; lo fece a passo più svelto, non appena la vide stendere il braccio libero dalla flebo per porgergli il telefono. «Mia mamma vuole parlarti.»
 
 
 
Il brusio lungo il corridoio gli ricordò che un nuovo giorno era iniziato. Nuovi pazienti in sala d’attesa da visitare, nuovi interventi da effettuare e persone già operate da tenere sotto controllo. Sperò che l’ascensore arrivasse il prima possibile. Talvolta era l’unico posto in cui riusciva a trovare un po’ di tranquillità e silenzio, anche se per pochi istanti.
Sbuffò premendo per la seconda volta il pulsante d’acciaio prima affondare le mani nelle tasche del camice. Un rumore sordo lo distrasse non appena si voltò alla sua destra, attratto da una barella che veniva condotta verso la sala operatoria; si accorse solo allora che le porte si erano aperte. I pensieri iniziarono ad affollargli la mente sempre più insistentemente, come se non volessero lasciarlo solo in quella scatola che saliva e scendeva in continuazione; si sentiva in preda al panico, come se il tempo fosse suo nemico e, ogni secondo che passava, ogni lampeggiare dei vari pulsanti, gli urlava che si stava avvicinando sempre più al piano terra e a tutto ciò che esso rappresentava: scelte, inevitabili delusioni. Cercò di non farsi travolgere dall’ansia che iniziava a farlo soffocare sempre di più, rendendolo incapace persino di riflettere su quale sarebbe stata la decisione migliore.
“Che devo fare, adesso?” Una parte del suo cuore lo ripeté più volte, simile a un urlo interiore col quale implorava il suo cervello di aiutarlo a trovare una risposta. Invano.
Lasciò aderire la schiena alla parete e, mentre abbassava le palpebre, capì che, nonostante sperasse che nessuno rimanesse deluso da lui, ciò inevitabilmente sarebbe accaduto. Quel luogo gli sembrò sempre più stretto, inidoneo a procurargli l’ossigeno sufficiente per respirare e far ragionare la sua testa. Si riempì i polmoni più che poté, rimanendo in quella posizione ancora per un poco, fin quando le porte si aprirono e un sussulto uscì spontaneo dalle sue labbra.
«Ehi!» sibilò, imprecando tacitamente contro se stesso per non aver ancora trovato le parole giuste con cui introdurre il discorso.

«Ciao, ti cercavo…» E lui ne era consapevole. «Prendiamo un caffè, prima che vai a casa?» Si avvicinò a lui, sfiorandogli la guancia con la sua mano liscia.

Mamoru chiuse gli occhi, lasciandosi avvolgere dal profumo aspro e intenso della donna prima di percepire le sue labbra calde e morbide sulle proprie.
«Certo, amore» le sussurrò sulla bocca, «ne ho veramente bisogno.»
Le circondò la vita con un braccio, conducendola verso il piccolo bar situato vicino l’ingresso dell’ospedale.

«Hai per caso parlato con il primario per avere il venerdì libero?» C’era tanta speranza in quegli occhi luminosi come due rubini, e un’aura di entusiasmo sul suo volto coperto da un leggero filo di trucco, che il giovane medico provò un bruciore al cuore sempre più intenso, in grado di togliergli il respiro.

«Setsuna, amore, so che avrei dovuto parlare con Galaxia…» introdusse lentamente, come se le frasi potessero formarsi spontanee, «è solo che è stata una notte terribile: ho dovuto effettuare un’appendicectomia d’urgenza e…» Le parole lo lasciarono da solo, solo con colei alla quale voleva dimostrare giorno dopo giorno tutto l’amore che sentiva di provare solo per lei; la stessa donna a cui puntualmente faceva sorgere dubbi ogniqualvolta il nome Usagi veniva pronunciato dalla propria bocca, ogni volta che quella ragazzina era insieme a loro suscitando nella sua fidanzata quella gelosia che lui non riusciva ancora a spiegarsi.
Non voleva deludere Setsuna, voleva renderla felice, eppure non poteva neppure abbandonare quel piccolo coniglietto impaurito e sempre solo.

«Beh, parlale adesso e poi vai a riposarti» rispose con un sorriso. Era così semplice per la bella dottoressa.

Lui deglutì, provando a mandare al suo posto il cuore che sentiva in gola.
«In caso le parlerò più tardi, tanto non vado via.» Ringraziò il cielo per non dover incontrare il suo sguardo e notare la sua reazione: lo avrebbe fatto sentire ancora più in colpa di come si sentisse già; era come se il suo corpo fosse impreparato a incassare i colpi che la confusione interna stava tirando, era stato tutto inaspettato, troppo veloce per essere organizzato e quella sensazione iniziava a fargli esplodere la testa.
«Due caffè, per favore» ordinò al ragazzo dal ciuffo spettinato dietro il bancone del bar.
Dopo però, fu costretto a fissare la sua espressione stupita, soprattutto quando lei chiese: «Perché non vai via? Chi devi sostituire?»

