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Autore: Whatadaph    18/04/2012    3 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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Capitolo 4

 

“Un ragazzo brillante”

 

 

Beta: Unbreakable_Vow

 

Bathilda Bagshot era davvero una sprovveduta, o almeno così la pensava Gellert. Una sciocca, un’ingenua. Per qualche misteriosa e astrusa ragione che Grindelwald non comprendeva – ma non mancava di deridere – pareva essere convinta che il ragazzo si annoiasse.

“Suvvia, Gellert,” gli si rivolgeva sovente. “Esci, su! Prendi una boccata d’aria!”

Premurosa in maniera irritante.

“Non ti annoi, sempre chiuso in quella stanza?”

Ingenua.

Davvero credeva che Gellert fosse voluto venire a Godric’s Hollow solo per tenere compagnia ad una vecchia parente che aveva incontrato neanche due volte prima di quel momento? Insomma, zia Bagshot non era certo una strega priva di intelletto, anzi. Tuttavia, quando si trattava di quel nipote così bello e brillante, si dimostrava come accecata.

Il giovane non poteva fare a meno di compiacersi un poco per essere riuscito a ingannarla con tanta facilità.

“Davvero, Gellert. Cosa fai, sempre tappato in casa?”

Cosa faccio, zia? pensava lui. Faccio ciò per cui sono giunto fin qui.

 

Dopo mesi di ricerche nell’enorme biblioteca di Durmstrang, era riuscito a raccogliere una discreta quantità di materiale sui Doni della Morte – era una fortuna che all’Istituto non mettessero in atto alcun tipo di censura, laddove si trattava di magie oscure o pericolose.

Gellert aveva innanzitutto tentato di rintracciare gli originari creatori dei doni – giacché, per quanto fosse strabiliante ciò che quei leggendari strumenti fossero in grado di fare, Gellert riteneva piuttosto improbabile che fosse stata la Morte stessa a farne dono ai tre fratelli. Gli pareva molto più plausibile che maghi molto dotati fossero stati in grado di dar luce a tali artefatti di stregoneria.

Il giovane Grindelwald credeva di essere riuscito a identificare i fautori dei Doni. Le numerosissime false tracce non erano state sufficienti a depistarlo, poiché a suo dire ogni indizio parlava chiaro, e tutti quelli che giudicava affidabili portavano ai fratelli Peverell. Si trattava di tre maghi inglesi vissuti svariati secoli prima, che si diceva risiedessero in un villaggio chiamato Godric’s Hollow.

Per un fortuito volere del destino, Gellert aveva una zia che abitava proprio a Godric’s Hollow. Quella zia era Bathilda Bagshot.

Proseguendo le proprie ricerche sullo sperduto villaggio, Gellert aveva scoperto quanto fosse intriso di arcana magia. Pareva infatti che, nove secoli prima, in quel luogo fosse venuto alla luce uno dei quattro fondatori di Hogwarts, la scuola di magia e stregoneria più antica e celebre della Gran Bretagna: Godric Gryffindor, dal quale la cittadina prendeva il nome.

Scrivere una lettera che trasudasse affetto e buoni propositi a zia Bathilda era stato un gioco da ragazzi, e la donna ci era cascata con tutte le scarpe.

Quale luogo migliore per dare inizio alla ricerca dei Doni della Morte se non il luogo in cui sono stati creati?

Oltretutto, l’idea di risiedere in un luogo per il quale tanti maghi potenti erano passati lo intrigava terribilmente.

Ma io sarò il più potente di tutti.

Trovare i Doni della Morte era indispensabile per dare compimento ai suoi propositi. Se fosse giunto a divenire Padrone della Morte, nulla – nulla – si sarebbe mai potuto contrapporre fra lui e i suoi obiettivi.

Per adesso, l’intuito gli suggeriva di attendere, di studiare i libri che di nascosto aveva portato con sé da Durmstrang, finché non gli fosse giunto un segno riguardante la via da seguire.

Sono stato destinato a questo. Sono stato destinato al potere.

Di questo, Gellert era fermamente convinto: lui era un predestinato. Il fato aveva voluto che qualcuno desse inizio a una nuova era. Aveva designato proprio lui, fra tanti, per dare l’input ai Nuovi Giorni ed essere Padrone della Morte. Un’eternità di potere sul mondo intero... Una prospettiva fin troppo allettante. Sarebbe stato un mondo perfetto, il suo, un mondo immacolato e armonioso.

Poiché Grindelwald era un prescelto, il destino gli avrebbe prestato ausilio, e mai avrebbe permesso al suo intuito di compiere errori. Thomas, i Doni, Godric’s Hollow... non poteva trattarsi di una mera serie di coincidenze. Gellert era in attesa di un segno, di un qualcosa che gli suggerisse che finalmente era giunto il momento di cominciare. Quel messaggio, il giovane ne era certo, non avrebbe tardato a raggiungerlo. Il suo istinto gli diceva così.

