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Autore: Aesir    22/04/2012    2 recensioni
Questa fiction è il seguito di "Leggende del Mondo Emerso: La Strada di Dubhe"
Mano nella mano nelle tenebre
Il prezzo per una vita assieme
Una missione in cui non credono
Dubhe e Aster
Riusciranno nel loro obiettivo?
Se giochi secondo le regole, non ti sogneresti mai di infrangerle. Ma io non ho voglia di giocare secondo le regole. E quando queste si fanno troppo pressanti, e t’ingabbiano, e t’incasellano, e t’infilano a forza in un’esistenza che detesti con tutta te stessa, l’unico modo per sfuggirle è mettere fine al gioco. Mettere fine a tutti i giochi. Perché quando i giochi finiscono, nessuna regola vale più
[DubhexAster]
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yuri | Personaggi: Aster, Dubhe
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Leggende del Mondo Emerso'
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Scena Seconda (II): I VOLTI DI MAKRAT

 

Destroy this city of delusion
- Muse,
City of Delusion

Sbrigati! Sta crollando tutto, qui!” Quasi a sottolineare le sue parole, una grondaia assurdamente sporgente si staccò e precipitò al suolo, finalmente vittima delle leggi della gravità.
Ci sto provando… Ahi! Credo di essermi slogato una caviglia!”
Non riesci a guarirti con la magia?”
L’ho esaurita!”
Un cornicione si sgretolò dinnanzi ai loro occhi, compiendo in pochi secondi il lavoro di millenni.

Dannazione, e io da qui non posso fare niente! Pensi di farcela ad issarti a forza di braccia?”
Penso di sì… anzi, devo.”
Una corda scivolò al suo fianco.
Si arrampicò. Una mano dopo l’altra.

Forza, Aster, ancora poche spanne!” La sua voce tradiva la disperazione.
Le mani gli bruciavano come se avesse maneggiato del materiale ardente, la presa si faceva sempre più difficile… sarebbe scivolato…

Dai, ci sei quasi!”
All’improvviso avvertì un fortissimo strattone ai capelli.

Scusa!”, esclamò la ladra, tirandolo oltre il bordo del cornicione. Aster sforzò le braccia e superò la sporgenza, poi si accasciò sulla sabbia, incapace di fare alcunché. Un lieve tonfo gli annunciò che Dubhe aveva fatto altrettanto. Con una parola lei gli guarì la caviglia.
Grazie”, le disse a fatica.
La ragazza lo guardò, ansante. Le mani le bruciavano, laddove la corda le aveva sfregate, si sentiva gli addominali a pezzi, per lo sforzo di stare prostrata al suolo per issare il peso del mezzelfo, da come le formicolavano aveva seri dubbi che le gambe fossero in grado di reggere il suo peso, e nessuna voglia di sperimentarlo, e quanto ai muscoli delle braccia, il dolore doveva essere tanto grande che il suo corpo rifiutava semplicemente di quantificarlo, facendole percepire semplicemente una sorta di indolenzimento generale. Ma era un’illusione: sapeva benissimo che la mattina seguente avrebbe pagato con gli interessi. Con un certo sforzo, aprì la mano, lasciando svolazzare sulla sabbia un ciocca di capelli blu notte, che si sparsero sul terreno come frammenti di cielo caduti in terra. “Di... nulla...”, riuscì ad articolare dopo un paio di respiri profondi.
Rimasero per un po’ in silenzio, incapaci di dire o fare alcunché, finchè la ladra non riprese: “Fammi…”
Fu costretta ad interrompersi a causa di una fitta all’addome che la fece piegare in due, gli occhi sbarrati e lacrimanti. Con una smorfia si passò una mano sul ventre dorante. “Fammi vedere le mani”, boccheggiò infine. Aster, sorpreso, si limitò a tendergliele senza domandarsi il perché. La ragazza trasalì: “Perché non me le hai fatte vedere prima?”, esclamò.
I palmi erano attraversati da una linea esangue, mentre tutt’intorno la carne era coperta di piaghe che stillavano sangue. Il liquido rosso gli scorreva in sottili rivoli lungo i polsi, e aveva già macchiato la casacca e creato una piccola pozza per terra. Dubhe non attese neanche la risposta, e lo guarì come aveva fatto per la caviglia. Poi gli posò un bacio su ciascuno dei palmi. “Per sopportare il dolore”, gli mormorò.
Aster sorrise: ogni occasione era buona, per scroccare un bacio alla bella ladra.
Dopo un po’, quasi di comune accordo, si tirarono entrambi in piedi, gemendo e ondeggiando come se fossero stati ubriachi. Erano stanchissimi e i muscoli gli facevano un male da morire, ma non sembravano feriti gravemente.