«Nessuno.» E il caffè servito in una tazza di bianca ceramica lo aiutò a temporeggiare. «Setsuna, credimi, la preparazione all’intervento di ieri notte è stata estenuante.» Un sorso, e per una volta sperò che il liquido fosse così rovente da scottargli la lingua e avere il pretesto per non continuare e prendere tempo. Era caldo ma, sfortunatamente per lui, non troppo.
Lei aggrottò la fronte fissando il suo fidanzato con perplessità. Dov’era finito il Mamoru Chiba che vedeva il reparto di chirurgia come un campo di guerra in cui lottare e vincere sugli altri colleghi per ottenere gli interventi migliori? Dov’era l’uomo che amava e che considerava un’appendicectomia un intervento da novellini? Portò la tazza alla bocca, sorseggiando il suo caffè in attesa di capire meglio cosa stava accadendo.

«I miei hanno portato qui Usagi stanotte e l’ho dovuta operare d’urgenza.»

Ah ecco, Usagi c'entrava ancora una volta. Rimase intenta ad ascoltarlo.

Proseguì, sentendo sciogliere un po’ la tensione che aveva accumulato pensando a quel discorso e al modo in cui avrebbe voluto convincerla a rimandare il week end fuori città; in fondo, non era stato così difficile come aveva immaginato, forse si era preoccupato per nulla. «Era terrorizzata in sala operatoria, le infermiere mi hanno raccontato che hanno fatto fatica con lei prima del mio arrivo.»

Un sorriso, accompagnato dal rumore della ceramica che veniva allontanata verso la parte opposta del bancone. «Come sta adesso?» domandò. «Sono appena arrivata, non ho ancora guardato le cartelle cliniche.»

Mamoru annuì più volte. «Bene, clinicamente parlando, bene» spiegò. «È  il resto che non mi piace.»

Lasciarono quel piccolo luogo di ristoro gremito di uomini e donne nei loro camici bianchi, avviandosi di nuovo verso l’ascensore.
«Che vuoi dire?» Setsuna lo guardò con aria seria e sempre più curiosa.

«Niente, Setsuna, il fatto è che tutte le impressioni che ho sempre avuto su di lei adesso mi sembrano sempre più giuste.» Sbuffò, poggiando la schiena alla parete e incrociando le braccia sul petto.

«Mamoru, hai intenzione di parlare a mezze frasi tutto il tempo?» Un’occhiata eloquente e infastidita, prima di entrare in ascensore, seguita da lui.
«Non te lo so spiegare» introdusse premendo il pulsante che li avrebbe condotti al terzo piano, «è solo che da quando è morto suo nonno è cambiata, come se quella perdita l’avesse segnata irreparabilmente.»

Setsuna lo osservò con attenzione, notando il suo sguardo perso nel vuoto; aveva l’impressione che il suo corpo fosse lì con lei ma la mente no: quella era ancora una volta con Usagi.
«Scusami, a costo di sembrare insensibile, ma cosa c’entra con l’appendicectomia? Non capisco!»

E lui tornò a fissare i suoi occhi, notandoli spenti e confusi.
«Soffre» spiegò sperando di riuscire a farsi comprendere. «Soffre perché da quando è morto Satoru, lei si sente sola.»
Portò una mano ai capelli, facendo scorrere le dita tra le ciocche corvine e sistemandole all’indietro.
«Sai, io l’ho sempre considerata una ragazzina troppo viziata però stanotte, distesa su quel tavolo operatorio, con le lacrime agli occhi e tremante, non sai quanta tenerezza mi abbia fatto.»

Le porte si aprirono e alcuni infermieri entrarono; i giovani medici si affrettarono ad uscire e, solo quando ritornarono ad essere soli, Setsuna riprese:
«Beh, è normale, è una persona che conosci, è ovvio che tu fossi coinvolto» provò a mantenere la calma e mostrare la maturità che la contraddistingueva e che la faceva ammirare da molti colleghi, compreso lo stesso Mamoru. Nonostante sapesse che razionalmente non c’era stata malizia in quelle parole, sapeva però che si trattava ancora una volta di Usagi, la ragazza a cui bastava la semplice presenza per scatenare da sempre nel suo fidanzato tante emozioni contrastanti, e sebbene cercasse di scacciarla via, la frase “Non sai quanta tenerezza mi ha fatto” continuò a rimbombarle in testa come un martello pneumatico, logorandole il cuore. La razionalità lasciò posto all’istinto:
«A mio avviso non avresti dovuto neppure operarla!»

