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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    23/04/2012    9 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

When you try your best but you don't succeed

When you get what you want but not what you need

When you feel so tired but you can't sleep

stuck in reverse.

And the tears come streaming down your face

When you lose something you can't replace

When you love someone but it goes to waste

could it be worse?

Coldplay - Fix You

10. The sorrow in your eyes

«Sicuro che per te va bene se ti lasciamo qui in città?», domandai a Jacob, per nulla convinta.

Lui sorrise, girandosi sul sedile per guardarmi. «Certo, non serve che mi accompagniate fino alla riserva. Sarebbe solo una perdita di tempo per voi».

«Io non sono mai stata ad una riserva indiana. Mi piacerebbe visitarla», dissi, sorridendo.

Jacob rise leggermente. «Credimi, la riserva dove abito io è una delle cose più vicine ad una città qualunque che tu possa immaginare. Non ti perdi niente di che. Sono sicuro che nella strada per Los Angeles ne incontrerete di altre molto più caratteristiche».

Arricciai le labbra. «Finora non abbiamo avuto molta fortuna a riguardo».

Il meccanico estrasse un foglietto dalla tasca dei pantaloni, e prese la penna deposta nel vano portaoggetti davanti a lui. Scribacchiò qualcosa, e nel frattempo mi parlò: «Se avrete tempo ti consiglio la riserva indiana che c’è sul fondo del Grand Canyon. È la riserva Havasupai, e ha anche un bel percorso in mezzo alla foresta che porta a delle bellissime cascate. Non è molto distante dalla Route, e sono sicuro che sarebbe una bella esperienza».

Mi tese il foglietto, su cui aveva appuntato il luogo in cui si trovava la riserva e dove svoltare. Sotto erano appuntati anche tre modi per arrivarci: a piedi, a cavallo o in elicottero.

«Grazie», gli dissi, ritirando il foglietto nel quaderno degli itinerari. Il fatto che fossimo ben oltre la metà della Route 66 mi infondeva un senso di tristezza. Non era nemmeno passata una settimana e già eravamo in dirittura d’arrivo; era anche vero che c’era il viaggio di ritorno da affrontare, ma ero certa che grazie alle superstrade ci avremmo messo pochissimo tempo a tornare a Chicago. Avrei dovuto godermi quei pochi giorni che mi restavano come meglio potevo.

«È un peccato che tu debba lasciarci di già. Questi due giorni sono stati più divertenti del solito», mormorai, con un piccolo sorriso.

Jacob scrollò le spalle. «Se vuoi vengo con voi fino a Los Angeles. Tanto dovrete tornare ad Amarillo alla mia officina prima o poi», scherzò, ridendo.

Risi anch’io. «Almeno adesso Edward sembra più amichevole dell’inizio. Potrebbe perfino essere felice se tu venissi con noi».

Jacob distolse lo sguardo, un vago sorriso a piegargli le labbra. «Già, questo non lo credo», disse.

«Perché?», domandai, curiosa.

«Se mi avesse intorno per un tempo indeterminato credo che prenderebbe in considerazione l’idea di cavarmi gli occhi una volta per tutte, e sinceramente preferirei averli ancora», commentò con una risata nervosa.

«Che intendi dire? Perché dovrebbe fare una cosa simile?»

Jacob mi guardò con un sopracciglio inarcato ed un’espressione divertita. «Sei proprio ingenua, eh?»

Lo guardai accigliata, ma non dissi niente. Anche Edward mi ripeteva spesso, soprattutto quando avevamo iniziato a frequentarci, che ero molto ingenua, ma questo non significava che la cosa mi facesse piacere, anzi.

Jacob si grattò una guancia, e mi parve quasi imbarazzato. Guardò fuori dal finestrino del furgoncino, assicurandosi forse che Edward fosse ancora in coda all’interno del benzinaio per pagare il pieno. «Io… uhm… mi sono preso una cottarella per te», disse brevemente.

Sgranai gli occhi, guardandolo come se all’improvviso gli fossero spuntati un altro paio di orbite sulla fronte. «Come?!»

Lui rise, a disagio. «È la verità. Appena ti ho vista sono rimasto catturato da te, per questo mi sono offerto di aiutarti».

Mi passai una mano sul viso, cercando di nascondere il rossore che imporporava le mie guance. «Allora era per questo che Edward ce l’aveva tanto con te».

