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Autore: TuttaColpaDelCielo    22/04/2012    5 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 12 – Pensiero




Il tempo vorticava impazzito, si addentava la coda come un serpente folle e Amitiel si diceva che forse il veleno sarebbe riuscito a consumarla, quell’estremità maledetta, senza lasciare nient’altro che un ricordo dimenticato. Una cicatrice liscia.
Era solo nei momenti più deliranti che la sua mente riusciva a concepire ossimori come quello, troppo adulti perché potessero appartenerle davvero: quando il dolore dell’Espiazione minacciava di farla impazzire, quando l’angoscia di un incubo che non avrebbe dovuto esistere la schiacciava, quando lo stordimento lasciava il posto ad una realtà troppo violenta.
E quando il tempo vorticava impazzito. Quella coda se la sarebbe morsa fino a strapparla via, magari, serpe sconvolta che si faceva del male pur di dimenticare. Pregava di poter anche lei cancellare gli ultimi attimi dalla memoria, di lacerare i ricordi e perdersi tra i flutti del tempo – presente e futuro ma passato no, perché passato era crudeltà dolore morte. La vita era arrivata troppo tardi e troppo sofferente per poter scacciare l’orrore, e non importava che fosse solo un gatto, che fosse solo un attimo, che quasi non fosse. Faceva male comunque.
La luce abbagliante del sole e il rosso intenso del sangue avevano ceduto il passo, davanti ai suoi occhi, a tinte morbide e ad un’ombra umida; nel mezzo, ricordava appena l’azzurro feroce del cielo, prima di giungere all’oscurità pietosa e riposante del bosco. Sempre che vi fosse davvero stato, quell’azzurro: era una constatazione logica, che avessero volato fino a lì, ma forse il lampo turchino era stato solo lo sguardo gelido di Ramiel e in realtà si erano trovati nel bosco senza fare nulla, trasportati dai flutti folli del tempo. In fondo non ricordava il sollievo della luce calda, o la carezza consolatoria del vento; solo le proprie mani lorde di sangue, e poi un lembo di terra nera.
Stava delirando, rannicchiata tra le radici di un albero, le ginocchia strette al petto. Tra le cosce appena dischiuse, una striscia di suolo – umido, nonostante il sole implacabile che inondava la pianura – accoglieva il suo sguardo, senza ferirlo con tinte troppo accese o luminose.
Aveva paura di alzare gli occhi. Di vedere una lama di luce filtrare tra le fronde ingiallite, per rischiarare con spietata nitidezza anche quell’angolo quieto. Di scorgere i capelli rossi di Ramiel, le ali dei Cherubini, le macchie sulle proprie mani.
Di trovare l’azzurro gelido degli occhi dell’insegnante, o di cercare quello di Anane, più comprensivo, più affettuoso, che in quel momento non c’era. O di desiderarne un altro ancora, sconosciuto, lampo celeste che talvolta le faceva visita nei sogni – che, quando estendeva le Percezioni in Paradiso, sembrava guidarla verso un punto preciso e poi dissolversi all’improvviso, lasciandola persa tra mille essenze che non riusciva a distinguere, con una malinconia amara e un senso d’incompletezza lacerante.
Ma, ancor di più, voleva Michael. Voleva i suoi occhi grigi, l’attenzione con cui l’ascoltava, la vaga preoccupazione che s’intuiva nel tono; il suo collo freddo contro cui abbandonarsi e le ali da arcangelo che ritirava nell’avvicinarsi a lei, per non ferirla con le piume affilate. Voleva ciò che rappresentava, in realtà – l’interesse, il conforto, la curiosità, il fascino conturbante del proibito –, ma l’aveva conosciuto solo con lui e in lui, quindi, lo identificava. Michael.
«Amitiel, giusto?» la chiamò qualcuno.
Alzò gli occhi: era Ridwan, inginocchiato di fronte a lei. Sapeva bene come si chiamava, ma aveva attirato la sua attenzione con i soliti modi discreti, anonimi – com’era lui stesso, d’altronde, con le ali da angelo e la fascia azzurra dei Custodi, i capelli castani e lo sguardo gentile, la bassa statura e le mani esili, quasi da donna, sempre pronte ad accennare una carezza. Gli sorrise debolmente, un po’ rincuorata dalla sua delicatezza.