«Lei si fida di me e io non l’avrei fatta toccare da nessun altro.»

Bang! Dritto al cuore come una lama affilata. La donna si arrestò al centro di quel corridoio troppo affollato, incrociò le braccia al petto e fissò quegli occhi blu cerchiati da profonde occhiaie.  
«Arriva al punto, Mamo, devo iniziare le visite!»
C’era così tanta rabbia in quegli occhi sempre simili a due gemme preziose che per un attimo Mamoru capì che – per quanto lo avesse sempre desiderato – con la sua donna non poteva avere un rapporto di confidenze. Almeno non quando si trattava di Usagi. Ammorbidì i toni, posando le sue mani sulle spalle della ragazza.
«Il punto è che è impaurita dagli ospedali e anche se so che è molto infantile come ragionamento, dopo averla vista in quello stato ieri notte, vorrei che fin quando sarà ricoverata, possa sapere che ci sono io e che non è sola.»

Lei annuì, serrando le labbra così tanto da far formare tante piccole rughe d’espressione attorno alla bocca. «Ho capito.» Si allontanò da lui raggiungendo il bancone in fondo al corridoio. «Beh, allora resta qui, io vado a controllare le cartelle cliniche dei pazienti e inizio le visite.»

Mamoru la osservò allontanarsi sempre di più, accompagnata dall’ondeggiare del camice aperto. La vide arrestarsi poco prima di arrivare al banco delle infermiere, voltare la testa verso di lui mentre ciocche corvine della sua coda si sfilacciavano seguendo i suoi movimenti.

«Avete già avvisato i suoi?»

Lui non rispose, si limitò ad avanzare sempre di più diminuendo la distanza tra loro. «Non verranno.» Tono secco e deciso, unito a uno sguardo eloquente che valeva più di mille parole.

«Non verranno? Che vuol dire?» Setsuna spalancò gli occhi lasciando che un raggio di luce donasse loro le sfumature del rosso più intenso e brillante.

«Vuol dire che Ikuko mi ha chiesto se fosse il caso mandare all’aria le loro vacanze in Italia e tornare qui considerando che tra un paio di giorni Usagi sarà dimessa.» Lo disse tutto d’un fiato, incapace di continuare a tenere per sé quei commenti che nella sua testa dilagavano da quando aveva sentito la donna al telefono.

«Ti ha detto proprio così?» Neppure la bella dottoressa poté celare la sua indignazione.

«No, non esattamente, ma il concetto è questo.» Le sfiorò la guancia con il dorso dell’indice e accennando un sorriso aggiunse: «Ha solo mia madre e me, capisci adesso?»

E quel tocco delicato che le era mancato tanto per tutta la notte, quella voce calda e piena di dolcezza, quello sguardo con cui le trasmetteva tutto l’amore che provava per lei, le donarono un sorriso. La gelosia ancora una volta era stata spazzata via dalla razionalità: Mamoru, il suo Mamoru, aveva un cuore grande e un animo sensibile e lei lo amava anche per quello.
«Sì» gli sussurrò sulla bocca prima di schioccare un bacio sulle sue labbra carnose. «Vado a lavoro, ricordati di parlare con Galaxia dopo» aggiunse incrociando i suoi occhi.
Setsuna era comprensiva, ma il week end non andava messo in discussione. «Venerdì Usagi sarà già a casa e lei è terrorizzata dagli ospedali, non da casa sua, giusto?» Con un’occhiata eloquente sorrise ancora, prima di voltarsi e allontanarsi sempre di più da lui.

Mamoru rimase al centro di quel corridoio, inerme e incapace di dire qualsiasi cosa, anche perché non c’era proprio nulla che egli potesse obiettare: Usagi temeva gli ospedali ma casa di Hana, dove lui le avrebbe ordinato di trasferirsi in quel periodo, era difficile da temere. In quel momento capì che tutta la confusione e il timore che lo avevano logorato in attesa di quel discorso erano stati vani. Vani perché non era riuscito a confessare alla sua donna ciò che in realtà preferiva. Se fino alla notte precedente tutto ciò che aveva desiderato era fare un week end lontano dalla monotonia, dopo l’intervento si rese conto che voleva restare lì, cercando di attutire quello straziante senso di solitudine che Usagi avrebbe trovato fra le stanze vuote della sua abitazione. Voleva esserci anche per sua madre, aiutarla a prendersi cura di quella ragazza e alleviare quel senso di responsabilità da cui era stata colta all’improvviso come un fulmine a ciel sereno. Perché era così difficile da confessare? Perché tutto ciò che aveva a che fare con quella ragazzina doveva essere motivo di astio con la sua donna? Sbuffò, affondando le mani nelle tasche di cotone e avviandosi verso gli spogliatoi.
 
