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Autore: Doralice    18/04/2012    6 recensioni
Piccola, azzurra aleggia
una farfalla, il vento la agita,
un brivido di madreperla
scintilla, tremola, trapassa.
Così nello sfavillio d'un momento,
così nel fugace alitare,
vidi la felicità farmi un cenno
scintillare, tremolare, trapassare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: Mpreg, Tematiche delicate
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ATTENZIONE: pericolo di fluff ingannevole e colpi di scena!

La citazione l'ho presa dalla bellissima I Am Not A Robot di Marina and the Diamonds. Un consiglio: ascoltatela, e magari leggetevi il testo, perché dalla prima all'ultima strofa è una vera e propria ode al nostro Sherly.






Otto

~

Di due grandi uomini schiacciati da una sola piccola cosa


It’s okay to say you’ve got a weak spot
You don’t always have to be on top
You’re vulnerable
You are not a robot
You’re lovable
But you’re just troubled

Marina and the Diamonds –



Quel che dovevano dirsi – o non dirsi – se l'erano ormai detto e non c'era avanzato più niente. E andava bene così, per cui semplicemente non ne parlarono più. John non ne sentiva l'esigenza e non ci fu bisogno di ulteriori dimostrazioni di aggressività passiva da parte di Sherlock.

Era un'intesa silenziosa, un patto mai pronunciato. John non avrebbe mai saputo dire esattamente in che modo ci riuscirono, ma accadde. Quello che invece seppe fin dall'inizio, era che non sarebbe durata a lungo. Fu facile decidere di piantarla con le paranoie e godersela finché poteva.

Le giornate scorrevano come al solito: con esternazioni più o meno fastidiose di noia cronica da parte di Sherlock, e reazioni a metà strada tra la pazienza granitica e l'esasperazione totale da parte di John. Si stabilì un rituale collaudato che ogni sera rispettavano diligentemente.

John lo aiutava a lavarsi, dopo eseguivano il check-up – tra i borbottii contrariati del paziente che come al solito protestava per l'olio di mandorle. Il tutto si chiudeva con Sherlock che sgattaiolava in camera sua ad orari improbabili. Con gli occhi intorpiditi di sonno, John alzava la coperta e lo accoglieva nel calore del letto, ricoprendo entrambi, seppellendoli in quella tana che gli aveva preparato. John spegneva quindi l'abat-jour, mettendo così ufficialmente fine ad un'altra giornata e dando inizio ad un'altra nottata fatta di gambe intrecciate e di riccioli che in qualsiasi posizione si mettessero riuscivano a fargli il solletico. Si addormentavano in un religioso silenzio che sapeva di respiri lenti e mani calde e mandorle.

Semplice, lineare. Da infarto miocardico.

Con reciproca diplomazia, entrambi non badavano al pulsare sordo che premeva nelle loro mutande. Era la stessa diplomazia che usava John quando gli succedeva ancora di trovare la porta del bagno socchiusa. Sì, proprio come quella volta. Per buona norma si ricordò sempre di bussare e questo gli evitò di trovarsi di nuovo davanti ad una scena che difficilmente avrebbe più rimosso dalla sua testa, alimentando improbabili fantasie.

Gli anni nell'esercito l'avevano abituato a fare finta di niente quando dal letto accanto al suo provenivano cigolii e sospiri soffocati sul cuscino, con la consapevolezza che quella cortesia sarebbe stata ricambiata la notte dopo con altrettanta solerzia. Ma adesso John non era più nell'esercito e non si trattava del commilitone che si spara una sega con la testa sotto le coperte e la torcia accesa contro le foto dell'ultima Playmate. Si trattava di Sherlock in preda a sbalzi della libido causati da ormoni. E, per quanto John avesse contemplato con notevole entusiasmo l'idea di risolvere a modo suo quel problema, il loro silenzioso accordo prevedeva l'astensione da qualsiasi contatto sessuale tra di loro.

Il risultato di questa politica, in quei giorni di metà giugno del 2011, si concretizzò in un'assidua frequentazione del bagno del 221B di Baker Street.


Sherlock estrasse il pass dalla tasca interna del cappotto e se lo rigirò tra le dita. Lo strisciò: la lucina rossa divenne verde e la porta si aprì automaticamente con un “clack”.