«Anane?» gli chiese subito, perché Anane era Anane ed era anche la possibilità di vedere Michael.
«Più tardi.» le sfiorò i capelli, rassicurante «Se non ti senti bene, posso chiedere alla tua insegnante di allontanarmi con te per un po’.»
«No, no, io...» declinò istintivamente «Non ce n’è bisogno, ma grazie comunque.»
«Ne sei sicura?»
«Sì, grazie, davvero, ma-»
«Ridwan, lasciala stare, non è tuo dovere insistere così.» mormorò un arcangelo alla loro destra, a voce sufficientemente bassa da non essere udito da nessun altro. Dovevano avere comunque molta familiarità, perché uno accettasse di essere contraddetto in presenza di un cherubino.
«Mi sembra scossa, Gabriel, ed è nostro dovere» sottolineò le ultime parole imitando la voce profonda dell’altro «assicurarci che i Cherubini stiano bene.»
«Ce n’è un’altra che sta peggio, vai da lei, di questa mi occupo io.»
«È un’amica di Anane.»
«E quindi?»
Ridwan sospirò e le sorrise, rassicurante, poi si alzò e raggiunse il cherubino in lacrime indicatogli dall’arcangelo. Anche i loro compagni – due Custodi e un Guardiano – erano chini sugli allievi, intenti a tranquillizzarli goffamente, o almeno a rendere le loro essenze meno sconvolte ed evidenti. Ramiel invece rimaneva in piedi al centro della radura, gelida, priva di tutta l’abituale cordialità.
«Bene, cherubino.» sbuffò l’arcangelo rimasto lì, Gabriel «Parla.»
Non s’inginocchiò accanto a lei, ma rimase a fissarla dall’alto, l’espressione insofferente e una spalla appoggiata al tronco contro cui era seduta. Non proprio il modo migliore per rassicurarla.
«Il gatto.» trovò appena il coraggio di mormorare, in soggezione.
«Oh, il gatto. Naturalmente.» guardò al centro della radura, liberandola dal peso del suo sguardo chiaro «La tua insegnante ne parlerà tra poco, non è mio dovere. Devi solo aspettare.»
Aspettare. Quanto? Quanto avrebbe dovuto passare, con il rancore a roderle il petto e i dubbi, il dolore, il ricordo del sangue sulle proprie mani?
«Il gatto.» mormorò di nuovo, notando che il sangue sulle mani non era un ricordo – non era riuscita a pulirle bene sulla divisa, perché il tessuto non si sporcava facilmente. Per quanto avesse sfregato, le era rimasta qualche traccia scarlatta sui palmi, e faceva così schifo.
L’arcangelo si passò una mano tra i capelli biondo cenere, poi piegò le ginocchia e si sedette sui polpacci, abbassandosi all’altezza del suo viso. Amitiel tornò a fissare la striscia di terra che intravedeva tra le proprie gambe, a disagio, ma l’uomo le ordinò seccamente di guardarlo e a lei non restò che obbedire.
«Ascolta, cherubino.»
«Sto ascoltando.» gli fece notare, poiché lui non aggiunse altro.
«No, tu stai pensando. E, credimi, pensare non ti servirà a niente. Non riuscirai a venirne a capo nel modo giusto.»
«Non posso non pensare.»
«Puoi. Dimostrati più matura di una ragazzina umana, cherubino. Noi non ci lasciamo ossessionare da un gatto quasi morto; noi le superiamo, queste cose – noi superiamo tutto. Come potremmo vivere per l’eternità, altrimenti?»
Improvvisamente Amitiel invidiò la caducità degli Umani.
«Non posso non pensare.» ripeté «Quel gatto stava morendo. Lo stavano uccidendo
«E Ramiel pensa che saresti una buona Guardiana.» mormorò tra sé l’uomo, scuotendo la testa «Se t’impressioni per un gatto non morto...»
«Lo stavano uccidendo!»
«Porta rispetto, cherubino.» ringhiò, irritato dal suo tono di voce «E non pensare: ti distrarrebbe. Ascolta e impara, come ogni allievo.»
«Ma il ga-»
«Non è mio dovere farti da balia. Vuoi distruggerti per un gatto? Bene.» si distaccò dal tronco «Cerca di non disturbare la lezione, almeno.»
Lei rimase in silenzio, lo sguardo fisso sullo scorcio di terra tra le proprie gambe.
Non pensare. Ascolta e basta. Lascia che il tempo scorra e si porti via tutto.’
Ma il tempo non scorreva più, non avanzava, si avvolgeva su sé stesso in spire vischiose di sangue.
Strappati la coda, serpente.’
Gli Angeli, per sopravvivere ad un’esistenza infinita, dovevano piegarsi agli eventi. Ignorare, dimenticare, perdonare. Accettare.
Forse io non sono fatta per l’eternità.’


