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Autore: RossaPrimavera    22/04/2012    2 recensioni
“Non avvicinarti, non toccarmi… Questa è una cosa che devo fare da solo"
“Ti sbagli, sai che puoi ordinami tutto ciò che ritieni opportuno, Mio Signore. Io sono il tuo Pugno di Ferro in un Guanto di Velluto”
Dal 1942. Il fiorire della giovinezza, dove un adolescente prende coscienza di chi è, e soprattutto, di ciò che è capace di fare.
Gli anni in cui la rabbia e l’ambizione di Tom Orvoloson Riddle divampano come fiamme, delineando un futuro di distruzione. Quegli anni di cui nessuno ha mai voluto parlare.
Eppure qualcuno c’era: qualcuno che conosceva, qualcuno che partecipava, qualcuno che lo accompagnava in ogni sua impresa. Qualcuno che ha eseguito più dei suoi ordini, occupando un ruolo che Lord Voldemort non ha mai più lasciato libero. Qualcuno che era più di una serva, e più di un' amante.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Tom O. Riddle
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra, Più contesti
Capitoli:
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“Sbalordito il diavolo rimase quando comprese quanto osceno fosse il bene,
e vide la virtù nello splendore delle sue forme sinuose”
[Il Paradiso Perduto, John Milton]



Un Pugno di Ferro, in un Guanto di Velluto
di Elle H.


INTRODUZIONE
“La lettera di Corte”

“Carissimo Armando,
Sono più che certo resterai sorpreso nel riconoscere la mia calligrafia; dopotutto, quanto tempo è trascorso dalla nostra ultima missiva?
Sai bene quanto sono orgoglioso, e mi duole ammettere che la colpa della fine della nostra corrispondenza è mia, e mia soltanto.
Però so che non me ne vorrai, suppongo tu abbia già compreso quanto questo lutto sia stato doloroso per me e i miei figli, e con rammarico riconosco che ne riportiamo ancora tutti i segni.
Ma non sono qui a scriverti per indugiare nuovamente su opprimenti ricordi…
Ti comunico, non senza un certo sollievo, di aver abbandonato l’Irlanda ed aver finalmente fatto ritorno nel Derbyshire, e ciò assolutamente esige un nostro incontro.
Desidero preannunciarti una piccola richiesta, che sono più che sicuro attendi già da molto tempo.
Forse un po’ in ritardo, è giunto il momento che anche i miei figli entrino a far parte della grande famiglia di Hogwarts, e ti assicuro che lo faranno a testa alta, poiché in questi anni non gli è mancata un’esemplare educazione.
Sono certo che il loro comportamento non desterà alcun allarme, ma vorrei che in ogni caso appuntassi gli occhi sulla mia figlia maggiore, Pearl.
Come sua madre è estremamente abile, anzi forse lo è perfino di più, un dato che non può non allarmarmi se considero il suo carattere; la morte di Deh l’ha profondamente provata, e ogni giorno la osservo divenire sempre più fredda e scostante, tentando di sondare un tipo di magia che dovrebbe esserle invece preclusa.
Mi auguro che lei, come i suoi fratelli, possa ritrovare i giorni migliori tra le rassicuranti mura della tua scuola.
Noto che questa lettera sta diventando più simile ad una confessione, ma perché indugiare sulla pergamena, quando possiamo incontrarci dal vivo?
Se accetterai, sarai più che il benvenuto a cena, una di queste sere o quando preferisci.
Attendo con ansia la tua risposta.
Con tutta la mia stima, il tuo vecchio amico

Damocles Ballantyne”


*******


“It is the end of all hope
To lose the child, the faith
To end all the innocence, to be someone like me
This is the birth of all hope, to have what I once had
This life unforgiven… It will end with a birth
To see another black rose born

Questa è la fine di ogni speranza
Perdere l’infanzia, perdere la fede
Porre fine ad ogni innocenza, e divenire qualcuno come me
Questa è la nascita di ogni speranza di riavere ciò che un tempo avevo
Questa vita non perdonata… Finirà con una nascita
Veder nascere un’altra rosa nera”
[End of all hope, Nightwish]



CAPITOLO 1
“Rivelami, o rivelati”