Gellert aveva anche dato un nome al proprio ruolo, quasi un lignaggio.

Gellert Grindelwald, fautore del Bene Superiore e Padrone della Morte.

 

La mattina del ventuno di giugno era cominciata l’estate, e il segno arrivò – ma Gellert non se ne accorse subito.

 

Già nella missiva nella quale lo accoglieva in casa propria con calore, Bathilda aveva parlato a Gellert di un ragazzo – tale Albus – che a suo giudizio era particolarmente acuto e brillante. Zia Bagshot era dell’idea che lui e questo Dumbledore si sarebbero potuti intendere, ma Gellert non aveva dato granché peso alle sue parole. Lui aveva dei Doni da cercare e un potere da conquistare, non c’era tempo – né motivo – di trastullarsi nella noiosa compagnia di un coetaneo che di certo non sarebbe stato alla sua altezza.

Mai, mai avrebbe pensato che di lì a poco si sarebbe ritrovato a condividere i suoi sogni di gloria con quel ragazzo che, senza neanche conoscerlo, considerava così poco.

 

“Gellert?” gli si rivolse quella mattina Bathilda, con voce carica di affetto. “Si può?”

Al suo vago gesto affermativo, la donna si fece strada oltre la porta che aveva socchiuso, per poi sedersi sulla sponda del letto. Gellert, che era quasi sommerso da opportunamente trasfigurati libri di Arti Oscure, si voltò verso di lei, rivolgendole uno dei suoi improvvisi, disarmanti sorrisi.

Era consapevole dell’ascendente che tali sorrisi avevano sulla zia, e sperava che quest’ultima si affrettasse a liberarlo della sua presenza – era impegnato nell’avvincente studio di una branca di maledizioni particolarmente difficile.

“Dimmi, zietta,” l’apostrofò con il suo marcato accento tedesco.

All’uso di quel vezzeggiativo, le guance di Bathilda si imporporarono: gli scoccò un’occhiata colma di affetto materno.

“Sono andata in casa Dumbledore, ieri sera,” disse. “E sono riuscita a convincere Albus a venire a prendere il tè da noi, oggi pomeriggio.”

Di fronte all’assoluta mancanza di reazioni da parte del nipote, la donna parve interdetta. Riuscì poi a nascondere in fretta la propria perplessità, sebbene a Grindelwald non fosse sfuggita.

“Ci pensi, Gellert?” aggiunse allegramente, tentando di coinvolgere il ragazzo nel proprio entusiasmo. “Finalmente vi conoscerete!”

A Bathilda sarebbe parso sospetto se Gellert avesse continuato a mostrare indifferenza, perciò il giovane Grindelwald sorrise.

 

 

****

 

Alle cinque in punto, si udì tintinnare il campanello.

Alle orecchie di Gellert giunse dall’ingresso il rumore della porta che si apriva, il brusio di passi, il suono di soffocati convenevoli. Poi, la voce di Bathilda risuonò per la tromba delle scale:

“Gellert, forza! Scendi giù, che è arrivato Albus Dumbledore!”

Il ragazzo lambì ancora una volta il pensiero di ignorare la chiamata della zia e rinchiudersi nella propria stanza, prima di realizzare cupamente che non aveva altra scelta se non scendere al piano inferiore e finalmente conoscere quel ragazzo così brillante.

 

Non immaginava di trovare in lui l’input che cercava, no. Non poteva, non voleva, neanche sospettava.

 

Si riservò di compiere le mosse necessarie ad abbandonare la camera con estrema lentezza, parsimonioso di fretta o di gesti troppo svelti – nonostante gli fossero propri. Voltare la testa, spingere il piede sul pavimento con pressione calcolata. Caricare il peso su di esso, la pianta salda in terra, per poi allungare l’altra gamba e levarsi adagio in piedi. Prendersi tutto il tempo necessario per stiracchiarsi appena, roteando piano il collo per sciogliere i muscoli – tutto quello studio lo irrigidiva, Gellert ne era consapevole.

A rilento fece un passo. Ne seguì un altro e un altro ancora, e sebbene procedesse quanto più flemmaticamente possibile, finì per raggiungere la porta prima di quanto non si fosse aspettato. Voltò la maniglia, roteando il polso verso l’alto per farla scattare – era difettosa, ma Gellert si era abituato al suo difetto ed esitava a ripararla.

Prima di oltrepassare la soglia, immaginò l’effetto che di lì a poco avrebbe fatto la propria figura, immobile e dritta sulla cima delle scale. Misteriosa e taciturna, con quegli occhi chiari che quasi brillavano al buio del corridoio del primo piano, dove non si affacciava neanche una finestra.

Decise che avrebbe ostentato un’espressione indifferente. Che si sarebbe mostrato noioso e annoiato, così Albus Dumbledore non si sarebbe fatto più vedere.