Guardiani e Custodi si allontanarono dai Cherubini per circondarli, vigili, gli occhi chiusi e le Percezioni estese il più possibile. Di fronte al semicerchio che gli allievi avevano formato per abitudine, Ramiel iniziò a parlare con voce fredda, acuta, blaterando parole senza sentimento.
Amitiel alzò lo sguardo dal terreno per puntarlo sul viso spigoloso dell’insegnante, ma la sua mente vagava ancora in un nulla imbrattato di sangue. Ascolta, continuavano ad ordinarle mille voci diverse – il Guardiano, le Custodi che l’avevano educata, gli insegnanti che aveva avuto, l’abitudine. Non pensare. Ascolta. E ancora i pensieri le strisciavano dentro, e le domande sibilavano dubbi al suo orecchio, e una nausea profonda si annidava dentro di lei.
E il gatto continuava a perseguitarla, con il suo unico occhio pieno di panico e dolore.
E Ramiel parlava, parlava, parlava.
La sua voce colpiva, gelida, violenta come uno schiaffo in pieno volto. Se il tono si era addolcito, Amitiel non lo notò, troppo concentrata nel capire il senso del suo discorso, o nell’accettarlo.
Era colpa degli Sconsacrati, diceva. Corrompevano la già fragile natura degli Umani, li allontanavano dalla purezza ispirata dagli Angeli, legavano a sé le loro anime e impedivano loro l’accesso al Paradiso – o alla rinascita, se non si erano mostrate degne e necessitavano di una seconda possibilità.
Dovevano avere compassione degli Umani, i figli più deboli e insicuri di Dio, così corruttibili in confronto al candore angelico. Dovevano guidarli verso il giusto, combattere gli Sconsacrati avidi delle loro anime, impedire che fossero trascinati negli Inferi.
«La vostra essenza è colma di compassione per quell’animale e ciò vi fa onore.» ripeteva continuamente Ramiel, come il ritornello di un canto «Ma gli animali, ricordatelo, non hanno anima né essenza. Godono della sola vita terrena, mentre noi dobbiamo occuparci di quella spirituale. Compatite quei ragazzini, piuttosto, che spinti dalla loro natura corruttibile si divertono con le sofferenze altrui; e pregate perché il sudicio influsso degli Sconsacrati non offuschi la guida dei Veglianti, perché le loro anime possano allontanarsi dai vizi umani, perché preferiscano la purezza al peccato. Compatite, pregate. Perdonate.»
Perdonare.
Ma perché perdonare? Nei brevi attimi in cui il corpo devastato del gatto smetteva di ripresentarsi ai suoi occhi, Amitiel riusciva a recuperare la lucidità necessaria a chiederselo, ma non a trovare una risposta. Perché perdonare quei ragazzini che ridevano esultavano uccidevano? Perché per gli Angeli vi era l’Espiazione al minimo errore, mentre per gli Umani il perdono? Perché dare loro una nuova possibilità, e poi un’altra e un’altra ancora, infiniti cicli che l’anima poteva vivere, fino a che non si fossero dimostrati degni del Paradiso?
Perché, perché, perché. Voleva risposte, Amitiel – chiamata come l’angelo della verità; come l’angelo condannato a bruciare nell’Espiazione sino ad estinguersi, per essersi opposto alla creazione degli Umani. Vi era un che di profetico, a volte, nei nomi assegnati ai Cherubini.
«Amitiel.» la richiamò l’insegnante, notando la sua disattenzione «Cosa ne pensi?»
«Non devo pensare: mi distrarrebbe. Devo ascoltare e imparare, come ogni cherubino.» le rispose subito, guidata dall’abitudine, celando i propri dubbi dietro un tono neutro.
Ramiel annuì, soddisfatta, e tornò a ribadire gli stessi concetti con le stesse parole. Non vi era nulla di strano in quella ripetizione: ogni classe, ogni lezione, ogni attimo di vita dei Cherubini era scandito da cicli ripercorsi all’infinito. Dovevano divenire attori di un’opera imparata a memoria e mai variata.
Amitiel scosse la testa, infastidita. Non riusciva a dare forma a quelle riflessioni, troppo distratta dall’orrore e troppo condizionata dalla propria educazione, ma le sentiva, e non era piacevole – dubbi e timide obiezioni che la rodevano da dentro, facendosi strada in lei a piccoli morsi di coscienza.
Non devo pensare. Certo, l’ha detto anche il Guardiano: pensando, mi complico le cose e basta. Mi distraggo. Mi faccio del male. Mi agito per trovare una risposta, senza riuscirci. Non. Devo. Pensare.’
Rifletti, le ingiungeva un’altra voce, più vibrante, più aggressiva. Più viva. Aveva il timbro profondo di Michael, il suo tono rabbioso, era come averlo di nuovo lì a strattonarle la treccia ed esporle il collo. Temeva di incontrarlo, le parole che avrebbe potuto ringhiarle, le certezze che avrebbe distrutto; e al contempo lo voleva, con un’intensità così disperata da stringerle lo stomaco. Ma voleva lui, o voleva semplicemente risposte? Lui, o le attenzioni che nessun altro le aveva mai concesso prima?
Quella confusione, le avrebbe detto un adulto, era il chiaro segno che non riusciva a pensare nel modo giusto, perché finiva solo per smarrirsi tra mille riflessioni diverse. Amitiel, pur ripetendoselo, non riusciva a convincersene davvero, né a smettere di farlo. Lo Specchio avrebbe dovuto insegnarle a mettere a tacere la mente; lo Specchio, con lei, aveva funzionato male in molti modi.
Il pensiero, ottenuta la libertà, ha la terribile mania di non volervi più rinunciare.