John saettava gli occhi da lui all'ambiente alieno che li circondava. Si era sempre sentito a disagio in quella struttura. Sherlock avrebbe potuto elencare con precisione i dettagli del linguaggio corporeo che gli raccontavano come entrasse in assetto da battaglia ogni volta che varcavano i cancelli del centro di ricerca di Baskerville.

Sei pronto? –

Oh, John. Quanta ingenuità è necessaria per farmi una simile domanda?

Non era stato un viaggio spiacevole quello da Londra, ma era stato in qualche modo inficiato dalla consapevolezza che prima o poi John gli avrebbe posto quella domanda. E d'altra parte lui avrebbe dovuto prevedere la sua risposta. No, sicuramente l'aveva prevista, ma per qualche ragione si era sentito in dovere di porgliela comunque.

Faceva parte della natura binaria del loro rapporto. Entrambi erano perfettamente consapevoli di come l'altro avrebbe desiderato che si relazionasse con lui. E nonostante questo si ostinavano a restare nei propri schemi. Sherlock intuiva che era questa la chiave del loro equilibro. Se si fossero adeguati l'uno all'altro, sarebbero naufragati. Un fallimento totale. Rimanere sé stessi, con tutte le loro idiosincrasie, era l'unico modo per restare uniti.

Perché non dovrei? –

Sai cosa intendo. –

Ovviamente. – ribatté Sherlock atono.

Questa volta, John si limitò a lanciargli un'occhiata di traverso, le labbra strette e la testa appena inclinata in segno di rassegnazione.

Questo – la rassegnazione – era una maschera che Sherlock aveva individuato fin dai primi casi risolti insieme. Beninteso, John era condiscendente con lui, lo era quel tanto sufficiente da rendere sopportabile la loro convivenza. Ma la rassegnazione – quella vera – non faceva parte del suo animo. Sarebbe stata incompatibile con la sua natura di medico e soldato. Ma quel suo modo più o meno conscio di mettere da parte le sue ragioni e sfoderare una rassegnazione che non possedeva, era una delle caratteristiche che avevano irretito Sherlock come un adolescente alla sua prima cotta.

Siete in anticipo. –

La constatazione, di per sé retorica, appariva perfino ridicola considerata la fonte da cui proveniva.

Mycroft. –

Fermo davanti all'ingresso del laboratorio della Stapleton, suo fratello li salutò con cenno del capo. Aver previsto la sua inopportuna presenza non gli tolse il fastidio di sentirsi costantemente monitorato da qualcuno che riteneva di saper gestire i suoi affari meglio di lui.

Ti vedo pallido. – commentò, si rivolse poi a John – Gli stai somministrando le vitamine? –

Come se non lo sapesse.

Sono un medico. – si limitò a fargli notare John.

Sherlock si lasciò sfuggire un sorriso.

Il volto di Mycroft si deformò in un tronfio sogghigno: – E sa quello che fa, naturalmente. –

John divenne inspiegabilmente paonazzo. Sherlock si chiese se e come estromettere suo fratello dall'intera faccenda senza che ciò implicasse problemi riguardo la copertura dell'esperimento. Decise che ci avrebbe riflettuto adeguatamente dopo la visita.

Signor Holmes, dottor Watson. – li accolse la Stapleton.

Gli rivolse un cenno e Sherlock andò a spogliarsi dietro un paravento di tela azzurra. Ridicolo, ma faceva parte del teatrino. Certe consuetudini – come inventarsi momentanei pudori davanti al proprio fratello, al proprio medico e all'uomo che ti ha messo incinto – sono tanto inutili quanto radicate.

Non faceva freddo. All'interno del laboratorio la temperatura era tarata per restare sui 25 gradi costanti. Eppure aveva la pelle d'oca. Cercò di non darsi la spiegazione più logica, ma gli sguardi di John riflettevano il suo umore e quelli non erano facili da ignorare.

Autopsia dell'anima: di solito era lui a farla agli altri. Scoprì che non era divertente trovarsi dall'altra parte.

Steso sul lettino, Sherlock subì l'assalto delle mani inguantate della Stapleton senza fiatare. Non c'era niente di nuovo, procedeva tutto nella norma, e lo capì ben prima che la dottoressa si sfilasse i guanti con uno schiocco e facesse il riassunto ai presenti.