Si schiarì la voce. «Già. Diciamo che fino a quando siamo arrivati ad Amarillo non mi sono risparmiato con gli sguardi. Quando poi ho capito che era tutto inutile e che fra te e il doc c’era sotto qualcosa ho deciso di lasciar perdere».

Lo guardai, non sapendo come comportarmi alla luce di questa nuova scoperta. «Come l’hai capito? Insomma noi non… non abbiamo mai fatto e detto nulla di equivoco per tutto il tempo».

Jacob alzò gli occhi al cielo. «Bella, quando una donna continua a ignorare un uomo che la guarda in un certo modo - anzi, non se ne rende nemmeno conto - e cerca continuamente gli occhi dell’altro e la sua approvazione è ovvio che questo capisce che deve lasciar perdere. A maggior ragione se l’altro continua a guardarlo come se potrebbe cavargli gli occhi da un momento all’altro se non la smette di guardare la donna in quel modo».

Arrossii ancora. «Mi dispiace», dissi. «Non mi ero accorta di nulla…»

«L’avevo notato», disse ridendo. «Anche per questo ho lasciato perdere».

«Quindi ora non… non ti interesso più?», sussurrai, cercando un modo delicato per chiederlo senza dargli a vedere quanto una sua risposta affermativa mi avrebbe sollevato.

«Non proprio», rispose, invece. «Per questo è meglio che il mio viaggio sia finito qui. E poi mi sembra di aver capito che fra te e il doc c’è ancora qualcosa in sospeso, e preferisco non continuare a fare il terzo incomodo».

Abbassai lo sguardo, a disagio. «Sei gentile a preoccuparti per noi. Anche quello che hai fatto ieri sera - tralasciando il tuo modus operandi che mi sembra un po’ sbagliato -», aggiunsi con un sorriso divertito, «è stato davvero carino da parte tua».

Lui sorrise. «È stato un piacere… più o meno», disse sorridente. «Sono sicuro che se proverai a dare una possibilità ad Edward potreste essere felici».

Guardai fuori dal finestrino e vidi il mio compagno di viaggio dirigersi verso di noi, con due bottigliette d’acqua fresca in mano, per permetterci di prendere le pastiglie che ci avrebbero finalmente liberati di quei mal di testa pressanti.

«Forse», sussurrai solamente, prima che la sua portiera si aprisse e lui entrasse, ponendo fine a quel discorso.

 

«Allora siamo d’accordo, ragazzi. Quando state per tornare ad Amarillo mi chiamate così mi assicuro che la vostra auto sia pronta per ripartire», disse Jacob, lanciando il suo borsone sul retro di una Golf rossa fiammante. Una ragazza dalla pelle scura scese dal posto del guidatore, fece un breve cenno a me ed Edward, diffidente, e poi risalì dalla parte del passeggero, senza dire più nulla.

«Va bene», rispose Edward, allungando una mano per stringere la sua. Jacob gli diede una pacca sulla spalla, salutandolo.

«Ci si sente, doc», disse, usando il soprannome che gli aveva affibbiato dalla sera precedente, quando mi aveva soccorso risparmiandogli la pena di dover chiamare un’ambulanza.

Si avvicinò a me con passo lento, e mi strinse in un abbraccio a cui risposi impacciata. «Stammi bene, Bella», disse. E prima che potessi immaginarlo mi baciò sulla guancia, allontanandosi subito dopo e facendomi l’occhiolino.

«Allora, ti muovi sì o no, Jake?!», sbraitò la ragazza in auto, sporgendosi dal finestrino abbassato.

«Arrivo, Leah, arrivo», sospirò lui, dirigendosi verso la macchina.

Mi voltai a guardare Edward, che aveva un cipiglio contrariato in viso.

Dopo che Jacob fu in auto ci salutò dal finestrino. «Trattatemelo bene, eh», si assicurò, riferendosi al furgoncino. «Alla prossima, ragazzi», disse. Poi partì, dirigendosi verso la periferia della città.

 

«Dove stiamo andando?», chiesi ad Edward, dopo diversi minuti di silenzio. Era da prima dell’incontro con Jacob che in auto non calava un silenzio tanto prolungato, e se prima trovavo quell’assenza di parole rilassante, in quel momento mi sembrava di soffocare. Non capivo da dove fosse nato quell’improvviso disagio, e per quanto mi sforzassi di rilassarmi non ci riuscivo.