* * *

«Potete alzarvi.»
I Cherubini scattarono in piedi, irrequieti per la lunga immobilità. Non parlarono, perché non era stato loro permesso, né si allontanarono; solo alcuni mossero qualche passo indietro, per recuperare le borse abbandonate sull’erba.
Sul viso di tutti, un’espressione serena dimostrava che Ramiel aveva saputo svolgere il proprio compito, o che gli allievi sapevano fingere bene. Ma nessuno avrebbe mai potuto pensare questo, perché l’innocenza e la trasparenza dei Cherubini non potevano essere messe in dubbio. Se ad un allievo tremavano le ali, doveva essere per la stanchezza; se un’altra teneva gli occhi bassi, si apprezzava il suo pudore nel non fissare in volto un adulto, e non vi era motivo di credere che volesse invece nascondere il proprio sguardo.
Amitiel, i lineamenti congelati nell’espressione distesa che da tempo aveva imparato ad assumere, sperava che nessuno si preoccupasse di controllare anche le loro essenza. Era consuetudine degli insegnanti osservarle, per accettarsi che fossero tutti calmi e attenti, ma forse nella dimensione umana Ramiel non avrebbe perso tempo: troppi possibili imprevisti, troppi pericoli, troppe presenze estranee per prestare attenzione alle essenze dei Cherubini. Avrebbe potuto gettarvi un’occhiata per abitudine, se avesse incrociato lo sguardo di un allievo, ma in caso contrario non avrebbe certo distolto le Percezioni dall’esterno per verificare che fossero davvero calmi.
Amitiel lo sperava, almeno, con gli occhi bassi e i lineamenti atteggiati ad una quieta serenità. Non aveva idea di come controllare l’essenza e darle una parvenza di pace – non riusciva nemmeno a percepirla, e non sapere se fosse quieta o vorticante, limpida o torbida, la faceva sentire esposta. Se qualcuno avesse esteso le Percezioni verso di lei, si sarebbe tradita senza nemmeno accorgersene.
Non credeva di essere l’unica a sentirsi ancora turbata, però, e questo la confortava un po’. Ramiel – la compagna – sembrava distesa, tranquilla, ma in altri aveva colto un barlume d’irrequietezza. Erano trascorsi almeno quattro tramonti da quando si erano riuniti nella radura, l’insegnante aveva ripetuto decine di volte le stesse parole, molti se n’erano convinti – molti, non tutti. Alcuni rivedevano ancora quel massacro, il dolore del gatto, la morte che era arrivata a sfiorare l’animale.
Avevano conosciuto la caducità degli esseri viventi nel modo peggiore, e la crudeltà degli Umani, la loro morale alterata, proprio nel periodo della loro maturazione in cui avevano più bisogno di esempi irreprensibili. La voce gelida dell’insegnante, abituata a classi più avanzate, non aveva offerto loro alcun conforto; Guardiani e Custodi, poco avvezzi ai Cherubini, non erano riusciti a rassicurarli.
Erano stati sopravvalutati, era stato loro mostrato qualcosa da sempre destinato ad allievi più maturi, e che loro quindi non avevano potuto comprendere. Troppo acerbi, ancora, per compatire e perdonare. Troppo umani.
«Ora potete rilassarvi, Cherubini.» concesse Ramiel, tornata vagamente sorridente «Stiamo richiamando gli allievi del ciclo superiore, saranno qui a breve. Hanno già concordato con i Custodi ogni cosa, voi dovrete solo seguirli. Non sarete più distratti dalle essenze dei compagni, abbiamo risolto adottando anche per la quinta classe un’organizzazione a coppie – più isolati di così non posso permettervelo, se persino un solo compagno del ciclo superiore vi deconcentra, dovrete adeguarvi comunque.»
S’interruppe per ascoltare qualcosa che un Guardiano – sempre il solito con cui parlava ogni volta – le stava sussurrando, poi annuì, riflessiva. Mormorò qualcosa di simile a «Pensaci tu, Gabriel.» e, senza una parola agli allievi, s’inoltrò tra gli alberi con Ridwan.