Direi che possiamo procedere con l'ecografia. –

Sherlock si mosse nervoso sul lenzuolo medico, attirando uno sguardo incuriosito del fratello. Lo ignorò. Improvvisamente rigido, focalizzò l'attenzione sui movimenti della dottoressa.

Lei postò l'attrezzatura, posizionata su un carrello, fino ad avvicinarla al lettino. Prese da un cassetto un tubetto dell'apposito gel. Si sedette su uno sgabello. La noce di gel che gli spremette sul ventre era fredda e appiccicosa – gli fece risucchiare la pancia per i brividi. Ricordò il disagio delle prime dosi ormonali e questo non lo aiutò mentre cercava d'isolarsi dai presenti. Ma era incastrato in una bolla, messo sotto una lente d'ingrandimento. Era un oggetto di studio e non gli piaceva, per quanto ne comprendesse l'inevitabilità.

Nessuno parlava mentre la Stapleton accendeva l'apparecchiatura e posizionava la sonda sulla sua pelle. Sherlock si sforzò di focalizzare l'attenzione sul ronzio lieve delle ventole elettriche e sullo schermo nero.

Un flash, due. Il cono bianco apparve, distorto e inframmezzato. Sherlock poté sentire John trattenere il respiro. Non si vedeva ancora assolutamente niente di significativo e lui già andava in crisi: fra non molto avrebbero dovuto somministrargli un sedativo.


Era tutto sommato tranquillo. Davvero, ce l'avrebbe potuta fare. Non era certo la prima ecografia a cui assisteva. E Sherlock era così rilassato. Non poteva fare la figura della donnetta isterica. Non adesso, per la miseria.

Oh, eccoti qui... – mormorò la Stapleton.

Dove? – chiese qualcuno.

Lì. –

La mano della dottoressa si mosse sullo schermo a racchiudere una zona. Con una certa fatica, John ripescò da qualche anfratto della memoria le informazioni mediche necessarie per identificare quello che stava guardando.

La camera gestazionale. – spiegava la Stapleton – Si è formata nella cavità retto-vescicale. Interessante. –

Cosa... cos'è questo? –

John percepì bene la propria voce, ma ebbe come l'impressione che provenisse da molto lontano. Anche il dito che puntava allo schermo: era il suo? Davvero?

La testa. – disse la dottoressa con ovvietà.

John batté le palpebre un paio di volte e deglutì a vuoto, scoprendo con disappunto di avere la gola secca.

La testa? – le fece eco stupidamente.

La testa? – si ripeté ancora, come se quelle due parole potessero rendere meno surreale l'intera situazione.

Ma non... ma è già... così? –

Lo sguardo che gli rivolse la Stapleton fu alquanto significativo.

Dottor Watson, è un feto alla dodicesima settimana, direi che sarebbe preoccupante se la testa non fosse già visibile. – gli rispose con la calma forzata di chi si rivolge ad una persona mentalmente instabile.

Giusto. Sì. – si umettò le labbra e annuì, cercando di assumere una parvenza di professionalità e naufragando miseramente nella sua stessa agitazione – Uhm... è solo... niente. Bene. –

A quel punto Mycroft si sentì in dovere d'informarsi se stesse bene. John era già abbastanza provato senza che ci si mettesse anche un Holmes di troppo e aprì la bocca per ribattere gentilmente di farsi gli affari suoi.

La voce stentorea di Sherlock risuonò tra le pareti del laboratorio: – Santo cielo, volete tacere?! –

L'effetto dell'ammonimento fu immediato e John non poteva certo lamentarsene.

Sherlock esordì poi con un lapidario: – Mycroft. – e puntò uno sguardo accigliato sulla figura irrigidita del fratello.