 
 
Se avesse dovuto descriversi in quel momento, il termine “svuotata” sarebbe stato il più appropriato, e non per via dell’appendice che le era stata asportata; era una sensazione angosciante che la logorava dentro sempre più intensamente, facendola sentire in balia alla solitudine e allo sconforto. Si guardò intorno. 
Crepe sul soffitto di quella stanza dalle pareti bianche si diramavano fino a scomparire dietro un armadio grigio a due ante. Spostò lo sguardo verso la finestra adiacente, attratta dalla tendina color panna dai bordi sfilacciati; un piccolo televisore era collocato su un braccio per pareti di fronte a lei ma non aveva voglia di accenderlo. Il silenzio era già interrotto dall'orologio che scandendo i secondi segnava le 15.30.
Decise di fare qualcosa, di ingannare il tempo, altrimenti quei giorni sarebbero risultati ancora più lunghi e pesanti di quanto aveva previsto. Voltandosi alla sua destra, allungò un braccio verso il comodino fin quando un dolore al basso ventre, attorno alla ferita, la fece pentire di quel gesto.
«Ahi» mugolò tornando a sdraiarsi; il dolore non si assopì e lei cercò di attutirlo portando una mano a massaggiare l’addome. «Dannazione, no…» Gli occhi iniziarono a bruciare, facendo uscire salate gocce di sconforto, e lei maledisse ancora una volta quella crudele solitudine. Singhiozzò, portando il braccio a coprirle gli occhi.
 
«Usako…» Sulla soglia della stanza 3006, Mamoru lo mormorò in mente, mentre un velo di tristezza gli coprì il volto; il pianto che la ragazza cercava di soffocare col braccio sul viso, e il suo corpo che si muoveva seguendo un respiro agitato, lo fecero sentire impotente. E invece tutto ciò che desiderava in quel momento era aiutarla, calmarla, e farle capire che lui sarebbe rimasto lì con lei e che tutto sarebbe andato bene. Respirò profondamente, assumendo un’espressione rilassata e sorridente prima di avanzare verso il letto.
«Se continui così ti disidraterai» cercò di ironizzare.

Usagi lasciò scivolare il braccio di lato, liberando gli occhi azzurri e umidi e posandoli su quelli stanchi di lui.
«Smettila di scherzare, mi sento male» ordinò, asciugando le guance con il dorso della mano.

Lui si arrestò quando le ginocchia toccarono il materasso, la guardò con aria preoccupata, e domandò:
«Cos’hai? Ti fa male la ferita?»

La paziente annuì, le labbra serrate per trattenere il dolore. «Non passa, Mamo-chan, non passa.» E il pianto riprese, senza vergogna di mostrarsi in quel modo, senza paura che lui potesse dire qualcosa di indelicato. Sapeva che non lo avrebbe fatto.

«Sei solo stordita, Usa» sussurrò, sedendosi sul bordo del letto e posando una mano sulla sua fronte. «Basta piangere, dai, così è peggio.» Non era un tono imperioso il suo, ma dolce e delicato, proprio come la carezza che lei avvertì sulla frangia; il suo viso sembrò ricevere un calore che iniziò a propagarsi per tutto il corpo.
Era una sensazione rassicurante e colma di conforto quella che percepì da quel contatto dolce, reso più intenso dallo sguardo premuroso e sorridente di Mamo-chan. Nessun antidolorifico avrebbe mai potuto sortire in lei lo stesso effetto. Il suo respiro iniziò a regolarizzarsi e un lieve sorriso dipinse le sue labbra secche e con alcuni lividi.
«Non è solo per lo stordimento, non è vero?» I suoi occhi erano ancora fissi su quelli di lei, consapevoli anche di ciò che lei non diceva. Non a parole, almeno.
«Volevo solo prendere quel libro» deviò l’argomento, facendo cenno con la testa verso il comodino accanto al ragazzo. «Tua madre ha portato qui le mie cose ma credo di aver dormito tutta la mattinata perché quando mi sono svegliata lei non c’era.»