«Per chi non lo ricordasse, o per chi fosse stato promosso di recente» continuò in sua vece il Guardiano, ignorando i loro sguardi confusi «sarà vostro dovere esercitarvi nelle Percezioni. La dimensione umana è particolarmente adatta a svilupparle e acuirle, ma la presenza di altri Angeli può risultare molto disturbante, perciò vi isolerete il più possibile. Sarete comunque accompagnati da un allievo del ciclo superiore, per la vostra sicurezza, e i Custodi si avvicineranno periodicamente a controllare che non vi sia nulla di irregolare; anche se è improbabile che ve ne siano, prestate attenzione e segnalate ai Custodi qualsiasi anomalia. Rimanete nel luogo concordato e non avvicinatevi alle zone sorvegliate dai Guardiani. Vi richiameremo tra circa quindici tramonti, organizzate bene il vostro tempo.»
Amitiel si sentì tremare. Aveva bisogno di Anane e aveva bisogno di Michael – di parlare, confrontarsi. Aveva bisogno di dare un senso all’indignazione che provava al pensiero che gli Umani, sbagliando, ricevevano una seconda possibilità, e una terza e una quarta, infinite vite in cui fare del male finché non fossero stati degni del Paradiso. Aveva bisogno di comprendere l’odio che sentiva serpeggiare e sibilare in fondo all’animo, lei, che era stata educata ad amare – l’odio è per gli Umani e gli Sconsacrati, gli Angeli perdonano e compatiscono; e puniscono, quando questa è la volontà di Dio, ma solo in quel caso. Stava esulando da ciò che le avevano insegnato, tra sentimenti da non provare e pensieri da non formulare.
Voleva solo che qualcuno le dicesse che era normale, che era giusto.
Sussultò quando qualcuno le toccò un braccio. Non aveva avvertito nessuno avvicinarsi, anche se già alla quinta classe molti Cherubini iniziavano ad avere vaghe impressioni delle presenze attorno a sé, senza doversi concentrare intenzionalmente sulle Percezioni: era ancora lontana dall’abilità di un adulto. E gli adulti – le avevano insegnato – non avevano solo capacità più sviluppate, ma anche una maturità che permetteva loro di comprendere, di giungere alle giuste conclusioni; lei, ancora così inesperta, come poteva avere la presunzione di credere che il proprio pensiero fosse corretto?
Ma come poteva avere la certezza che fosse sbagliato, in fondo?
Qualcuno la toccò di nuovo, scuotendola per un braccio.
«Amitiel? Stai bene?»
Alzò lo sguardo, incontrando quello di Anane. E Anane significava anche Michael.
Annuì, sollevata, con un sospiro tremulo. Ebbe l’impulso di abbracciarla, perché non si vedevano da tempo, ma dimostrazioni d’affetto così evidenti non erano opportune in pubblico, perciò si limitò a prenderle la mano e a stringerla con un sorriso. Anane sfregò la guancia contro i suoi capelli e sbuffò: «Non hai usato gli oli. Non hanno odore.»
«Non ne ho avuto il tempo.»
«Sì, ho notato. Non avevi nemmeno il tempo per la tua vecchia amica...» singhiozzò teatralmente, nascondendo a fatica un ghigno «Non mi dimenticherai per quelle della quinta classe, vero?»
«No, ma se passo di classe in tempo e mi ritrovo di nuovo con Cassiel, potrei eleggere lei a mia nuova migliore amica.»
«Così mi ferisci. La mia vecchia mente potrebbe non reggere al colpo...»
«Ho trovato il modo di liberarmi di te?»