Edward mi lanciò una breve occhiata. «Al Balloon Museum», rispose, senza nessuna particolare inflessione della voce.

Annuii leggermente. «Prima Jacob mi ha dato il nome di una riserva indiana sul fondo del Grand Canyon. Ha detto che è molto bella, ci sono anche delle cascate. Che ne dici se andiamo a visitarla quando arriviamo da quelle parti?»

Lo vidi pensarci per qualche secondo. «Immagino di sì, si può fare».

Sorrisi. «Neanche tu sei mai stato a una riserva, no? Sarà una bella esperienza».

Edward annuì brevemente. «Suppongo di sì».

«Siamo arrivati», disse dopo altri minuti di silenzio.

Parcheggiò l’auto poco distante dall’ingresso del museo, che era un semplice edificio color sabbia con una semplice scritta incisa nella pietra. All’interno visitammo le sale dedicate alla storia della mongolfiera, osservammo il procedimento secondo cui il mezzo si muoveva nell’aria grazie alla bravura del pilota, che doveva essere in grado di riconoscere e seguire le giuste correnti d’aria per portare il pallone dove voleva lui; era un procedimento molto difficile, e solo i più bravi erano in grado di riportare il mezzo al suo punto di partenza per l’atterraggio.

Giunti alla fine della nostra visita, durata poco meno di un’ora, uscimmo dall’ingresso sul retro, e poco distante, dall’altro lato della strada, vedemmo una delle piazze di partenza delle mongolfiere: un enorme prato verde che si estendeva al limitare della città, sul quale riposavano almeno una ventina di mongolfiere pronte alla partenza, mentre alcune spiccavano proprio in quel momento il volo.

Il cielo era limpido, e anche se a terra non si sentiva un alito di vento le mongolfiere appena raggiungevano una certa quota iniziavano a spostarsi velocemente, verso l’orizzonte: alcune si dirigevano sopra la città, altre verso la zona boscosa poco distante.

Edward mi sfiorò un braccio, attirando la mia attenzione. «Vado un attimo in bagno. Torno subito», disse, voltandosi per tornare verso il museo senza aspettare una mia risposta.

Rimasi a guardare il cielo chiazzato di palloni colorati per qualche minuto, e quando ritornò andammo alla macchina.

Aprì il baule del furgoncino, e tirò verso di noi la mia valigia e il suo borsone.

«Che cosa fai?», gli chiesi, non capendo.

«Prendi qualcosa da vestire di pesante», disse. Poi mi guardò. «Non hai portato solo vestiti leggeri, vero?», domandò, osservando il prendisole che avevo indossato.

Scossi il capo e iniziai ad aprire la valigia. Avevo portato solo un paio di felpe abbastanza pesanti ed un paio di pantaloni di pile, nel caso in cui in Illinois avesse fatto freddo; di certo non mi aspettavo di indossarli in un posto afoso quanto il New Mexico. «Mi vuoi spiegare a cosa ci servono?»

Edward fece un sorriso sghembo. «Davvero non lo immagini?»

Aggrottai le sopracciglia, e seguii il suo sguardo che si rivolse al cielo. Una mongolfiera stava passando sopra di noi, prendendo sempre maggiore quota. Trattenni il fiato.

«Andiamo su una mongolfiera?»

Lui annuì, e tirò fuori dalla tasca dei jeans un foglio con la prenotazione per un viaggio per due. Avrei dovuto immaginare che non stava davvero andando in bagno poco prima.

«Potresti prendere le giacche a vento di Emmett?», mi chiese, mentre tirava fuori una felpa.

Annuii. «Dove sono?»

Edward indicò le reti attaccate al retro del sedile posteriore, che contenevano quelle che sembravano delle giacche di tela appallottolate. Mi inginocchiai nel baule, e raggiunsi a gattoni il retro della macchina, prendendo le giacche. Quando mi voltai vidi Edward guardarmi in modo strano.

«Riesci a cambiarti qua dietro?»

«Sì», risposi, passandogli le giacche. Chiuse il portellone, e dopo aver tirato le tendine ai finestrini mi cambiai velocemente, infilando i pantaloni lunghi ed una maglietta con una felpa. Bussai al portellone, ed Edward mi aprì. Vestita con abiti così pesanti mi sembrava di essere dentro una sauna per il caldo soffocante.