«Sì, ho detto ai miei di andare a riposarsi» spiegò il medico. «Tu dormivi e se ti fossi svegliata ci sarei stato io a tenerti compagnia» aggiunse. 
Era fondamentale farle capire che non sarebbe rimasta sola in quell’ospedale. Non dopo averla vista piangere, non dopo che le sue parole "Sono sola… Sono tanto sola…” lo avevano torturato da quella notte, senza lasciargli un attimo di tregua.
«Volevi prendere questo?» Mamoru roteò il busto, allungando un braccio e afferrando l’oggetto posto sul comodino. Guardò la copertina rigida di un blu intenso come la notte e seguì con gli occhi le lettere dorate che spiccavano in alto, proprio sopra l’immagine di una ragazza in penombra illuminata solo dal chiaro di Luna.
«Moonlight.»

«Sì, grazie Mamo-chan» rispose, sollevando la mano dal materasso per prendere il libro tra le mani del ragazzo. Lui lo allontanò, alzando il braccio tanto da renderlo irraggiungibile per l’amica.

«Prima dimmi la verità, Usagi.» Era un compromesso molto difficile, lui lo sapeva, ma si era ripromesso di aiutarla, di confortarla e di esserci per lei, ma non poteva riuscirci se lei non glielo avesse permesso, se non si fosse confidata con lui.

Quegli occhi blu profondi e simili a un’ancora di salvezza erano ancora fissi sui suoi; iniziò a percepire il peso di quello sguardo sempre più insistente e per nulla intenzionato ad arrendersi finché non avesse ottenuto le risposte che chiedeva.
Usagi si lasciò andare. In fondo, di lui si fidava e ogniqualvolta aveva confidato i suoi dubbi e problemi a Mamo-chan si era poi sentita più leggera, compresa.

«Di’ la verità, è per i tuoi genitori?» Mamoru cercò di aiutarla ad affrontare l’argomento. «Avresti preferito sapere che stavano tornando qui, non è così?»

«No» lo spiazzò, con tono fermo e deciso.

Mamoru aggrottò la fronte, rimanendo a guardare quel viso stanco, dalle palpebre rosse e le labbra gonfie, in attesa di capire meglio quale fosse il vero problema.

«Ti sembrerà stupido, però ci sono momenti in cui vorrei essere come Minako» introdusse, «o come te.» Voltò lo sguardo dalla parte opposta, concentrandosi sulla tendina sfilacciata.

«Usa, come siamo io e Minako?» Lui non capiva cosa potesse avere in comune con una ragazza di vent’anni che studiava Giurisprudenza e faceva baldoria la sera. Che fosse perché entrambi erano di bell’aspetto? L’idea lo abbandonò un istante dopo. Usagi non avrebbe avuto nulla da invidiare loro. Lei era splendida ai suoi occhi. Pestifera e viziata ma splendida.

Lei alzò le spalle, rimanendo lontana da quegli occhi così profondi e blu in cui avrebbe potuto annegare.
«Minako ha Yaten, lui la ama, si prende cura di lei.» Una pausa, accompagnata da un sorriso nervoso. «E tu hai Setsuna… la ami e lei ama te.» Sfidò l’imbarazzo e si voltò. Lui era rimasto fisso a guardarla, non esitò.
«A volte, vorrei anche io sentirmi speciale per qualcuno… Vorrei soltanto che qualcuno potesse amare me, proprio me.» Sorrise, abbassando lo sguardo. «Lo so, è stupido come ragionamento da fare qui dentro.»

«Usa, tu sei speciale» sussurrò simile a una melodia delicata e triste, mentre la sua mano trovava quella di lei e la teneva stretta alla propria. «Arriverà l’amore anche per te, vedrai, dai solo tempo al tempo e tutto si sistemerà.»

Sentiva i suoi occhi addosso, con gentilezza. Percepiva quel conforto che la sua mano infondeva con dolcezza, e per un attimo credé di provare di nuovo quel bruciore al cuore che aveva avvertito la sera in cui lui l’aveva riportata a casa dall’altura. Quelle parole erano così sincere e piene d’affetto che le donarono un sorriso amaro.
«No, Mamo, non arriverà mai, non è mai arrivato.» Incrociò i suoi occhi e riprese: «I ragazzi non sembrano interessati ad amare me.»

«Sì che arriverà, e sarà quello giusto che ti farà battere il cuore come non ha mai fatto nessun altro… e allora capirai che è valsa la pena aspettarlo.»

Usagi sospirò, non sapeva se le parole di Mamoru sarebbero diventate realtà ma di certo avevano rappresentato una carezza confortevole per il suo cuore. Annuì, stringendo ancora più forte la mano del ragazzo.
«Grazie Mamo-chan, ti voglio bene.» Lui non avrebbe mai potuto comprendere quanto gliene volesse. Si finse offesa e continuò. «Anche se mi hai lasciato una cicatrice che terrà lontano i ragazzi!»