Qui non c'è nessuno da impressionare, per cui per una volta puoi farci la cortesia di trattenere il tuo ego e astenerti dall'applicare i soliti giochetti psicologici su John. E sì, hai sentito bene, non è una gentile richiesta in forma interrogativa, ma un ordine inappellabile in forma affermativa. – si rivolse quindi alla Stapleton – E si può sapere perché lei se ne sta lì ad illustrare ovvietà? È un medico strapagato e dotato di apparecchiature ai limiti della legalità: mi dica qualcosa che non so. O per lo meno mi dica qualcosa. –

John non avrebbe saputo dire cosa fosse più comico, se il cipiglio da dama oltraggiata concentrato sul volto paonazzo di Mycroft o il pallido “Ehm” emesso da una impacciatissima Stapleton. Decise che non era niente di tutto quello. Era Sherlock l'elemento più comico della situazione. Sherlock mezzo nudo, steso su un lettino d'ospedale e sporco di gel, con una sonda ecografica puntata sulla pancia, eppure dotato di tutta la dignità umanamente ed inumanamente possibile. L'espressione di seccante superiorità con cui riusciva a squadrarli dall'alto in basso nonostante in quel momento fosse fisicamente ad un livello inferiore rispetto a loro. Era del tutto comico, sì, e anche dannatamente tenero. E questo riuscì a smorzare per un momento la tensione di John, strappandogli un sorriso.

Dopo un notevole lasco di silenzio, Sherlock indicò un valore che lampeggiava nell'angolo in alto dello schermo.

È il battito cardiaco? – chiese con l'aria di chi poteva anche fare a meno di porre la domanda.

La dottoressa non fece in tempo ad annuire che lui sentenziò: – È troppo rapido. –

Vagamente esasperata, lei inarcò le sopracciglia e obiettò che rientrava perfettamente nella norma.

Rientra a pelo. – ribatté Sherlock.

S'era nuovamente accigliato. E John notò anche quella contrattura del mento, quella che gli veniva quando era agitato per qualcosa. Era una sorta di broncio che gli conferiva un'aria infantile.

Perché? – incalzò con voce petulante – È evidente che si tratta di un'anomalia. –

Signor Holmes, – sospirò nervosamente la dottoressa – qualsiasi anomalia sarebbe già stata rilevata dalle analisi precedenti. –

Oh, per favore! – sbottò gesticolando nervosamente – Queste strumentazioni sono tanto costose quanto inaffidabili. Seriamente, come si può condurre un esperimento in condizioni... –

Dicono che lei sia dotato dell'orecchio assoluto. – lo interruppe infastidita – Se non si fida dei costosi strumenti del governo, ascolti lei stesso. –

Con un dito pigiò un interruttore e quello fece click e dalle casse dell'apparecchiatura uscì un suono. Lieve, quasi indistinto.

John capì cos'era ancor prima che la Stapleton, aumentando il volume, rendesse perfettamente udibile quel ritmico wosh-wosh. Faceva proprio così: wosh-wosh. Veloce, lì, sotto strati tessuti e muscoli, sangue e liquido amniotico, passava attraverso il sonar dell'ecografo, era sintetizzato dai circuiti e fuoriusciva dalle casse, riempiendo il laboratorio.

Wosh-wosh.

John ci sbatté il muso con violenza inaudita su quel wosh-wosh e sentì semplicemente tutta l'aria spremuta fuori dai polmoni. Sentì il cuore accelerare fino a raggiungere un ritmo che poteva concorrere con il nuovo battito che risuonava tra di loro. Sentì un crescente tremore che gli sconvolgeva ogni fibra del corpo. John Watson sperimentò tutto questo mentre finalmente realizzava con implacabile realismo quello che stava succedendo. Quello che loro stavano facendo. Quello che si sarebbero trovati per le mani di lì a ventotto settimane.

Era una plateale responsabilità alla quale, concentrato com'era su questioni che adesso apparivano ridicole, era riuscito a sfuggire così a lungo. Adesso ne era schiacciato. Ma, cosa forse anche più agghiacciante, capì all'istante di essere, da quel momento e per sempre, inesorabilmente conquistato da questa cosina non ancora nata che già faceva sentire la sua voce.

E l'unica cosa che riuscì a fare in quel momento di atroce consapevolezza, fu emettere un flebile, disperato “Oh, Dio”.


Sherlock Holmes non era esattamente ferrato nelle questioni sentimentali. E di questo erano perfettamente consapevoli tutti – lui stesso compreso. Ma in questo caso non si trattava solo di assenza di empatia e scarsa propensione ai rapporti umani. In questo caso si stratta di incapacità di gestire le proprie reazioni emotive.