Questa volta c’è mancato poco”, osservò Dubhe. Il mezzelfo annuì: non potevano morire, certo, ma la prospettiva di rimanere sepolti per chissà quanto sotto cumuli di macerie non era molto allettante. Le passò una borraccia, che la ladra aprì, bevendone una buona metà e versandosene il resto in testa, inzuppandosi per bene i capelli e i vestiti. Aster, compreso il ragionamento dell'assassina, la imitò. Il silenzio fra i due riprese, mentre erano persi nelle loro riflessioni.
Avrei dovuto pensarci, cazzo!”, sbottò la ragazza all'improvviso.
Pensare a cosa?”, chiese Aster, colto di sprovvista.
Che un edificio basato sulla magia, una volta che la fonte che la sosteneva fosse venuta meno, avrebbe seguito un uguale destino. Avevo davanti agli occhi l’esempio della Rocca…”
Scosse la testa: “Cretina che non sono altro.”

Non potevi certo prevederlo.”
Avrei dovuto”, mugugnò lei, scontenta.
Aster scelse di tacere. Aveva imparato, dalla sua frequentazione della ragazza, che era inutile cercare di abbattere le muraglie che erigeva attorno a sé quando si metteva in testa qualcosa. Sarebbe bastato aspettare un poco, e sarebbe venuta lei stessa a far capolino timidamente alla porta.
Dubhe chinò il capo e si strofinò la mano sulla bocca, in muta riflessione. Il mezzelfo seguì affascinato la punta dell’indice, che abbassava leggermente il labbro inferiore ad ogni passaggio.
Quant’è carina…, pensò. Avrebbe voluto baciare quelle labbra così morbide e invitanti, sentirla ricambiare con passione e cancellarle le inquietudini dal volto… ma sfruttò tutto il suo autocontrollo per trattenersi. La conosceva abbastanza bene per sapere cos’avrebbe apprezzato di più, e in quel momento era lasciarla tranquilla così che si rendesse conto di non avere colpa alcuna. Mentre il profumo fresco del suo corpo gli riempiva le narici, gli sembrava quasi di vedere le rotelle nella sua testa girare, vagliando una ad una le possibilità. Chissà se riuscirò ma a dare la pace a questa testolina inquieta, si chiese.
Infine la ragazza sollevò il capo, scostandosi i capelli dagli occhi: “No, non avrei potuto prevederlo”, ammise.
Sorrise timidamente e strinse una delle mani del ragazzo nella sua.

Rimasero lì, mano nella mano, ad osservare davanti a loro, mentre si disfacevano le rovine del tempio di Thoolan, il Tempo.