Mamoru rise, lasciandole la mano. «Ti voglio bene anche io, anche se sei terribile e mi hai fatto vedere l’Inferno ieri notte prima dell’intervento!» Forse la tensione non era stata generata dalla paura di lei. Forse avrebbe provato quella sensazione a prescindere. In fondo, avrebbe dovuto operare lei, la sua Usako. Forse Setsuna aveva ragione, era troppo coinvolto.
Tornò serio subito dopo, lasciando che l’istinto parlasse per lui, che a volte con le parole non era bravo come con il bisturi. «E fidati, sei così bella che se un ragazzo guardasse la cicatrice vorrebbe dire che non capisce nulla.»
Si pentì subito dopo, forse aveva parlato troppo. Le gote della ragazza che si tingevano di un rosso pallido lo fecero riflettere. Era ancora più bella quando arrossiva. Cambiò discorso, per non metterla a disagio. 
«Allora, di cosa parla questo libro?» chiese rigirandoselo tra le mani.

«Parla di un amore bellissimo, di un uomo disposto a tutto pur di salvare la ragazza che ama da un lavoro squallido…»

Il ragazzo aggrottò la fronte, sorridendo per quell’espressione entusiasta che le dipingeva il volto.
«Vedi, questi libri fanno arricchire gli autori ma rovinano le ragazze che si convincono che la realtà sia come nei romanzi.»

«Oh no! È una storia reale, accaduta a New York all’autore e alla sua fidanzata.»  

«Usa, ma che ne sai? Non credere a tutto ciò che leggi o ascolti, a volte sono trovate pubblicitarie per rendere la storia più credibile.» Aprì il libro, sfogliandolo a mo’ di ventaglio.

«Io ci credo» controbatté lei, «voglio crederci… ho bisogno di crederci.»

Le pagine si fermarono a quasi metà libro, e il giovane medico venne attratto da un capoverso:
 
Solo due persone sensibili come noi potevano però scorgere i sentimenti provati dall’uno per l’altra. E li avvertivamo, quella notte, tra le molte persone interessate solo al suo corpo1.
 
Sfogliò ancora, finché le pagine si fermarono di nuovo a più della metà del libro. Seguì le righe con gli occhi:
 
Il Moonlight era un luogo in cui entrare e trovare il piacere dei sensi grazie a tante ragazze che si muovevano sinuosamente, in mini abiti, scatenando le fantasie più perverse che un uomo potesse mai osare fare;
il Moonlight era la passione che si avvertiva, mentre l’adrenalina nasceva nel corpo e faceva bollire il sangue dentro le vene, alla vista delle curve mozzafiato e degli sguardi ammiccanti che tutte le ragazze più belle di NYC dedicavano ai clienti.
Il Moonlight era soddisfazione sapendo che non c’era bisogno di parlare, di chiedere; un solo incrocio di occhi bramosi e ogni desiderio carnale veniva appagato.
Il Moonlight era un locale magico: si entrava per soddisfare i sensi e qualche volta, come nel mio caso, si trovava l’Amore.
Assurdo, vero? Beh, no se la Città è NYC!1
 
Lo richiuse, porgendolo all’amica e alzandosi dal letto. «Non è il genere che fa per me!»

Lei sorrise, continuando a guardarlo. «Torni a lavoro?»

«No, fino a domani mattina niente lavoro.»

Per un attimo lei non capì ma quando lui le donò uno sguardo, di quelli che parlavano da soli, il suo cuore sembrò sciogliersi come neve al sole.
«Vai a risposarti, Mamo-chan» rispose con premura e gratitudine, «io sto bene e tu sei stanco.»

«Stai tranquilla» la rassicurò; affondò una mano nella tasca dei pantaloni e riprese: «Vado a parlare con il primario e poi torno.»

«Va bene, Mamo-chan.» La ragazza terribile e pronta sempre a lamentarsi si era dissolta, lasciando posto una fanciulla dolce e gentile; realizzò così di non essersi mai sbagliato su di lei. Tutto ciò che serviva a Usagi era affetto, tutto ciò che desiderava erano premure e dimostrazioni che qualcuno la considerasse speciale. Strizzò l’occhio e lasciò la stanza, rincuorato dal fatto che per un po’ non sarebbe rimasta sola coi suoi pensieri. Moonlight le avrebbe tenuto compagnia.
 
 
 
«Posso parlarti un attimo?» Mamoru aprì la porta dopo aver bussato, senza attendere il permesso ad entrare.