Settembre 1942


Noia.
Sola, ineluttabile, fatale noia.
Noia e ricordi, noia e pensieri: le uniche due vie di fuga che riuscivano a salvarlo da quella grande nemica che finiva sempre per rubargli tempo prezioso, tempo che avrebbe largamente preferito spendere altrove.
Ricordava con precisione il primo, ed unico, smistamento a cui aveva assistito con attenzione: il proprio.
Riusciva a rievocare perfettamente quel magico, estatico momento in cui il suo capo aveva appena sfiorato il Cappello Parlante, e già si era già sentito declamare la sua appartenenza alla casa di Serpeverde.
L’unico istante della sua esistenza in cui aveva sentito di appartenere veramente a un qualcosa di più grande, ad una sorta di vera e propria “famiglia”…
Ma erano passati cinque lunghi anni da quel giorno, inaspettatamente volati come in un soffio, e il suo interesse per quel tradizionale rito di passaggio era ormai pressoché del tutto inesistente.
Il suo sguardo attento e calcolatore aveva scelto di non perdere tempo ad indagare in quella moltitudine di piccoli volti, disinteressandosi a ricercare una qualche scintilla di particolarità.
Avevano undici anni, erano solo dei bambini dopotutto; per loro c’era tempo.
Trovava in ogni caso più interessante il magico soffitto stellato della Sala Grande, gli occhi che l’ammiravano con sincero affetto, come d’altronde considerava l’intero castello.
Hogwarts: la sua unica casa, anzi, il suo unico mondo.
Fu così che non li vide neanche; non subito almeno.
Proprio lui, che poteva segretamente vantare di conoscere tutto di tutti, e di poter utilizzare qualsiasi informazione di un individuo a suo piacimento e favore, giunse con una manciata di ritardo nel campo della novità.
“Che state dicendo?” chiese all’improvviso, captando dei mormorii più eccitati del solito.
La sua domanda era come sempre decisa, autoritaria; il viso, rivolto verso i ragazzi al suo fianco, sfoggiava un sorrisetto arrogante e sicuro di se.
Non che li considerasse davvero amici
Aveva sempre ritenuta l’amicizia una frivolezza bandita dal suo vocabolario, un patetico termine mai pronunciato dalle sue labbra con reale sincerità.
Tuttavia doveva ammettere che talvolta quegli individui sapevano essere utili, persino “gradevoli”.
“Li hai già visti? Stavo indicando a Black quelli là in fondo… Dai, che figura di merda venir smistati con quelli del primo anno!” commentò Aidan Dolohov, indicando l’estremità dell’interminabile fila indiana, proprio al centro tra le quattro tavolate delle case.
“Ci puoi giurare, io li avrei obbligati a farmi smistare in separata sede, poveretti… mi fanno quasi pena” ribadì Orion Black, sottolineando la sua affermazione con uno sguardo sprezzante.
“Però, però… se guardi bene, c’è un lato positivo. Tom, tu che ne pensi?” chiese retoricamente Duncan Rosier, tendendo la testa e aguzzando la vista, accennando un sorriso gonfio di malizia.
Il giovane seguì il suo sguardo, non trattenendo una certa curiosità, e intravide tre ragazzi più grandi, svettanti sulla folla di ragazzini; chiaramente, come aveva subito supposto, una di loro era una ragazza.
“E sembra pure niente male, eh?” disse ancora Dolohov, gli occhi grandi come galeoni.
Tom si limitò a sorridere, ma il suo sguardo continuò a saettare verso quei tre nuovi arrivati.
Certamente Hogwarts era, con tutta le probabilità, la migliore scuola di magia presente in tutto il continente, ma era risaputo che fosse estremamente difficile riuscire a mettersi in pari con le materie e il programma eseguito.
Era quindi ovvio che dei nuovi studenti fossero un evento più che raro.
Così raro che ben presto molti sguardi si concentrarono sulle loro figure, bersagliandoli di commenti e considerazioni più o meno lusinghiere, generando una nuova ventata di pettegolezzi decisamente insolita per il solo primo giorno dell’anno scolastico.
“Così raro da meritarsi persino l’accoglienza del preside” pensò poco dopo, quando nella navata centrale rimasero solo quei singolari ragazzi: indossanti già la divisa della scuola, erano allineati con precisione militare l’uno accanto all’altro.
I loro visi erano privi di espressione, gli occhi fissi e immobili dinnanzi a se.
“Ragazzi e ragazze, prima che apra l’anno scolastico con il consueto annuncio, è con un caloroso benvenuto che desidero accogliere qui, alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, tre giovani fratelli appena rientrati da un lungo soggiorno all’estero.
Frequenteranno rispettivamente il sesto, il quinto e il terzo anno, e sono certo che ognuno di voi farà il possibile per farli sentire a casa. Prego!”
Gli annunci del professor Dippet non erano mai stati particolarmente roboanti, eppure Tom vi trovò lo stesso un qualcosa di illuminante; riuscì a cogliervi una sottile vena paterna, persino affettuosa, quel tono di voce che riservava sempre anche a lui.
Il professor Silente, vicepreside ed insegnante di trasfigurazione, si fece avanti con un sorriso gioviale, offrendo con garbo il Cappello Parlante, più consunto e rabberciato che mai.
Il più grande dei tre ragazzi si fece avanti con tono autoritario, afferrando il cappello senza il minimo cenno di esitazione.