L’occhiata severa di un Custode le convinse a tornare in silenzio. Ascoltarono le ultime ripetitive raccomandazioni, poi la ventina di fasce grigie del ciclo superiore si alzò in volo, seguita dai compagni più immaturi. Presero direzioni diverse, a gruppi, dividendosi sempre di più man mano che sorvolavano il bosco. Quando infine rimasero a coppie, Amitiel si rese conto che Anane era riuscita a farsi assegnare uno dei luoghi più estremi dell’immenso territorio concesso per la lezione, lontano dai Custodi e dai Guardiani – a malapena si scorgeva la sagoma di un adulto, in lontananza, e un’altra coppia di allievi diretta verso la propria zona. Il terreno non era più pianeggiante, ma risaliva le radici delle colline in un dolce pendio, coperto da una fitta vegetazione che si schiudeva talvolta in qualche radura.
Discesero tra gli alberi, in una delle zone più coperte, senza una parola: Anane le aveva fatto cenno di tacere fin da prima che rimanessero sole, gli occhi socchiusi in un’espressione concentrata. Amitiel, un po’ offesa per quel silenzio dopo che non si vedevano da interi cicli, atterrò più pesantemente del necessario sull’erba giallastra e sbuffò, sperando che l’altra le rivolgesse finalmente attenzione.
«Siamo un po’ lontani.» mormorò la più matura, pensierosa, guardandosi intorno.
«Cosa?»
«Niente, parlavo tra me e me.» scosse le spalle «Ora richiamo Eisheth.»
«Devi proprio?» chiese con una smorfia. Quella donna non le piaceva per niente, era falsa, affettata, e aveva sperato di non doverla rivedere – e poi diceva di essere madre di Anane, quando non era assolutamente possibile perché Anane non era abbastanza antica per essere nata da un’unione, e si divertiva a turbarla sottolineando quella presunta parentela di continuo. Anche il cherubino aveva confermato il legame, ma non lo ricordava, o preferiva non farlo: convincersi che Eisheth mentiva era di gran lunga più comodo.
«Non vuoi?» Anane si voltò di scatto verso di lei «Avevi detto di sì, e ormai abbiamo organizzato tutto, non è...» affondò i denti nel labbro inferiore e si lasciò sfuggire un sospiro tremulo «Ma se davvero non vuoi... posso parlare con Eisheth, ma Michael, ora che è così tardi... potrebbe non... gradire.»
Torturava la divisa con le dita, parlava con voce incerta. Era in ansia. Ma perché? Michael se la sarebbe presa con Anane, se lei avesse cambiato idea? Per questo temeva un suo rifiuto?
«Tranquilla.» la rassicurò, senza più avvertire alcuna irritazione «È solo che Eisheth non...»
Fece un gesto vago con la mano, per non sbilanciarsi troppo. Anane non le era apparsa in buoni rapporti con la madre – ricordava ancora il suo pianto isterico, le sue parole velenose – ma si affidava comunque a lei, a quanto sembrava, ed esprimendo ciò che pensava di Eisheth temeva di offenderla.
«È una persona particolare, sì. Molto irritante. Ma credo di esserle affezionata, in fondo... se non altro per tutte le volte che mi ha salvato le ali da Michael.» si esibì in una mezza risata divertita «Scusa, ora devo concentrarmi.»
Anane chiuse gli occhi, una mano alzata a chiederle silenzio, le labbra che mormoravano qualcosa – il nome di Eisheth, forse. Rimase così per diverso tempo, interrompendosi un istante solo per dirle: «Esercitati nelle Percezioni, intanto, o si accorgeranno che abbiamo perso molto tempo.»
Amitiel era certa di essere troppo agitata per riuscirvi: stava per vedere Michael – ed Eisheth, sì, ma aveva relegato quel dettaglio in un angolo della mente –, stava per parlare, chiedere, dare un senso alle confuse emozioni che ancora sentiva agitarsi dentro di sé; come poteva concentrarsi su qualcosa di tanto noioso come le Percezioni?