«Ricordati gli occhiali da sole», mi avvertì Edward, mentre prendevo le ultime cose dalla mia borsa, per non portarmela dietro. Li infilai nella tasca della giacca vento, e lo seguii fino al retro del museo, dove al di là della strada si trovava la piazza di partenza delle mongolfiere.

«Sei pronta?», mi chiese, mentre mostrava la prenotazione agli addetti all’ingresso del parco.

Annuii, mentre un sorriso emozionato piegava le mie labbra. Affiancai Edward, ed insieme seguimmo un uomo che ci portò fino alla nostra mongolfiera. Il pallone era a strisce verticali e oblique, e riportava tutti i colori, dai più caldi ai più freddi, in un tessuto che era quasi riflettente. Accanto alla cesta in vimini - al cui interno si trovava già il pilota - c’era uno sgabello basso, per aiutare le persone a salire.

Accettai la mano di Edward per salire a bordo, e non appena mi ritrovai circondata dalle basse pareti di legno leggero rabbrividii. Non ero mai stata su una mongolfiera, né avevo mai pensato di salirci un giorno, e il pensiero di dover volare a diverse miglia di altezza sostenuta solo da un pallone gigante e dall’aria calda mi metteva a disagio.

Edward salì al mio fianco, e l’uomo rimasto fuori si allontanò con lo sgabello, augurandoci un buon viaggio.

«Possiamo partire?», domandò il pilota, alle nostre spalle.

Guardai il mio compagno di viaggio, non più così sicura di voler fare una simile esperienza. C’erano mille motivi diversi per cui il viaggio si sarebbe potuto risolvere nel peggiore dei modi, e avevo paura.

Edward capì dalla mia espressione che qualcosa non andava, e chiese all’uomo di aspettare un attimo.

«Va tutto bene?», sussurrò, avvicinandosi.

Deglutii. «Sì. Ho solo un attimo di panico, niente di che», dissi, cercando di mascherare quanto in realtà fossi improvvisamente terrorizzata.

Mi voltai verso il pilota, forzando un sorriso entusiasta. «Possiamo andare».

L’uomo annuì, e subito dopo sentii il rumore del fuoco e del gas, e mi voltai verso l’esterno per non vedere le fiamme sopra di me. Dopo alcuni secondi sentii la gondola tremare, e serrai le dita intorno al bordo di vimini.

Sentii il braccio di Edward premere contro il mio, e il suo respiro sull’orecchio. «Va tutto bene, stai tranquilla», sussurrò.

Quando il cesto si sollevò da terra trattenni un gridolino di sorpresa, e posai la mia mano su quella di Edward, stringendola. Lo sentii ridere sommessamente, ma sapere che era con me riusciva a infondermi una tranquillità maggiore.

Vedevo l’erba sotto i miei piedi muoversi, spostarsi, diventare secondo dopo secondo sempre più distante. Sentii il vento soffiare fra i miei capelli, e quando sollevai il viso per vedere l’orizzonte vidi gli edifici diventare sempre più bassi, e in lontananza il luccichio del sole che si rifletteva sulla superficie del fiume che correva a qualche chilometro di distanza dal centro della città.

Abbassando nuovamente gli occhi vidi la mongolfiera muoversi oltre il recinto della piazza di partenza, e spostarsi lentamente verso la zona di alberi che circondava il fiume.

Più ci allontanammo dalla terra ferma, più i suoni della città divennero assenti, e l’aria divenne fresca e leggera, facendomi ringraziare di avere addosso l’enorme giacca di Emmett, che mi proteggeva. La sensazione di essere lontana dalla terra non era più così terribile, anzi, era perfino piacevole. Attenuai la presa intorno alla mano di Edward, e mi rilassai. Le sue dita si mossero leggermente, restando a contatto con le mie.

«Va meglio adesso?», mi chiese, sorridendo.

Annuii, restituendogli il sorriso. «Molto meglio». Intrecciai le dita alle sue, e sorrisi ancora. «Grazie».

Vidi il suo viso avvicinarsi, e trattenni il respiro, sentendomi improvvisamente agitata. Sapevo che si stava muovendo lentamente per darmi la possibilità di spostarmi, ma non lo feci. Rimasi immobile, fino a quando le sue labbra si posarono sulla mia fronte, leggere come piume. Chiusi gli occhi per un istante, sentendo il mio cuore battere impazzito nel petto. Quando si allontanò, pochi secondi più tardi, ripresi a respirare, sentendomi agitata come non mai. Edward mi guardò per un istante, poi tornò a osservare il panorama intorno a noi, senza dire più nulla.