I suoi piedi poggiavano senza rumore al suolo, un mantello nero le ondeggiava sulle spalle e il cappuccio alzato celava il suo volto ai passanti.
Casa.
Dubhe represse con stizza quella sensazione. Casa era la Grande Terra, casa era la Rocca, casa era il cuore di Aster che batteva contro il suo orecchio. Eppure era lì che era iniziata tutta la storia, era lì che aveva compito quel fatidico furto e si era trovata maledetta, era lì che si era consumato il suo amore per Learco. Era il luogo in cui aveva a lungo sognato un’esistenza normale, una vita come le tante che aveva spiato durante le sue indagini. Nella sua solitudine,
indagare era diventato un modo per sognare la vita, per vederla e sfiorarla almeno per un attimo. Si sentiva come un essere del sottosuolo, che poteva intravedere le attività degli uomini solo attraverso le fessure del pavimento. Quante volte, quando dentro di sé si era sentita profondamente stanca, aveva sognato di svegliarsi sempre nello stesso letto, trovarsi un uomo da amare, e smettere di condurre un’esistenza senza scopo e braccata. Normalità. Ma si era trattata di un’illusione, Quella non poteva essere la sua vita, e quella non poteva essere lei. Lei era diversa, e lo sarebbe sempre stata. Anche da bambina, prima che iniziasse tutto, lo era stata. Ricordava d’aver sentito, una notte che si era svegliata, sua madre discutere con suo padre, dirgli che percepiva qualcosa nella figlia, qualcosa che non comprendeva, ma che si sarebbe coagulato di lì a non molto, quando la tragedia avrebbe distrutto le loro vite. Era curioso, però, che i suo sogni, a modo loro, si fossero avverati. La normalità poteva essere solo accanto ad una persona altrettanto diversa.
Aster.
Serrò gli occhi scuri e sentì una mano stringerle comprensiva la spalla. Quando li riaprì, era tutto passato. La Terra del Sole si apriva sotto i loro occhi in tutta la sua magnificenza. Era un luogo opulento, e sembrava amare dar sfoggio della propria ricchezza. Ogni città era organizzata attorno ad un imponente palazzo, che si apriva sulla piazza deputata al mercato, l’unico spazio aperto che quelle città intricate in un dedalo di viuzze si concedesse. Ovunque, lussuosi palazzi, stucchi dorati, statue, fontane, botteghe. E tutto questo si condensava in Makrat, l’opulenta capitale, che sembrava essersi data l’obiettivo di risultare la più sfarzosa fra le città del Mondo Emerso. L’altra faccia della medaglia la si vedeva nelle periferie, dove sorgevano i sobborghi deputati alla residenza dei poveri. Lì c’erano le abitazioni degli sconfitti della guerra, dei profughi delle Otto Terre che avevano perso tutto, in quei trentacinque anni di dominazione. Esseri di tutte le razze, e soprattutto fammin. Fammin, i mostri combattenti creati dal Tiranno, o i loro discendenti. Creature che un tempo avevano fatto tremare quelle stesse persone che ora li guardavano con disprezzo. Fammin che ora si chiedevano se non fosse stato meglio durante la Grande Guerra, quando bisognava soltanto uccidere e il mondo era immensamente più semplice. Perché, legati con la magia al loro creatore, erano stati concepiti con il solo scopo di uccidere. Dopo la caduta del mezzelfo, i erano rifugiati, impauriti, spaesati e soprattutto consapevoli di sé, nella Terra dei Giorni, dove Nihal era andata personalmente a rassicurarli, concedendo loro la terra che era stata dei suoi avi.
Cinque anni, era durata la pace! Poi era arrivato Dohor, che con i suoi intrighi era riuscito ad impadronirsi delle loro case, e a nulla erano valsi gli sforzi dello gnomo Ido e della regina Aires per aiutarli. Si erano trovati profughi, disprezzati da tutti; pochi erano riusciti a ritagliarsi qualche umile occupazione quale poteva essere la manutenzione della carrucole di Barahar. In quell’umiliazione, dopo anni e anni, era apparsa lei. Una ragazzina triste e tormentata, ammantata di nero, che percorreva quei vicoli con aria disperata, un nome a fior di labbra:
Maestro. Quella giovane era in qualche modo profondamente diversa da tutti gli altri. Non i disprezzava, né li compativa. Piuttosto, sembrava cercare in loro un palliativo per un dolore troppo grande, un dolore che forse nessuno sarebbe mai riuscito a capire; e la razza dei fammin non riusciva a sentirsi umiliata da lei, perché quando cappuccio le scivolava sulle spalle, quando si chinava, e mostrava i suoi occhi grigi, vi leggevano un dolore che somigliava fin troppo al loro.
E alcuni avevano visto le statue, di quella nuova eroina che si diceva fosse grande quanto Nihal o forse anche di più, ma, forse, abituati com’erano alla loro condizione, si erano lasciati scivolare la cosa addosso, senza farvi caso. Ma la riconobbero, la ragazza, Dubhe era il suo nome, quando ricomparve dopo un anno, in compagnia di un mezzelfo che mostrava il suo stesso sguardo triste, e disse che potevano ritornare nella Terra dei Giorni, che erano stati adibiti degli spazi per loro, vicino alle sorgenti e ai luoghi fertili, e abbandonarono ben volentieri i loro miseri giacigli, sotto gli sguardi adirati di chi aveva fatto fortuna sulla loro schiavitù, e che ora se li vedeva scivolare sotto il naso, perché Dubhe e Aster avevano giurato di sgozzare personalmente chiunque abusasse ancora di loro.
Partirono, portando con sé la promessa di erigere una statua a quell’eroina, quando si fossero stabiliti nella loro nuova città. E sorse davvero quella statua, la più grande di tutte quelle costruite fino ad allora, alta più di quaranta piedi. La raffigurava avvolta nel suo mantello, come l’avevano vista tante volte, mentre si chinava, sul volto lo stesso sorriso disperato e allo stesso tempo incoraggiante, carico di promesse, di illusioni, in verità, allora, di un futuro migliore. Gli occhi erano uguali, due pozzi pieni di malinconia, di quella dolce tristezza che sembrava contraddistinguerla. Una ladra, un’assassina e allo stesso tempo una ragazzina disperata. E accanto a lei stava Aster, a braccia spalancate, in una posa che – età permettendo – avrebbe ricordato le molte statue raffigurate nel Tempio di Thennar, se non fosse stato per un dettaglio, che il passante non avrebbe notato ma che all’osservatore attento non sarebbe sfuggito: sorrideva.
Sotto, incise nel basamento, le parole che Dubhe e quel mezzelfo carico di rimpianti, venuto a scusarsi per il proprio passato, avevano pronunciato in quell’occasione, ricordate da un vecchio fammin dal pelo ormai grigio argento, quando avevano chiesto perché facessero questo per loro:
Non siamo fatti per condividere l’odio ma l’amore.*
Alcuni dissero di aver visto delle lacrime imperlare gli occhi grigi di Dubhe, quando aveva alzato gli occhi per guardare la statua, ma, se fosse la verità o meno, nessuno poteva confermarlo. Corsero però voci che le messi dei fammin fossero sempre abbondanti, i loro animali godessero di ottima salute, e che le malattie svanissero nottetempo. Anche questa, tuttavia, poteva essere una diceria senza fondamento.
In fondo, il Mondo Emerso è pieno di storie, ma nessuna era altrettanto grande di quella che stavano scrivendo Dubhe e Aster, intingendo la penna nella loro sofferenza e nella loro gioia, nel loro dolore e nel loro amore.