Oh sì, nemmeno questa era era novità. Naturalmente. Ne aveva avuto ampia dimostrazione negli ultimi mesi di convivenza con John. Certo, la loro situazione, di per sé già ambigua e al limite del socialmente accettabile, era stata ulteriormente aggravata da 1) la casuale gravidanza cui erano incappati, 2) la conseguente assunzione di ormoni cui Sherlock s'era dovuto sottoporre. Tuttavia queste variabili in gioco, per quanto avessero il loro peso, non modificavano in alcun modo la portata della questione-base. Il nocciolo attorno al quale tutto era andato costruendosi.

Che, appunto, Sherlock Holmes non era in grado di gestire le proprie emozioni. Non sapeva che farsene, ecco. Le aveva sempre ritenute un inutile peso, se non un difetto. Per cui, seguendo lo schema più logico, ne aveva sempre applicato una soppressione. Per quanto, purtroppo, non fosse un Vulcaniano, dunque non era mai riuscito del tutto nel suo intento.

Questa sua totale mancanza di rapporti con la sfera emotiva, aveva atrofizzato il suo cuore – metaforicamente parlando, è ovvio, 'ché fisiologicamente lui era perfettamente sano. Fino ad indurre sé stesso e la gente intorno a lui a crede di essere incapace di provare quegli umani sentimenti che per la gente comune erano così scontati.

Ma Sherlock non era privo di emotività. Sherlock, semplicemente, era fuori allenamento. E non è che il modo migliore per rimettersi in forma forse ritrovarsi di colpo con un pseudo-amante dalle inclinazioni sessuali confuse e una gravidanza in atto. Ma era così e basta e per un po' lui riuscì a gestirsi. Ce la fece fino a quel pomeriggio di inizio giugno, a Baskerville.

Erano presenti – in ordine crescente d'importanza – tre persone: la dottoressa Jaqueline Stapleton, suo fratello Mycroft Holmes e il suo coinquilino barra collega barra blogger barra pseudo-amante barra inseminatore casuale, il dottor John Hamish Watson. Sherlock era proprio certo che vi fossero solo loro quando era entrato nel laboratorio. Adesso, nel contatto empirico con qualcosa che il suo cervello aveva saputo essere sempre presente, si era reso conto che no, non c'erano solo loro. C'era una quinta presenza in quella stanza.

Era dentro di lui. L'aveva sempre chiamata “esperimento”. Si era rapportato ad essa come un oggetto di utilità scientifica. Ed era inconcepibile come adesso, per il solo, banale ascolto del suo battito cardiaco, gli fosse impossibile continuare imperterrito su quella linea.

In due minuti e mezzo dal momento in cui si aveva preso consapevolezza del suo stato di prossimo genitore, era riuscito ad elaborare, nell'ordine: un'ipotesi ottimistica – ma comunque altamente plausibile data l'obbiettiva avvenenza fisica di entrambi i genitori – sull'aspetto fisico del nascituro; un'ipotesi un po' meno plausibile e alquanto azzardata, dettata principalmente da aspettative personali, ma comunque probabile, sul carattere e le inclinazioni intellettuali del futuro nascituro; sette possibili combinazioni di nomi maschili e sette possibili combinazioni di nomi femminili che suonassero bene con il doppio cognome Holmes-Watson; futili fantasie ad alto contenuto glicemico su quadretti familiari cui mai si sarebbe sognato di volersi dipingere; inopportune fantasie erotiche su un John in versione figura paterna che, proprio sapeva spiegarsene il motivo, trovava estremamente eccitante.

Era un problema. Un grosso problema. Niente di tutto questo era stato contemplato nello schema dell'esperimento. La sua intera vita sconvolta dalla presenza di un figlio? No. No davvero. Non lo augurava a sé stesso e tantomeno al figlio in questione. Sherlock possedeva invidiabili competenze in numerosissimi ambiti, ma non nella puericultura.

La soluzione sarebbe stata ovvia, ma John l'avrebbe certamente rifiutata. Poteva immaginarsi perfettamente la sua espressione orripilata nel caso in cui gli avesse comunicato come mettere fine ad un esperimento che si era fatto troppo ingombrante.

No, non era fattibile. Adozione, ecco cosa. Come aveva fatto a non pensarci? Mycroft avrebbe certamente risolto anche quel cavillo e lui e John sarebbero tornati alla loro vita di sempre. Era così perfetto e lineare, che dovette trattenersi dal comunicarlo subito a John.