Lo imitai, anche se non ero certa di essere in grado di essere in grado di nascondere la confusione che da quel momento albergò in me.

 

Una volta tornati a terra - circa un’oretta dopo la partenza -, prima di riprendere il nostro viaggio ci fermammo in un piccolo fast-food per mangiare. Subito dopo ci rimettemmo in marcia per le vie della città. Le pareti delle case erano dipinte da murales bellissimi, e se la vista non mi ingannò notai anche dei bidoni della spazzatura decorati con disegni di coyote e simboli indiani. I negozi erano segnalati da bellissime insegne al neon, che purtroppo, essendo primo pomeriggio, non potemmo ammirare accese. Appena lasciammo alle nostre spalle la città intorno a noi tornò a riaprirsi il deserto secco e afoso del New Mexico.

Nei dintorni l’unico vero punto di interesse era rappresentato dal Bandera Volcano, insieme alle sue Ice Caves, che secondo la guida non superavano i 0°C nemmeno nel più afoso dei giorni estivi. Tuttavia proseguimmo diretti verso il confine con un nuovo Stato, decisi a raggiungere il parco nazionale della foresta pietrificata.

La strada sembrò divenire ancora più secca e disabitata subito dopo aver superato il confine del New Mexico, giungendo in Arizona, dove il deserto era disseminato di cactus saguari e non si vedeva nient’altro al di fuori di qualche traliccio per chilometri e chilometri, prima di incrociare qualche piccolo paesino che sembrava sperduto nel nulla.

Edward accese la radio, forse per coprire il silenzio che aveva nuovamente preso piede nell’abitacolo, e guidò mantenendo una velocità abbastanza elevata.

«Non hai paura di arrivare alla fine?», gli chiesi dopo più di un’ora di silenzio.

Edward parve sorpreso di sentirmi parlare. Mi lanciò un’occhiata interrogativa.

Mi schiarii la voce. «Siamo arrivati oltre la metà della Route 66 in pochissimo tempo… non hai paura che presto - fra una settimana magari - saremo di nuovo a Chicago?»

Edward si irrigidì. Vidi le sua mani stringersi più saldamente intorno al volante, e la sua mascella serrarsi. «Presto dovremo tornare alle nostre vite, no?»

Lo guardai accigliata. «Va bene ma… non ti piacerebbe rimandare ancora il nostro ritorno? Insomma, io dovrò tornare a cercare un lavoro, e tu dovrai… dovrai decidere se trasferirti davvero a Los Angeles. Non vorresti avere più tempo per pensarci?»

Rimase in silenzio per diversi minuti, l’espressione quasi sofferente. «Possiamo non parlarne?», disse a un certo punto, con la voce bassa che quasi che tremava. «Preferirei non pensarci adesso».

Lo guardai confusa, mentre la velocità a cui viaggiavamo diminuiva lentamente, fino a tornare di poco superiore ai limiti.

«Non capisco…», mormorai, stordita dal suo comportamento. Edward non era mai stato il tipo da fuggire da una situazione, e non capivo cosa potesse esserci di così grave nel parlare di quello che avremmo fatto una volta tornati a casa.

Lo sguardo che mi rivolse, però, mi fece tacere una volta per tutte. «Ti prego, Bella», disse solamente. E ancora una volta nei suoi occhi vidi quel dolore che mi tolse il fiato, facendomi zittire all’istante per non toccare più quell’argomento.

 

Il Petrified Forest National Park occupava una zona molto ampia, e rappresentava una distesa di pietra che un tempo era una foresta, che a seguito delle esplosioni vulcaniche, dell’erosione dell’acqua e poi del vento divenne un vero e proprio conglomerato di tronchi pietrificati. C’era perfino una zona in cui fra le rocce si potevano vedere accenni di cristalli, zona chiamata appunto Crystal Forest, ma per il resto eravamo circondati dalla roccia ovunque.

Quel luogo mi metteva in soggezione. Mi sembrava quasi di camminare in mezzo ai resti di una distruzione totale, dove le piante erano state trasformate in rocce e la terra non lasciava più spazio all’erba verde e alle piante. Tutto sembrava immobile e cupo in quel posto, e l’unica fonte di colore era il sole che lentamente proseguiva la sua discesa verso l’orizzonte, dipingendo la roccia di colori rossicci e caldi.