Odio Makrat”, sibilò fra i denti la ladra.
Ti capisco”, sospirò il ragazzo, accanto a lei.
I contrasti non avrebbero potuto essere più evidenti. A poche centinaia di metri dai primi, seppur periferici, edifici principeschi, la strada non era altro che un vicolo angusto e maleodorante. Le case erano baracche fatiscenti con il legno impregnato d’acqua, oppure alla meglio grossi casolari popolari dalla vernice scrostata, che sembravano prigioni. Due ragazzine vestite di broccato, dame di corte, forse, passarono, guardandosi disgustate intorno, ma gli occhi gelidi dell’assassina le trafissero con talmente tanto disprezzo che si allontanarono in fretta, coprendosi i volti con i ventagli e sentendosi profondamente colpevoli, anche senza capirne il motivo preciso. C'era qualcosa in quello sguardo che faceva venir voglia di girare al largo dalla sua proprietaria. O forse, chissà, era quella divisa nera, non nascosta ma ostentata. Un'ombra che camminava alla luce del giorno.

Non c’è niente da dire”, sbottò Dubhe. “Certa gente si merita proprio di essere derubata.”
Quanto rari erano i benestanti, tanti erano i mendici. Ce n’erano ovunque, che si avvicinavano ai passanti, supplicandoli di dar loro qualcosa. Il più delle volte erano ignorati, ma non era raro che venissero scacciati a calci. Per terra, aggirato o scavalcato dai passanti che lo trovavano sulla loro strada, stava il sudario lercio di uno dei tanti poveri che non potevano permettersi un servizio funebre adeguato. Aster sentì la mano della ragazza serrarsi sul suo braccio: “No è necessario che guardi, se non vuoi…”, le sussurrò, ma lei non distolse gli occhi. “E invece bisogna guardare”, rispose, atona. “Perché queste sono le ultime scintille di vita che restano in questa Terra.”

Non è cambiato nulla dai miei tempi…”
Dubhe rise amaramente, ma il mezzelfo sapeva che non ce l’aveva con lui: “Certo, cosa credevi? Il volto delle vittime è sempre lo stesso, ovunque. È l’essenza di questo mondo, prendere ciò che c’è di buono e corromperlo irreparabilmente. Questa è la Terra del Sole: lucida fuori, marcia dentro.”
Al centro della strada - anche se era un gran complimento definirla tale - scorreva un rivolo di acqua putrida e piena di liquami, sulla quale cavavano da un punto all’altro grosse mosche nere. L’aria era impregnata di un fetore nauseabondo: mucchi di rifiuti che si decomponevano, vivai di intere generazioni di striscianti e repellenti creature, ma anche poveri alimenti che venivano cucinati e panni sporchi appesi ad asciugare. Poi c’era un odore forte e penetrante, acido, differente dagli altri: proveniva da una conceria. Dall’edificio uscivano i lamenti dei servi costretti a immergere le mani nelle sostanze ustionanti.