La sua reazione all'ecografia era preoccupantemente emotiva. Naturalmente la sua decisione era presa, ma poteva ragionevolmente supporre che se l'avesse comunicata a John adesso, lui avrebbe opposto un'infantile rifiuto.

Oh, be'. Ci avrebbe pensato più avanti. Al momento era impegnato in ben altro. Per la precisione, tornando al nocciolo della questione, era impegnato a gestire le proprie reazioni emotive.

Mancava ancora almeno un mese e mezzo all'espianto, dopo il quale l'intero esperimento sarebbe passato nelle mani della Stapleton, sollevandolo da ogni responsabilità. E nel frattempo? Come poteva uscire da quel loop emotivo in cui era malamente caduto? Come sarebbe riuscito a ridimensionare nuovamente il tutto, facendo tornare ogni cosa nello schema che si era prefissato? Se non poteva più fornire la definizione che gli aggradava a quella situazione, come avrebbe fatto a rapportarsi ad essa?

In questo inaspettato frangente, i sentimenti apparivano quantomai svantaggiosi. Doveva sradicarli, epurarsene. Riprendere il controllo.

Doveva farlo subito. Doveva farlo adesso.

Sherlock si chiuse istantaneamente, come un riccio impaurito. Rigido nella sua cocciuta ostinazione, non si rendeva conto che quello da cui credeva di doversi difendere non si trovava all'esterno ma all'interno di sé. E questa volta non sarebbe riuscito a liberarsene come credeva.


Poteva percepirlo distintamente, neanche fosse apparsa una scritta al neon che lampeggiava tra di loro il messaggio inequivocabile.

Era finita. L'intesa, il patto, o qualsiasi cosa ci fosse stata negli ultimi giorni, era finita. Silenziosamente, così come era iniziata – così come l'aveva sempre immaginato. Morta nell'aria ferma dell'abitacolo dell'auto e nel ronzio sordo del motore che faceva da sottofondo ai suoi pensieri.

Solo, non era stato preventivato che accedesse così: appena dopo la presa di coscienza più difficile della sua vita.

Ma negli ultimi tempi c'erano tante cose che John, nonostante la sua accortezza, non era riuscito a preventivare. Come già si era ritrovato a riflettere un paio di mesi prima: niente di tutto questo era stato preventivato. Come il principio di ogni cosa – di loro.

Fin dal momento in cui Mike Stamford, senza stare a rifletterci troppo, pensò a Sherlock quando lui gli disse che era in cerca di un posto, di una casa. Un ponte casuale gettato tra due esistenze qualsiasi in mezzo ad altri sette miliardi. Poi John prese quella decisione: che non era una cattiva idea lanciarsi in un'indagine per omicidio assieme ad un tizio conosciuto da un paio di giorni. Forse Sherlock l'aveva preventivato, lui no. Non aveva nemmeno preventivato di uccidere un uomo entro la sera pur di salvarlo da un presunto pericolo di morte.

John sterzò dolcemente e accostò. Fermò l'auto nella corsia d'emergenza. Sherlock non parlò, né si mosse.

A John non piaceva quel silenzio.

Esistevano vari gradi di silenzio tra di loro. Per esempio il silenzio che si creava mentre si occupavano insieme di un caso e riflettevano sulle stesse cose: quello sapeva d'intesa, meccanismi combacianti alla perfezione, come un ingranaggio che solo in quel preciso istante poteva funzionare di un ritmo accurato e inimitabile. Poi c'era il silenzio con cui John accompagnava il suo violino: erano piccoli momenti, cammei di pace nella frenesia della loro vita. C'era infine il silenzio che arrivava con la sera: quando Sherlock non era troppo annoiato o seccato e John era abbastanza stanco da accettare le sue bizzarrie e il divano diventava una piccola alcova dove non era inopportuno se Sherlock gli posava la testa in grembo e lui gli passava le dita tra i capelli mentre facevano finta di seguire un programma in tv. E ce n'erano altri, molti altri, tutti unici e a loro modo bellissimi.

Questo non era bellissimo – affatto. Questo era un silenzio brutto. Molto brutto. Era la pecora nera dei silenzi.

Questo, John ormai lo sapeva bene, era il silenzio delle parole non dette. Se gli altri silenzi erano quelli delle parole superflue, delle parole che avrebbero rovinato la perfetta intesa del momento, questo era il silenzio delle parole che premevano per uscire e che se ci fossero riuscite avrebbero potuto distruggere ogni cosa.