“Schneizel Ballantyne” disse ad alta voce il professore, improvvisando una sorta di presentazione.
Era un giovane alto e ben piantato, la tipica stazza dei giocatori di Quidditch, con lisci capelli di un castano dorato; quando con fare disinvolto indossò il cappello, udì il bisbigliare delle ragazze farsi più eccitato e i loro occhi adoranti concentrarsi sul suo bel volto.
“Grifondoro!” declamò il cappello poco dopo, infiammando gli animi della tavolata rossa e oro, strappando un sorriso di vittoria al giovane, che con un ultimo cenno ai fratelli, si accinse a raggiungere il proprio nuovo posto.
Un attimo dopo fu il turno del fratello più piccolo, che in confronto al maggiore, pareva infinitamente più timido ed inesperto.
“Barron Ballantyne”
I suoi gesti erano titubanti, le mani esitarono un attimo prima di porre il cappello sulla propria testa, scostando i capelli scuri e rivelando per un attimo occhi straordinariamente chiari, in contrasto con un volto dai lineamenti ancora vagamente infantili.
“Corvonero!”
Applausi educati, sorrisi gentili e sinceri lo accolsero a quella che Tom considerava, e non senza ragione, la casa più superba e presuntuosa di tutta Hogwarts.
Mentre il ragazzino prendeva posto, si trovò a considerare i loro nomi e cognomi; anni prima aveva compreso che analizzando questi due elementi, era facile capire se uno studente fosse di una famiglia più o meno antica, e soprattutto, purosangue o mezzosangue.
Una differenza a suo parere strettamente fondamentale.
Tornò a rivolgere lo sguardo sull’unica rimasta, l’esile ragazza che avrebbe dovuto quindi frequentare il suo stesso anno.
Udì non pochi ragazzi mormorare al suo indirizzo, valutandone le grazie del corpo, chiedendosi quale casa avrebbe accolto tale nuovo esemplare femminile.
“Pearl Nicholai Ballantyne”
I mormorii cessarono di colpo, lasciando calare un pesante silenzio imbarazzato, quando il passaggio di cappello fallì con la caduta dello stesso a terra.
La giovane però non si scusò per essersi lasciata sfuggire dalle mani quel cimelio millenario.
Per tutta risposta, si limitò a chinarsi per sollevarlo, battendolo poi leggermente con la mano per eliminare la polvere, ponendoselo infine sul capo con somma noncuranza.
Lo fece voltandosi verso la sala, lanciando uno sguardo così diretto ed autorevole che non pochi ne rimasero colpiti, scatenando un’altra corrente di giudizi.
Tom non si unì agli altri, gli occhi che rimanevano incollati su di lei, ipnotizzato dal cappello che aveva appena indossato. Non fu così immediato come nel suo caso, cinque anni prima;erano sicuramente passati una manciata di secondi in più, un lasso di tempo in realtà infinitamente breve e incalcolabile.
“Serpeverde!” declamò il cappello, un istante dopo che era stato posato.
Il tavolo delle serpi esplose, impegnandosi a battere le mani con forza per superare tutte le precedenti accoglienze.
Questa volta anche lui batté le mani sinceramente, seguendola con lo sguardo; riuscì a incontrare i suoi occhi, che gli parvero così scuri da sembrare pozzi, e con un accenno di irritazione capì che lei neppure l’aveva calcolato.
Si sedette poco distante da lui, nell’area abitualmente occupata dal quinto anno.
Da come diversi sguardi tornavano a cercarla furtivi, o da come molte mani si protendevano per fare la sua conoscenza, dedusse che non era l’unico ad esserne rimasto impressionato.
Occhieggiandole i lunghi capelli scuri, calcolò che a catturare la sua attenzione non era tanto la sua bellezza, quanto il suo atteggiamento.
Perché Hogwarts traboccava di belle ragazze: per quanto fosse del tutto disinteressato alle faccende amorose, negli anni il suo corpo, in pieno possesso di ormoni e desideri, si era ampiamente degnato di farglielo notare, e gli aveva più volte intimato di assecondarlo.
Ma in lei pareva esserci un qualcosa in più, qualcosa che andava ben oltre il mero aspetto fisico, quasi possedesse la sfacciata dignità e il contegno di un’imperatrice
Pensieroso si versò del succo di zucca, per poi sentirsi battere gentilmente sulla spalla poco dopo.
“Tom, ragazzo mio! Il preside ti propone gentilmente di fare da guida, in qualità di nuovo prefetto, alla nostra nuova new entry. Sempre se per te non è un disturbo, ovviamente” lo avvertì il professor Lumacorno, protendendosi verso di lui con affabilità.
“Ma certo professore, l’avrei fatto in ogni caso” rispose Tom, mostrandogli un sorriso amabile.
“Ah, lo immaginavo! Sempre buono, sempre disponibile e sensibile verso gli altri…” commentò l’uomo soddisfatto, distaccandosi e ritornando a tutta velocità alla tavola dei professori, luogo da cui normalmente non soleva allontanarsi fino alla fine del pasto.
Tom si voltò, tornando a rivolgere lo sguardo sulla ragazza.
Questa volta, quando incontrò il suo sguardo, lo vide presente a se, concentrato su di lui.
“Sarà un vero piacere” concluse, certo che lei l’avesse sentito.
Si portò il calice alle labbra, nascondendo un sorriso che altro non era un ghigno compiaciuto ed opportunista.
Perché quando qualcuno o qualcosa entrava nell’attenzione di Tom Orvoloson Riddle, si ritrovava inevitabilmente intrappolato come in una ragnatela, priva della benché minima via di fuga.
Non ne usciva più.
Mai più.