Forte della propria risoluzione, si fece strada oltre la porta.

Fu a quel punto che una voce riecheggiò dal piano inferiore, ribaltando ogni sua prospettiva.

“Bathilda, forse non è il momento adatto... Non vorrei disturbare.”

Una voce pacata e misurata, dalla cadenza impercettibilmente calcolata.

“Ma no, Albus, figurati! Forse Gellert non avrà sentito, è talmente preso dai suoi studi...”

“Appunto, davvero. Forse è meglio che va-”

“Arrivo!”

La voce di Gellert uscì vagamente stridula fra le sue labbra. Aveva emesso quelle tre sillabe prima di riuscire a trattenersi, preso da un’improvvisa e inaspettata ansia – una sorta di trepidazione. Qualcosa, forse l’istinto, gli aveva suggerito di intervenire. Di non lasciare che il proprietario di quel calcolo impercettibile di suoni se ne andasse prima che lui riuscisse a vedere il suo volto.

Si diresse rapido verso le scale, ormai dimentico di quell’accurata ed esasperante lentezza, esterrefatto dal modo in cui quel suono aveva capovolto il suo mondo – illuminazione, lo colse d’improvviso.

Istinto? Destino? Il tuo segno è forse questo?

Sopraffatto, perplesso, esaltato.

Impiegò neanche dieci secondi a raggiungere le scale, ma quel tempo più che ridotto fu per Gellert sufficiente a capire che si stava smarrendo in pensieri sconnessi, a comprendere che occorreva radunarne le fila e cercare di leggersi dentro.

L’istinto di un predestinato non può sbagliare.

Doveva averlo preceduto il rumore dei propri passi: lo capì dal modo in cui, al suo precipitarsi nell'ingresso, il giovane che attendeva assieme a Bathilda si voltò nella sua direzione. Lo colpì la figura sottile e flessuosa del ragazzo, i suoi arti esili e nervosi, l'apparenza scattante. Le ciocche di capelli rossicci e lucenti che contornavano un viso lievemente scavato, dal pallore malsano e innaturale, caratteristico di chi da un bel pezzo non trascorre qualche ora all'aria aperta.

Ma furono gli occhi di Albus Dumbledore a catturare la sua attenzione: occhi di un azzurro chiaro e penetrante, quasi tagliente. Il modo in cui erano vagamente socchiusi, quasi fosse perennemente sovrappensiero... La lieve sorpresa che li aveva fatti sgranare per un istante solo dietro alle lenti a mezzaluna degli occhiali, prima che il loro proprietario li socchiudesse ancora, scoccando a Gellert un'occhiata che quasi lo attraversò da parte a parte.

“Oh, ecco Gellert!” la voce di Bathilda risuonò per l’ingresso, vagamente compiaciuta. “Eccoti qui! Lui è –”

“Albus,” l’altro si fece avanti con la mano tesa. “Albus Dumbledore.”

Gellert notò come tenesse dritta la testa. Sembrava una persona avvezza a primeggiare, ad essere sempre il migliore. Le sue spalle, tuttavia, erano un poco incurvate e appariva complessivamente di umore piuttosto tetro

“Gellert,” si presentò lui a propria volta, stringendo la mano che l’altro gli porgeva.

La stretta di Dumbledore era ferma, sicura, in qualche modo stabile e franca – di quella franchezza profonda e ingannatoria tipica delle persone molto intelligenti. Quelle che – almeno per come la pensava Gellert – paiono sempre comportarsi nella maniera migliore possibile, ma al di sotto dello schermo del loro saggio, appropriato giudizio, conservano per sé un labirinto di sensazioni aggrovigliate eppure chiare a modo loro.

I loro sguardi si incrociarono. Gellert sorrise di uno dei suoi tipici sorrisi – l’espressione di Albus parve vacillare impercettibilmente, prima che il proprietario si ricomponesse e sostenesse lo sguardo dell’altro.

“Venite di là, ragazzi,” li invitò Bathilda con fastidiosa gentilezza, interrompendo il loro colloquio prima ancora che avesse inizio. “Il tè è pronto.”

Dumbledore le rivolse un sorriso cortese ma lievemente distaccato. La zia Bagshot non parve avvedersene, comunque, poiché, chiaramente a proprio agio, posò una mano sul braccio del ragazzo e condusse entrambi nel salotto adiacente.

Gellert notò come l’altro si guardasse attorno con vago, impercettibile nervosismo. Pareva un uccello in gabbia. Quella frustrazione che l’intera sua persona sembrava emanare... doveva essere un segno, sì, un segno del destino.

Grazie, si ritrovò a pensare il giovane Grindelwald. Grazie.

 

 

Note dell’Autrice

Si entra nella storia!

Credo non ci sia molto da dire, in realtà, se non che questo capitolo e disgustosamente breve per motivi di trama.

Baci, Daphne

   
 
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