Il brutto silenzio si prolungò fino ad esaurire la scorta di speranza di John e infine venne spezzato dalla suoneria del cellulare di Sherlock.

Se hai bisogno della mia consulenza per quell'omicidio-suicidio, come è ovvio, sappi che sono fuori città. Comunque, segui il gatto e cerca fra i suoi gomitoli. –

Chiuse poi la chiamata e ripose il cellulare nella tasca.

John si voltò verso di lui, le labbra contratte quanto lo stomaco.

Gli vennero in mente le lunghe discussioni e le soste per farlo vomitare durante i viaggi da e per Baskerville. Gli vennero in mente le futili rivelazioni su un rapporto che era già palesemente in bilico dal primo giorno di convivenza e che aspettava solo una spintarella da un lato o dall'altro. Gli venne in mente come avessero avuto bisogno di una momentanea mutazione genetica e di un gas allucinogeno per fare quello che avevano voglia di fare da mesi. E sopratutto gli venne in mente come fossero riusciti ad accettare quello che provavano l'uno per l'altro solo mettendoci in mezzo un figlio.

Gli venne in mente che quel silenzio era brutto e che era giusto che così fosse, perché – pensò mentre rimetteva in moto – non poteva essere più adatto. Loro erano così e basta e non c'era niente, proprio niente, che John potesse farci.

Non gli venne in mente, invece, come fosse sospetta la facilità con cui si rassegnò a queste constatazioni. Non si rese conto, immerso com'era nelle sue nuove paura, che forse anche Sherlock non si sentiva più così sicuro. Chiuse così quella porta: con una rassegnazione eccessiva della quale un giorno si sarebbe pentito.


Esattamente, John. Noi siamo così e basta.

Gli dava un retrogusto amaro quella constatazione, ma Sherlock sapeva che era vera. E da amante della verità quale lui era, non poteva non esser lieto di esserci arrivato.

Allora cos'era quel disagio?

Oh... oh, John. L'hai fatto.

Si era rassegnato.

Se da un lato Sherlock sapeva che questo avrebbe facilitato il distacco, dall'altro tramutò inevitabilmente quell'amarezza in dolore. Un dolore sordo e pulsante che, senza sapersene spiegare il motivo, lo faceva sentire in colpa.

Sherlock provò a metterlo da parte e in un certo senso ci riuscì. Nella sua ingenuità, si può dire che ebbe successo. Era ancora troppo inesperto di sentimenti per capire che certe cose non le si può mettere da parte.

Ebbe una certa durata, quindi. Ore, giorni, settimane. Il tempo di tornare a Londra e ritrovarsi in una forzata routine che non apparteneva più a loro. Odiare quella routine e perdersi in reminiscenze di quella appena abbandonata. Accorgersi che quello che aveva messo da parte era sempre lì che aspettava ed ostinarsi a rifiutare di accoglierlo com'era suo diritto.

Il tempo – tre settimane e due giorni, per la precisione – di constatare che le cose belle, spesso, finiscono per nostra esclusiva volontà. Mentre altre finiscono ancor prima di rendersi conto – di accettare – quanto siano belle.

Il tempo di svegliarsi in piena notte con la sensazione di un ago arroventato che gli rovistava nel ventre. Cercare di sollevarsi e ricadere sul materasso e urlare senza sapere di farlo, mentre iniziava a divorarlo un dolore che non aveva niente a che fare con quel sintomo e con il significato che si portava appresso e al quale si rifiutava di pensare.

Il tempo di vedere John sulla porta, immobile e pallido. E capire che non solo non era riuscito a mettere da parte un cazzo, ma adesso – proprio adesso che stava per perdere tutto – tutto questo era l'unica cosa a cui non avrebbe mai voluto rinunciare.

Il tempo di sentire le mani calde di John tastargli piano il ventre e poi sollevarlo di peso, portandosi dietro una coperta. La stanza attorno che si muoveva e il panico innominabile che lo assaliva, attutito appena dalla voce di John che gli vibrava addosso. La carta da parati delle scale che gli scorreva davanti e poi il freddo della notte, il sedile di auto e il chiudersi della portiera. E poi più nulla. Più nulla.

   
 
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