La donna sollevò gli occhi da alcuni fogli che era intenta a leggere, comodamente seduta sulla sua poltrona dietro la scrivania. «Certo, accomodati pure, ho qualche minuto prima di fare il giro in reparto.» Scostò dalla spalla alcune ciocche bionde dalle sfumature rossicce, prima di riprendere. «C’è qualcosa che non va?»

«No, tutto okay,» rispose lui, prendendo posto su una delle due sedie di fronte alla dottoressa dal camice bianco su cui spiccava una massiccia collana d’oro giallo. «Volevo chiederti un favore… Sempre se è possibile, sia chiaro!»

Il primario di chirurgia sorrise, aggrottando di poco la fronte. «Dimmi, se posso volentieri.»

«Volevo chiederti se venerdì potessi concedermi un giorno di ferie.» La guardò negli occhi e cercò di essere più convincente. «Sai, è da tantissimo che non prendo un giorno libero, non te lo chiederei se non fosse importante.» Osservò il suo volto. Aveva uno sguardo enigmatico, degli occhi nocciola dai quali non era quasi mai possibile capire che cosa stesse pensando. Deglutì, immaginando che non avrebbe mai concesso un giorno libero con così poco preavviso. E in parte si sentiva rincuorato; forse in quel modo avrebbe dimostrato a Setsuna di averci provato, e allo stesso tempo, avrebbe potuto fare ciò che era giusto: rimanere lì dove desiderava rimanere. Per Usagi e sua madre.

«D’accordo» fu la sua risposta, decisa e secca. «Prendi pure il venerdì!»

Lui la guardò incredulo, e mentre lei gli sorrideva con labbra serrate e sguardo eloquente, avvertì una sensazione di delusione e stupore farsi strada dentro di sé, fino a raggiungere il cuore e sentirlo stringersi nel suo petto.  
«Che c’è? Non sei contento?» Quel tono lo avrebbe classificato come un tono di sfida.

«No, no, certo che no» rispose, «cioè, sì, ne sono contento.» Si alzò di scatto, sperando che la donna non si fosse accorta della sua reazione contraddittoria alla richiesta fatta. Accennò un sorriso e voltò le spalle, avviandosi verso la porta.

«Grazie, Galaxia, per la comprensione, ti auguro una buona giornata.» Richiuse la porta alle sue spalle, poggiando la schiena alla parete e sospirando con gli occhi chiusi. Cercò di convincersi che in fondo era meglio così. Erano solo tre giorni e sua madre se la sarebbe cavata alla grande con Usagi, e quando sarebbe ritornato, l’avrebbe aiutata a prendersi cura di lei. Si scostò dal muro e cercò di dipingersi sul volto un’espressione contenta. Era giunto il momento di dare la bella notizia alla sua fidanzata.
 
 
 
«Sono io, volevo informarti che è andato tutto bene.»

Dall’altro capo del telefono, la donna tirò un sospiro di sollievo, iniziando a sentirsi più leggera. «Grazie. Grazie davvero!»

«Sei sicura che sia stata una buona mossa?» L’interlocutrice lo domandò dubbiosa. «Insomma, quando tornerete, lui sarà ancora più contento di rivederla dopo tre giorni; non dirmi che non ci hai pensato.»

Setsuna annuì, anche se Galaxia non poteva vederla. «Sì che ci ho pensato.»

«Inoltre questo favore ti costerà doppi turni al vostro ritorno» continuò con sicurezza, «non ti è venuto in mente che lui potrebbe approfittare della tua assenza per fare le visite a domicilio

Setsuna si sentì pervasa da un senso di rabbia che le fece battere il cuore più forte, come se tutto stesse sfuggendo al suo controllo.
«Galaxia, credi che non abbia pensato a tutto questo?» Lei non era una stupida, neppure ingenua. «So bene tutto questo, ma cosa dovrei fare?» il tono della sua voce si alzò d’istinto, mentre il respiro si affannava. «Lo vedi che anche se è distrutto è da ieri che non torna a casa per stare con lei? E questo solo perché lei è Usagi.» Sospirò, cercando di calmarsi. «Non lascerò che passi anche il week end con lei.»

Sentì un sospiro, e le parole dell’amica e complice. «Lo sai che non è tenendolo lontano da lei per tre giorni che riuscirai ad averlo tutto per te anche quando tornerete, non è vero?»

«Lo so, ma fidati, a noi serve solo una vacanza per ritrovare la nostra complicità, lontano da tutto.» Fece una pausa e aggiunse. «E soprattutto da lei.»

«Setsuna, spero tu possa aver ragione.»

«Non so se ho ragione, ma una cosa è certa: non permetterò che una ragazzina si metta tra noi. Lo amo troppo e farei di tutto per lui.»