*******



Pearl appoggiò i palmi sulle grandi vetrate della sala comune di serpeverde, quella che da quel giorno sarebbe stata la sua nuova casa.
Era straordinariamente affascinante: posta sotto i sotterranei del castello, le grandi finestre rivelavano il paesaggio misterioso delle profondità del lago, donando una curiosa luce verde agli ambienti.
Eleganti divani e poltrone di pelle, poste strategicamente vicino ai camini, offrivano conforto agli studenti, e sapeva già che nel dormitorio l’attendeva un caldo letto a baldacchino ricoperto di seta verde.
Tuttavia, nonostante il lungo viaggio, non desiderava andare a letto o fare nuove conoscenze: sebbene una parte di lei si rammaricasse di essere divenuta così schiva, era l’altra parte a prevalere in quel momento, quella che desiderava semplicemente restarsene in un angolo, accoccolata nella solitudine, lontano da qualsiasi cosa che interrompesse il fluire dei suoi pensieri.
Perché aveva un perenne bisogno di pensare: perché pensare significa capire, capire significa elaborare, ed elaborare voleva dire accettare. Un lungo ed inevitabile ciclo che le era necessario per finire di leccarsi le ferite, e tornare finalmente a vivere.
E perché no, magari proprio lì, in una nuova scuola, con dei nuovi amici…
“Ti disturbo?” chiese una voce alle sue spalle, cogliendola di sorpresa.
Prima ancora di voltarsi, intuì di chi si trattasse: il ragazzo che si era offerto di farle da guida, il possessore di quello sguardo indiscreto che l’aveva esaminata durante l’intera cena.
Pearl si girò appena, cercando accuratamente di dimostrargli la minor attenzione possibile.
“Sì, mi disturbi”
Il ragazzo rise, una risata ironica e sottile, che per un qualche assurdo motivo le diede un fremito innaturale.
“Era solo una domanda di cortesia, è chiaro che…”
“L’unica cosa chiara qui, è che non hai considerato ciò che ho detto. Mi stai disturbando”
Tom tacque, stupito ed irritato.
Lo stesso identico tono imperioso, la stessa identica fermezza: per un attimo restò colpito dalla quella voce vellutata, che si esprimeva con il tipico modo di chi è abituato a comandare.
Il suo stesso tipico modo, in definitiva.
“Sai che potrei punirti per essere ancora in piedi a quest’ora, vero?”
Fu il turno della ragazza di ridere.
“E con quale autorità, di grazia?”
“La mia, sono un prefetto. Credo tu sappia cosa significhi…”
Finalmente Pearl si voltò, decidendo di affrontarlo apertamente.
“Ma tu non vuoi punirmi” gli fece notare con semplicità , rivolgendogli uno sguardo tagliente.
“Ah no? E cosa te lo fa credere?” ribatté lui, inclinando la testa con fare derisorio.
“Perché tu vuoi qualcosa da me”
Il sorriso arrogante si dissolse come vapore dal volto del ragazzo.
Con una calma attentamente calcolata, le tese la mano senza azzardarsi a distogliere lo sguardo;
ma più che un tentativo di socializzazione, pareva una minaccia neppure troppo velata.
“Tom Riddle”
Pearl lo valutò attentamente prima di stringerla, e dovette ammettere suo malgrado che ciò che vide non le dispiacque affatto.
Tom Riddle possedeva quei tratti caratteristici che sin da piccola aveva trovato attraenti.
Era certamente bello quanto Scheizel, anzi forse di più; ma in modo diverso naturalmente, concluse con un barlume di senso di colpa nei confronti del fratello maggiore.
Solo gli occhi la confondevano: erano scuri, occhi di tenebra ed inchiostro.
Occhi fin troppo simili ai suoi.
“Pearl Ballantyne, ma questo dovresti già saperlo, vero?”
Per un attimo nessuno dei due proferì ulteriore parola, osservandosi guardinghi, come due predatori intenti a valutare vicendevolmente la prestanza dell’altro, cercando di definire in anticipo chi potrebbe essere il vincitore di un ipotetico scontro.
“Ammettiamo pure che tu abbia un qualcosa che mi interessi… Il fatto che io mi sia incaricato di accompagnarti in questi primi giorni non denota le mie buone intenzioni?” chiese infine Tom, rompendo il silenzio con incredibile garbo.