Seguì comunque il suo consiglio, più per abitudine che per reale intenzione. Chiuse gli occhi a sua volta e si accoccolò tra le radici di un albero, un po’ stanca per la lunga lezione. Doveva raccogliersi, ignorare ciò che aveva dentro per captare tutto ciò che era fuori, cercare di identificare ciò che avvertiva. Non le avevano spiegato altro, perché la teoria era, in effetti, molto semplice; le difficoltà non sorgevano nella comprensione, ma nell’applicazione. Riusciva a fatica ad avvertire le presenze più vicine, identificarle era ancora pura utopia – e poi c’era qualcosa che la distraeva, a volte, guidandola verso di sé e abbandonandola prima che vi giungesse, lasciandola persa tra presenze troppo distanti, che la confondevano e la stancavano. Non sapeva se fosse normale, né che cosa attraesse così tanto le sue Percezioni: non aveva osato chiedere chiarimenti, per timore che la sua domanda non fosse ben accetta. Probabilmente erano solo i Fuochi, che la spingevano verso la Città senza riuscire a fargliela raggiungere, ancora troppo immatura per arrivare così lontano. Nella dimensione umana forse sarebbe andata meglio, si disse, salvo poi rimproverarsi perché non doveva dirsi niente – doveva solo smettere di pensare e trovare la calma necessaria.
Si riteneva una persona ottimista, ma non arrivava a sperare davvero di riuscirvi.
Inaspettatamente, invece, dopo poco si sentì scivolare verso la quiete. Avvertì la presenza di Anane vicino a sé, intensa, disturbante: non era come vederla o toccarla, semplicemente sapeva che era lì, e le dava fastidio al capo, come uno stridio – no, dava fastidio a tutto l’ambiente. L’essenza di Anane non apparteneva a quel mondo, le sue Percezioni lo coglievano e glielo trasmettevano. Se si fosse trovata in mezzo agli altri Cherubini, probabilmente non avrebbe sopportato quel malessere.
Eppure, in qualche modo, trovava più semplice estendere le Percezioni. La vita pulsante del Mediano la attirava, le facilitava il compito, riusciva quasi a distrarla dalla stridente essenza di Anane. Avvertiva qualcos’altro oltre al cherubino, miriadi di presenze insignificanti e confuse tra loro, in qualche modo più passive, meno importanti – animali, forse, perché le trasmettevano un istintivo disinteresse. La sua essenza voleva altro, si tendeva alla ricerca di vita senziente, di anime umane; ma i villaggi erano troppo lontani, Anane troppo disturbante, lei troppo inesperta, perciò vagava senza trovare qualcosa su cui concentrarsi. Solo per un attimo le sembrò di avvertire un’anima umana, non troppo distante, prima che l’essenza dell’altro cherubino la distraesse di nuovo; era stata una sensazione stana, un sussurro delicato che le diceva che c’era qualcuno e che apparteneva a quella dimensione, ma era scomparsa subito.
E qualcosa, all’improvviso, la attrasse verso di sé. La strappò alla stridente presenza di Anane, alle altre innumerevoli che non le interessavano, a quell’unica umana che le aveva sfiorato la mente; uno squarcio, le sue Percezioni sradicate brutalmente e trascinate lontano, da qualche parte che non riusciva a capire, verso qualcuno che non riusciva a riconoscere.
Faceva male, dentro, più a fondo di pelle carne ossa, come se un artiglio gelido stesse lacerando la sua mente squassata dal dolore.
Si ritrovò a boccheggiare, reazione inutile quanto istintiva; avrebbe inarcato la schiena, spalancato le labbra in un urlo muto, se avesse avuto ancora controllo del suo corpo, ma non riusciva neppure a percepirlo – c’era solo quell’artiglio che la squarciava, quel qualcosa che la attirava a sé con violenza, ed era peggio dello stridio dell’essenza di Anane, era peggio dell’Influenza di Eisheth, e non era più nemmeno una sensazione, era lei stessa che si dibatteva e urlava e in realtà non si muoveva, perché esisteva solo la sua mente, lesa squarciata distrutta.