Dovrebbero costruire mura più spesse”, osservò alla compagna una donna di mezza età vestita con abiti assurdamente sfarzosi: dovevano essere entrambe mogli di mercanti arricchitisi tanto da comprarsi un titolo nobiliare.
Aster soffocò un gemito mentre le unghie di Dubhe gli si conficcavano nel braccio, ed era certo al cento per cento che, anche se non la vedeva, l’altra mano della ladra s’era serrata attorno all’elsa della spada o del pugnale, e che stava facendo uno sforzo tremendo per trattenersi dallo sguainare l’arma e fare un massacro. I suoi occhi grigi seguirono le due donne finchè non scomparvero dal suo campo visivo, ignare di quanto fossero andate vicine a fare una morte orrenda.
Solo allora si tranquillizzò. Rilassò la presa e sobbalzò nel vedere le proprie unghie macchiate di sangue. Con una mossa fulminea tirò su la manica della casacca del ragazzo e ne scoprì il braccio, rivelando cinque piccoli segni rossi.

Aster!”, esclamò. “Perché non mi hai fermata?”
Non mi hai fatto male”, minimizzò lui.
Non è vero. Non sei bravo a mentire”, s’imbronciò Dubhe.
Questo perché tu sei troppo brava a leggere nell’anima delle persone.”
Ah, sì? E allora perché non riesco a leggere nella mia?”, chiese lei, con uno sguardo triste.
Ci sono io, per questo.”
Lei si prese un momento per riflettere: “Sì, hai ragione. Io… non so cosa mi sia preso. Non è da me perdere le staffe in quel modo.”
Aster sorrise: aveva più volte ammirato la straordinaria lucidità dell’assassina anche nelle situazioni più disperate. “E questo tu lo chiami ‘perdere le staffe’? Beh, mettiamola così: io avevo una bella Formula Proibita pronta ad uscirmi di bocca, un incantesimo che avrebbe distrutto completamente questa città di delusione - tranne noi due, ovviamente - e giuro che l’avrei usato, se tu non mi avessi così provvidenzialmente piantato le unghie nel braccio. Come vedi, non sei la sola a dover lottare contro certe pulsioni.”

No”, ammise Dubhe. “Ma giuro che qualcuno pagherà per tutto questo.”

Il vociare confuso li raggiunse prima di ogni altra cosa. La ragazza fu fulminea: afferrò il mezzelfo per un braccio e lo tirò in un vicolo. Gli calò meglio il cappuccio sul volto, controllando che fosse completamente coperto, e fece altrettanto con sé stessa. Aster ricordò perché alla giovane ladra piacessero tanto quei mantelli: con un gesto potevano scomparirvi dentro.
Mi ero dimenticata che di là non passiamo. Oggi c’è mercato”, sibilò lei.
Non dovrebbe essere un problema”, osservò l’ex Tiranno. “Siamo coperti e non dovrebbero riconoscerci.”
Certo, come no. Tu con i capelli blu e io con il mio viso in ogni piazza.”
Pensavo ti piacessero i miei capelli”, si finse offeso Aster.
Dubhe addolcì il tono. “Certo che mi piacciono. È solo che ti rendono un po’ riconoscibile.”

Devi insegnarmi a renderti invisibile come fai tu.”
Me l’hai già chiesto, e ti ripeto che non so come si faccia. È una cosa che mi accade spontaneamente.”
Ovviamente, i due non stavano parlando di vera invisibilità. No, quella che la ladra sapeva mettere in pratica era più che altro una specie di abilità mimetica. Calandosi il cappuccio sul volto, stringendosi nel mantello e camminando fra la folla, Dubhe sapeva rendersi così insignificante agli occhi dei passanti che la maggior parte di loro la dimenticavano dopo averla vista, e il resto ne serbava un ricordo confuso. Certo, da quando le sue statue erano apparse un po’ ovunque, la cosa si era fatta un pochino più difficile, ma non impossibile.

Aspetta”, si bloccò la ragazza, un dito sulle labbra. “Mi sa che stiamo parlando di due cose diverse. Ci siamo fraintesi a vicenda, Aster: ho detto che non si passa, nel senso letterale del termine.”
Ah”, commentò il mezzelfo. “Ho capito. E dunque?”
Nei vicoli”, spiegò lei. “Faremo in un attimo.”