Le labbra gli si piegarono in un sorriso venato di scaltrezza, e solo allora Pearl si rese conto di quanto effetto dovesse probabilmente suscitare sulla stragrande maggioranza della persone; a sua volta non poté fare a meno di sentirsi colpita, persino lusingata, dalla sua attenzione.
“Se stai cercando di incantarmi, sei fuori strada”
“Strano tu me lo faccia notare, non ho toccato bacchetta”
“Dubito tu abbia bisogno di usare la bacchetta per incantare le persone” ribatté la giovane con amarezza.
Fece per andarsene, come seguendo un intuito che le ordinava di allontanarsi, di lasciar attuare un automatico meccanismo di difesa, ma lui la trattenne a se.
Non lo fece con le mani, gli bastarono le parole.
“Ho visto che non sei rimasta molto turbata della separazione con i tuoi fratelli” commentò con l’aria di chi la sa lunga.
“Avrei dovuto?” replicò lei con freddezza.
“Normalmente… Sai, ho visto scoppiare drammi famigliari per una separazione tra cugini, figurarsi tra fratelli. E poi, come possono un grifondoro e una serpeverde convivere nella stessa famiglia?”
Pearl alzò le spalle, scuotendo appena la testa.
“Evidentemente è possibile, non vi trovo niente di strano. Siamo fratelli, è ovvio che siamo diversi l’uno dall’altra, non mi sembra così difficile da capire” aggiunse sbrigativamente, cercando una via per svicolare.
All’improvviso tutto il sonno le si fece addosso con pressante richiesta, facendole ardentemente desiderare di correre a rintanarsi nel suo nuovo letto e ricercare un briciolo di forze per l’indomani.
Inoltre vi era qualcosa in quel ragazzo che stava ottenendo il graduale potere di turbarla.
Ma Tom Riddle pareva di tutt’altro avviso.
“I tuoi genitori a quale casa appartenevano?” domandò nuovamente, seguendola ancora non appena lei provò ad allontanarsi.
“Senti, dacci un taglio. Non mi piacciono le persone invadenti. Ora ho sonno e voglio andare a dormire, ho viaggiato tanto quanto te oggi” l’avvertì, il tono che da calmo mutò sgradevolmente in stizzito.
“Tu dammi una risposta e non ti tratterrò oltre” obiettò il ragazzo, incrociando le braccia in un cenno di sfida.
Pearl si fermò, in attesa, limitandosi a guardarlo con un’improvvisa, straordinaria quiete.
“Potrei fartela io una semplice domanda: perché dovrei risponderti?”
Tom si avvicinò, ponendosi ad un’esigua distanza da lei, osservandola dall’alto in basso.
“La domanda non è perché tu debba rispondermi, ma perché tu non debba farlo” affermò con sagacia.
“Allora credo proprio che dovrai aspettare l’indomani per una risposta. Buonanotte” concluse la ragazza, voltandogli definitivamente le spalle e avviandosi verso una rampa di scale che pareva condurre nel ventre della terra stesso.
Salvo fermarsi di botto un attimo dopo, quasi si fosse dimenticata qualcosa.
“Riponi la bacchetta: non credo dovresti scherzare con certe cose” scandì lentamente, con un distacco tale che la mano del ragazzo si arrestò sull’apertura della tasca.
Osservandola imboccare la scalinata, si chiese come avesse fatto a capire che stava per lanciarle un incantesimo.
E con un inusuale senso di frustrazione, Tom realizzò di quanto lo standard di quella breve conversazione fosse stato basso, del tutto anomalo.
Non aveva ottenuto niente: la sua curiosità non era stata saziata, anzi, era stata semplicemente incrementata.
Che cosa bizzarra… Se prima non era stato del tutto sicuro della peculiarità di quella novellina, ora gli era tutto fin troppo chiaro.
Era semplicemente, e sorprendentemente, simile a lui: pressoché identica.
Con un verso di stizza il ragazzo si diresse a grandi passi all’uscita dalla sala comune, diretto all’unico posto dove sapeva avrebbe potuto calmarsi.
Erano anni che nessuno osava più rispondergli a quel modo.