Il primario sorrise. «Buona fortuna, tienimi aggiornata, mi raccomando.» Si alzò dalla poltrona e concluse. «Vado a fare il giro del reparto, a dopo.»

La donna dagli occhi color rubino chiuse la telefonata, riponendo il cellulare all’interno della tasca del camice. Sospirò, cercando di calmarsi e di assumere un’espressione serena. Doveva farsi trovare sorpresa quando lui le avrebbe detto dell’incontro con Galaxia.
 
 
 
Quando attraversò il corridoio per cercare Setsuna, la stanza 3006 gli venne incontro, ritrovandosela alla sua sinistra. La porta era semi aperta e la voglia di entrare a controllare fu talmente tanta che si concesse di farlo. O forse era solo un senso di colpa a cui non riusciva a dare una spiegazione del tutto razionale. Decise di fermarsi per un po’. Avrebbe parlato con Setsuna quando lei avrebbe terminato il turno. Spinse la porta e si arrestò subito dopo, avvertendo una sensazione così strana ma allo stesso tempo tanto bella che gli scaldò il cuore come non era mai successo prima. Non con Usako, almeno.
Ad ogni passo delicato, col quale cercava di non far rumore con le suole delle scarpe, un sorriso che nasceva da dentro e metteva in subbuglio il suo animo gli incurvò le labbra. Rimase immobile, vicino al letto, osservando la ragazza che con gli occhi chiusi riposava serenamente. Gli sembrò simile a una di quelle protagoniste di favole per bambini. Deglutì, incapace di distogliere lo sguardo dal viso incorniciato da tante ciocche dorate che le ricoprivano le spalle e il petto prima di rivestire parte del materasso. Il suo corpo continuava a muoversi lentamente, seguendo un respiro regolare. La sensazione inspiegabile, anche per un medico come lui, divenne più intensa, così tanto che per un istante gli sembrò che il suo organo vitale stesse per bruciare. Con accortezza, cercando di non svegliarla, sollevò il libro aperto che la ragazza teneva sul ventre con la mano libera dalla flebo. Lo richiuse, posandolo sul comodino. Si voltò a guardarla di nuovo, come se non riuscisse a farne a meno e per lui fu necessario farlo, doveva farlo se voleva alleviare quella sensazione che lo tormentava da quando era entrato nella stanza. Si chinò verso di lei e con dolcezza premette le sue labbra sulla fronte fresca e libera dalla frangia della ragazza. Stava già meglio. Decise di lasciarla riposare ma non di lasciarla da sola; sedette su una poltroncina accanto al letto e, dopo averla osservata per l’ultima volta, chiuse gli occhi con quell’immagine ancora in mente.
 
 
La donna scosse la testa, lasciando uscire un sospiro colmo di rassegnazione ma non di sorpresa. Rimase davanti alla porta della stanza 3006 ancora per qualche istante. Aveva già visto troppo. L’unica cosa che sperò mentre attraversava il corridoio era che la sua amica Setsuna non vedesse mai una scena del genere. Avrebbe avvertito solo dolore. Capì che in fondo la bella dottoressa non era così esagerata e ossessiva per come l’aveva descritta inizialmente, quando l’aveva implorata di aiutarla a tenere alla larga il suo fidanzato da quella ragazzina. Si era sbagliata, capì.
Su una cosa però era ancora certa. Non sarebbe bastato un week end romantico a togliere dalla testa di Mamoru quella Bella Addormentata.


 



 
Il punto dell’autrice.

28.05.2020

Di questo capitolo mi sono limitata a sistemare un po' lo stile e la punteggiatura senza apportare modifiche. Rispetto ai precedenti, l'ho trovato migliore. Per ora va bene così.

Alla nota 1, molti di voi avranno riconosciuto pezzi della mia storia Moonlight, pubblicata qui su EFP. Per chi non lo sapesse, Moonlight, il libro che ha letto Usagi in questo capitolo, è lo stessa storia che ho scritto io e pubblicato qui ormai due anni fa. Sembrerà forse un po’ megalomane come idea però a me piaceva, spero sia stata gradita anche da voi. 
Ringraziandovi ancora una volta, tutte quante, per aver letto e per l’affetto che dimostrate sempre nei miei confronti, ci tenevo a dire Grazie a Federika21 per alcuni chiarimenti in merito all’appendicectomia, dato che io non ho mai avuto una tale esperienza.
Questo capitolo è dedicato a tutte voi, ragazze, sperando sia potuto piacere e soprattutto che non abbia deluso le vostre aspettative. Se vi va, sarei felice di un vostro parere.
Un bacione, a prestissimo!

Demy

   
 
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