«È ferita.»

«Quanto manca all’alba?»
«Poco.»

«Non voglio morire.»
«Rinascerai.»
«Non voglio morire!»

«Ti ricorderò? Ti ricorderò, vero?»
«...sì.»

«È ferita.»


«Amitiel? Amitiel!» mani a scuotere quel corpo che non percepiva più «Madre, non reagisce!»
«Non temere, cara, dev’essere il Mediano. Può fare quest’effetto.»
Mani più piccole, tiepide, a sfiorarle le tempie.
«Cosa succede, madre?»
«Sta ricordando, cara. Sta pensando


Ferita. Ferita. Ferita.

Occhi azzurri.

Ferita. Ferita. Ferita.

Occhi grigi.

Ferita. Ferita. Ferita.

Fiamme.

Ferita. Ferita. Ferita.

«Conosci la leggenda della fenice?»





***
Angolo autrice
Grazie per letture e preferiti/seguite/ricordate e, come sempre un grazie enorme a chi commenta!
Come vedete, ho personalizzato parecchio la "vita dopo la morte". Non esiste il Purgatorio, ma una seconda - infinite - possibilità, se l'anima non viene conquistata dagli Sconsacrati. Gli amanti della tradizione non me ne vogliano, era una cosa troppo da miei Angeli per non inserirla. Verrà spiegata meglio nei capitoli seguenti.
A domenica prossima!
   
 
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