“Se il diavolo non esiste, ma l'ha creato l'uomo,
credi che egli l'abbia creato a propria immagine e somiglianza?”
[Fëdor Dostoevskij]




Scese le scale con svogliatezza, districandosi tra la moltitudine di porte e corridoi che occupavano le viscere della sala comune; si allentò la cravatta verde e argento, colori riflessi ovunque in quel gelido panorama, che ad un tratto le parve persino spettrale, in contrasto con la miriade di bisbigli e risate che si avvertivano da dietro le porte.
Una volta, quando era piccola, amava favoleggiare ad occhi aperti su Hogwarts: frequentarla era il suo desiderio più grande.
Ora non sapeva quanto gliene importasse, e soprattutto, se gliene importasse ancora.
Quando scostò un largo arazzo verde e varcò la soglia della camera che le era toccata in sorte, si arrestò per un attimo sul pianerottolo, mentre altre quattro paia di occhi le rivolgevano lo sguardo.
“Scusatemi, non volevo interrompervi” disse Pearl, distogliendo immediatamente lo sguardo e avviandosi verso il suo letto, contrassegnato dalla presenza del suo baule.
“Tranquilla, ti stavamo aspettando” si sentì replicare.
Nonostante la tarda ora, tutte e quattro le sue compagne di stanza erano sveglie e dallo sguardo attivo, acceso di curiosità; quando si voltò, vide che non stavano scherzando.
Non le staccavano gli occhi di dosso: stavano seriamente aspettando lei.
“Ma davvero?” rispose Pearl, suo malgrado stupita, spogliandosi la divisa ed indossando il pigiama senza alcuna vergogna.
“Davvero. Dovremmo presentarci, non trovi?” aggiunse ancora la stessa ragazza.
Pareva bella quanto feroce; i decisi tratti del viso non facevano altro che accentuare un evidente carattere altero e superbo, rivelato dalla freddezza degli occhi grigio ferro.
Un carattere che, tuttavia, non le stava riservando in quel momento.
Pearl le sorrise, scoprendo stupita che le veniva quasi spontaneo.
“Credo tu abbia ragione. Io sono Pearl Ballantyne”
La giovane sorrise di rimando, appoggiandosi meglio ai cuscini con soddisfazione.
“E io sono Walburga Black”
Il resto delle presentazioni venne da se.
Erano anni che Pearl non trascorreva del tempo con dei suoi coetanei, ma le fu facile capire quanto quel piccolo gruppo dovesse essere molto legato e decisamente affiatato.
La ragazza di nome Walburga ricopriva indubbiamente il ruolo del leader, ma nessuna delle altre ragazze ne pareva intimorita, semmai rassicurata, persino protetta.
Pearl era sempre stata dell’idea che in un gruppo di persone, ognuna ricopra un preciso ruolo, senza il quale il gruppo non ha la forza di esistere, poiché non perfettamente bilanciato.
Teoria più che confermata in quel momento.
Druella Rosier era la dolcezza in persona, colei che mitigava il temperamento di Walburga.
La sua aria placida e soave completavano un quadro angelico, di chi nella propria vita non ha mai incontrato la benché minima traccia di difficoltà
Isobel Gamp era la cosiddetta “mente”, un soggetto che le parve infinitamente simile a suo fratello Barron: non era bella, ma trasudava eleganza e contegno, un fascino che sembrava legato a doppio filo ad un’illustre aria di superiorità
E infine vi era Lysandra Crouch: civettuola, disordinata, eccentrica, magari persino superficiale; carina quanto bastava per sentirsi in diritto di fare qualsiasi cosa.
Occupavano stereotipi quasi esagerati, che uniti l’uno all’altro, esercitavano un mix irresistibile di orgoglio e vanità, un effetto decisamente contagioso.
Pearl ricambiava le loro parole con naturalezza: improvvisamente la voglia di sentirsi a suo agio si acuì, donandole uno slancio di ottimismo.
“Sei purosangue, vero?” chiese inaspettatamente Lysandra poco dopo, mentre si rimirava in uno specchio, tentando di arricciarsi con la bacchetta i lunghi capelli biondo scuro; i suoi occhi cerulei, stretti ed allungati come quelli di un gatto siamese, erano diventati improvvisamente dubbiosi.
Pearl liquidò la sua domanda con uno sbuffo.
“Ti prego, così mi offendi. Ovviamente lo sono”
La risposta parve essere apprezzata dalle compagne.
“Non che abbia niente contro i mezzosangue, ma sai… qui non hanno vita facile” aggiunse la ragazza, tornando a concentrare lo sguardo su se stessa senza terminare la frase.
“Di pure che metà della casa non gli rende vita facile, Lyz.
E poi parla per te: personalmente mi sarei rifiutata di condividere la stanza con una mezzosangue, anche a costo di correre da Dippet in piena notte e buttargli giù la porta” ribatté Walburga sdegnosa, accolta dalle risate delle compagne.
“Scusaci comunque, avevamo formulato prima quest’ipotesi quando abbiamo visto che non venivi a letto. Sai, il tuo cognome non è molto conosciuto” continuò la giovane, osservandola incuriosita.
“Perché è irlandese. Entrambi i miei genitori sono mezzi irlandesi, è lì che ho vissuto negli ultimi anni” spiegò Pearl, per la prima volta senza sentirsi a disagio nel parlare di se stessa e della propria famiglia.
“Ma dai! E ora dove ti sei trasferita?” chiese Isobel, abbassando lievemente il libro che teneva aperto sulle ginocchia.
“La mia famiglia ha sempre avuto una magione nel Derbyshire, non lontano da Hadfield” concluse la ragazza, accolta da un lungo fischio.
“Dimmi che ti piacciono le feste e credo potrei autoinvitarmi a casa tua durante l’inverno. Adoro il Derbyshire, ci sono stata con mia nonna quando ero piccola e…”
“E non ci interessa. Le vere feste a cui dobbiamo pensare, ragazze, sono quelle di Lumacorno” dichiarò Walburga bloccando il racconto di Lysandra sul nascere, che tuttavia non ne parve affatto offesa, limitandosi a mostrargli irriverentemente il dito medio.
“Chi è Lumacorno?” domandò Pearl, mentre le altre scoppiavano in una nuova risata.
“Il capo della casa, nonché professore di pozioni. Raccoglie intorno a se tutti coloro che hanno uno straccio di qualità, o in mancanza di quella, qualche parentela importante. Sai, è quello che cerca: i legami importanti” spiegò Isobel, piegandosi verso di lei con fare cospiratorio.
“Noi siamo invitate tutti gli anni, ma vedrai che appena ti avrà inquadrato, sarai invitata anche te” disse placidamente Druella, che fino ad allora si era limitata ad ascoltare.
Si sorrisero: sembrava tutto così semplice, era decisamente un sollievo.
Continuarono a parlare sino a notte fonda, mentre le sue nuove compagne si divertivano ad irreggimentarla, scherzando sul suo status di matricola.
Era divertente, era una liberazione.
Il nodo alla gola che l’aveva tormentata per tutto il giorno lentamente si sciolse, lasciandola divagare in un tranquillo antro di leggerezza.
Nessuno dei suoi angosciosi pensieri tornò a disturbarla.
Nemmeno l’invadenza di quel ragazzo che per un attimo aveva avuto il potere di spaventarla.
Quasi faticava a ricordarsene il nome in quel momento…
Tom Riddle.