Il ragazzo diede un’occhiata a Dubhe. Appollaiata su una sedia, le ginocchia tirate al petto, stretta nel mantello, sembrava un doccione di un edificio gotico. Era notevole, il suo sforzo di mantenersi distaccata, eppure tutti, in quella stanza, le tenevano gli occhi nervosamente puntati addosso.
Senso di colpa
, si disse Aster. L’unica persona che sembravano temere di più della giovane ladra era lui stesso. Eccezion fatta per il giovane reggente, un lontano cugino di un ramo cadetto della famiglia reale, che aveva una casuale, seppur spiacevole, rassomiglianza con Learco. Dallo sguardo del ragazzino, perché più di altro non era, sembrava convinto che Dubhe fosse sul punto di alzarsi e farsi un sol boccone di lui.
Il mezzelfo scambiò un’occhiata con la ragazza:
è così che gli idioti razionalizzano la loro stupidità a loro stessi?, sembrava chiedersi il suo sguardo.
Discorsi vuoti, che nemmeno ascoltavano. La loro meschinità, il loro ostentato distacco dalla plebe, li nauseavano. Quando decise che avevano parlato abbastanza, Aster si alzò - facendo correre occhiate terrorizzate fra i presenti - ed espose in tono forzatamente calmo e pacato tutto ciò che in quella città in particolare, e in quella Terra in generale, non andava, con il sottinteso obbligo di porvi rimedio. Poi si sedette. Subito i membri del consiglio ricominciarono a discutere, sparando proposte su proposte, tutte incentrate ad ottenere il massimo risultato con il minimo danno per loro. Il mezzelfo sibilò freddamente di
piantarla di dire cazzate.
A quel punto il reggente parve ricordarsi il motivo per cui era stato messo sul trono e tentò una pallida obiezione, zittita dalla lama del pugnale di Dubhe che si fermò ad un soffio dalla sua carotide.

Siete disgustosi.” Le parole le cadevano dalle labbra come rami morti da un albero, come qualcosa di inerte, privo di emozione, che si abbatteva con un rumore secco. “Così schifosamente preoccupati del vostro cazzo di privilegi che non riuscite a vedere la miseria fuori dalla vostra maledetta reggia dorata. Sapete cosa vi dico?” Fece scorrere uno sguardo lungo ognuno dei presenti - tranne il mezzelfo, ovvio -, nel quale si leggeva tutto il disprezzo che provava per loro. “Andate a farvi fottere”, sputò.
Si alzò bruscamente e fece per allontanarsi dalla sala, accompagnata da Aster.

Aspettate!”, esclamò il reggente, posandole una mano sulla spalla.
Grosso errore.

Non…” Le dita di Dubhe si chiusero con una presa ferrea attorno al suo polso.
“…mi…” Il braccio del ragazzo venne torto bruscamente.
“…toccare.” Il biondino atterrò con violenza sul tavolo.
Sibilò la ladra, e poi uscì a grandi passi dalla stanza.

Ehi, non che voglia trattenerti, ma sei proprio convinta di volerlo fare?”
Lei scrollò le spalle: “Probabilmente non servirà a nulla, lo so in principio, però almeno potrò dire di averci provato. Era nauseante. Io… io
sento di dover fare qualcosa.”
L’atteggiamento di Dubhe sarebbe parso strano ai più. Lei, che non si era mai preoccupata del Mondo Emerso, e che continuava tuttora ad affermare il suo disinteresse, all’improvviso sembrava aver a cuore qualcosa che non fosse solo il binomio ‘io e Aster”. Lui invece la capiva, così come aveva capito il suo interessamento per i fammin. Qualcosa di cui non sapeva il motivo, ma che sentiva che andava fatto.
Nato nel vizio, morto nel supplizio. Nato nel peccato, a entrare sia invitato
.
Speriamo funzioni, invece, dai. Non ti farei passeggiare a vuoto sui tetti come una gatta, sennò.”
Stavolta la ladra sorrise: “Allora spero anch’io che mi vada bene.”
Si alzò dal letto: “Mi passi il mantello e le borse?”, chiese.

Certo.” Anche Aster si tirò in piedi, sollevò il manto nero e glielo drappeggiò sulle spalle, baciandole la nuca prima di alzarle il cappuccio. “Stai attenta, mi raccomando.”
Certo che sto attenta. Tu, piuttosto, non stare in pensiero per me.”
Si mise il tascapane a tracolla e si avvicinò alla finestra. Non era molto grande, ma per la corporatura minuta della ragazza sarebbe stata sufficiente. La spalancò, sgusciò sul davanzale, e da lì, con uno scatto della schiena, raggiunse il tetto.
Mentre si issava per uscire, dalla borsa di Dubhe uscì un leggero tintinnio.
Aster sogghignò.

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* Sofocle, Antigone

   
 
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