*******



Ma Pearl e le sue compagne non erano le uniche ragazze rimaste sveglie sino quell’ora; un altro ragazzo, sempre di serpeverde e sempre del quinto anno, aveva deciso di sacrificare il sonno per un’altra causa.
Tuttavia il suo umore era tutt’altro che ottimista, allegro ed euforico; anzi, si poteva dire tutto il contrario, meritava ogni qualsiasi nero aggettivo per definirlo.
Tom Riddle, nuovamente deluso, allontanò da sé un altro registro dei prefetti.
Era l’ennesimo, ormai aveva quasi perso il conto, eppure non aveva ancora tratto uno straccio di indizio tra quelle pagine, fitte di grafie differenti e date di tutte le epoche.
Era partito da molto addietro, sin da metà dal 1800, eppure a nulla era servito: pareva quasi che nessun Riddle avesse mai messo piede ad Hogwarts.
Si passò le mani sul viso, massaggiandosi gli occhi stanchi.
Hogwarts immersa nell’oscurità era un turbinio di fruscii, scricchiolii, rumori misteriosi, tutti elementi che invitavano a rannicchiarsi nel letto, o ad avventurarsi nei suoi millenari corridoi.
Per lui scegliere era stato facile, erano ormai anni che girovagava nel castello di notte, sfidando e vincendo la sorveglianza.
Non temeva il buio: nell’orfanotrofio in cui era cresciuto, era spesso stato obbligato a conviverci durante le punizioni, rinchiuso per ore intere, e una volta quasi per un giorno, con la sola compagnia dell’oscurità.
Poi avevano scoperto che quelle sanzioni non erano servite a nulla, e allora…
Ma questi erano pensieri oziosi ed inutili, pensieri che sottraevano tempo alla sua ricerca.
E lui detestava sprecare tempo, quasi quanto non riuscire a delineare la propria stirpe e discendenza.
Quasi quanto odiava quel misterioso secondo nome, quell’ “Orvoloson”.
Il nome del padre di sua madre, il nome di suo nonno.
Quelle due persone che si rifiutava di cercare, così deboli e prive di magia da averlo abbandonato in quel letamaio babbano.
Con uno scatto di rinnovata rabbia, afferrò un altro registro, iniziando a scartabellare freneticamente le pagine alla luce della bacchetta.
Erano le tre passate; avrebbe probabilmente continuato fino alle cinque, per poi trascinarsi fino al letto per riposare quelle poche ore rimastegli.
Nella sua testa i pensieri vorticavano come neve: non c’era spazio per nient’altro.



* * *

COMMENTO AL CAPITOLO:
Giuro e rigiuro solennemente che cercherò di attenermi alla trama il più fedelmente possibile, parola di lupetta!
Or dunque, per realizzare questa storia ho intenzione di attenermi “rigidamente” alla Cronologia stilata dalla Row, e direi anche abbastanza ai nomi e alle discendenze; casomai dovessi, per questioni di forza maggiore (LOL), cambiare qualcosa, ne farò parola qui.
Pertanto, con i personaggi inventati mi sono presa una buona libertà: essendo la famiglia di Pearl purosangue (ma non tanto quanto quelle inglesi) ho deciso di prendere il cognome e i nomi più nobili (e assurdi) che mi venissero in mente.
Per gli altri personaggi, ho utilizzato i nomi delle famiglie proposti nella trama, salvo cambiare le identità: ho considerato che nella prima guerra magica il nostro amico Lord dovrebbe avere all’incirca 40 anni, e quindi la bellezza di 71 nella seconda.
Ora: lui può, fantastico. Ma i suoi amichetti mangiamorte, no.
Ho preferito immaginare che a seguirlo nel corso del tempo fossero più generazioni della stessa famiglia, come padre e figlio, ipotesi non irrilevante. *autrice speranzosa di averci azzeccato*
So di aver nominato molto la figura di Pearl in questo capitolo, ma don’t worry: desideravo solo presentare il personaggio, il protagonista number 1 resta comunque Tom.
C’è altro da dire? Forse, ma scendo sotto, dai.

COMMENTO DELL’AUTRICE (SULLA STORIA, MA ANCHE NO):
Non perdonerò mai, e al contempo non ringrazierò mai abbastanza, la Rowling per non essere scesa nel dettaglio su certi personaggi. Vorrei che nella mia libreria figurasse un libro intero sulla vita di Lord Voldemort, ma d’altra parte sono più che entusiasta di scrivere una storia su di lui. Scherzi a parte, non mi sto paragonando a quel pezzo d’autrice, voglio solo dare il mio personale contributo alla storia, seguendo il vecchio adagio “Dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna” [cit. evidentemente non mia]
So che sto straparlando, ma voglio solo chiarire altre due cose: delineerò il carattere di Tom il più fedelmente possibile, per quanto permesso, quindi mi spiace, ma non lo vedremo mai rotolarsi con gli amici in un campo di margherite; al massimo con un harem, toh!
Ma soprattutto, sopra ogni altra cosa, prima che a qualcuno possa anche solo venire in mente: Pearl Nicholai Ballantyne NON è una Mary Sue. Può essere quel che volete, potete anche andare a cercarvi un termine per definirla che vada da Femme Fatale a Eroina Nera, può essere purosangue, intelligente e con un bel culo (ok, questo l’ho detto ora, ma fa lo stesso), ma NON è una Mary Sue.
E se qualcuno vuole comunque esprimere tale arguto pensiero, lo stronco di insulti per poi prenderlo per la manina e riaccompagnarlo a leggersi un’altra saga.
Dear, va bene che Dio fa no mistakes, ma l'ho creata come Pearl, non Bella Swan o Wonder Woman.
Su quest’ultima affermazione potrei tenerci un comizio, ma andiamo avanti…

A parte un po’ di ironia finale, spero seriamente che questa storia non sia un altro buco nell’acqua; per ora su HP ho scritto solo altre due fic, una andata in porto perché è molto pop porno (Lucius *ç*) e l’altra che ha fatto la fine della Costa Concordia, non so se mi spiego.
Vi prego comunque di lasciare una recensione: purché sia costruttiva, mi farebbe un immenso piacere.

Grazie e alla prossima (se Dio vuole, LOL)

Elle H.

   
 
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