Dopo aver girato il parco in auto e aver visto e fotografato i punti più interessanti, raggiungemmo una struttura in pietra arancione, il Visitor Center del parco, e scendemmo dall’auto. L’aria era secca, ma la temperatura era più piacevole rispetto a qualche ora prima, quando si moriva di caldo. Il sole stava quasi per tramontare.

Molti visitatori si erano già sistemati lungo il punto di vista, pronti a godersi lo spettacolo del sole che tramontava davanti alla foresta pietrificata, ed Edward ed io decidemmo di imitarli, trovando un piccolo spiazzo poco distante dallo strapiombo che scendeva fino ai resti degli alberi. La terra rossa e grigia era polverosa, tanto da sembrare quasi sabbia o ghiaia finissima. Ci sedemmo a terra, in attesa.

Con la coda dell’occhio vidi Edward estrarre il cellulare dalla tasca dei jeans, premere qualche tasto, e poi riporlo nuovamente. Da quando eravamo partiti non l’avevo ancora visto parlare al telefono con nessuno, nemmeno sua madre.

«Hai sentito Esme da quando siamo partiti?», gli domandai a bruciapelo, cercando di assumere un atteggiamento disinvolto.

«L’ho sentita questa mattina, prima che partissimo», rispose tranquillamente. «Tu invece hai detto ai tuoi che sei partita?»

Feci una smorfia. «No. Dubito che a loro cambi qualcosa saperlo o meno. Si preoccuperebbero inutilmente».

Edward annuì lievemente. «E Rosalie ed Alice? Loro cos’hanno detto quando hai deciso di partire?»

Portai le ginocchia al petto, appoggiando il mento su di esse, lo sguardo puntato sul sole che tramontava. «Puoi immaginarlo. Rosalie era convinta che fosse un’idea stupida, mentre Alice sarebbe corsa a casa mia per farmi le valigie e sbattermi fuori se gliel’avessi permesso». Feci un piccolo sorriso al pensiero delle mie migliori amiche, così lontane da me in quel momento. Era da quando avevo lasciato Chicago che le sentivo solo attraverso brevi sms, e mi mancavano. Speravo di avere un po’ di tempo per poterle telefonare presto.

«Immagino che Rosalie non fosse contenta di sapere che partivi con me», mormorò.

Scossi il capo, rimanendo in silenzio.

«Ti sei mai pentita di essere partita?», mi chiese dopo un minuto di silenzio.

Il sole era di un arancione incandescente, e tingeva la valle davanti a noi del suo colore.

«Una volta. La prima mattina passata fuori da Chicago», sussurrai. Ricordai l’incubo di quella notte, e la valanga di ricordi che da quel momento non fecero altro che affollare la mia mente, dolorosi.

Guardai Edward, il cui viso era illuminato dalla luce arancione, che faceva brillare i suoi occhi. «Perché mi hai abbandonata, Edward?», gli chiesi, con la voce che era quasi un sussurro e non voleva saperne di uscire. «Perché hai preferito il lavoro a me?»

Per la prima volta, da un anno a quella parte in cui quelle domande mi avevano tormentata giorno e notte, finalmente avevo avuto la forza per fargliele. Mi sembrò che un peso enorme svanisse dalle mie spalle, permettendomi di respirare più facilmente.

Avevo paura della sua risposta, avevo paura di rovinare di nuovo il nostro rapporto che si stava lentamente ricucendo, ma sapevo che almeno dopo aver ricevuto la risposta a quelle domande così tormentate avrei potuto ricominciare da capo, e accettare il nostro passato. O almeno così speravo.

Edward sgranò gli occhi, segno che non si aspettava una domanda simile. Non si aspettava che tirassi fuori di mia spontanea volontà un argomento tanto doloroso quale quello della nostra separazione, e lo vidi mentre la sua espressione diventava sempre più cupa.

«Ho sbagliato», disse, dopo lunghi secondi di silenzio. «Hai ragione a dire che ho messo il lavoro davanti ad ogni cosa, anche davanti a te. Ma ho capito che era un errore troppo tardi, quando mi hai lasciato». Abbassò lo sguardo, e si passò una mano fra i capelli, tirandoli leggermente. «Sono stato un idiota, continuavo a ripetermi che presto le cose sarebbero andate meglio, che se avessi continuato ad impegnarmi così tanto al lavoro presto avrei ottenuto una promozione e avrei potuto avere più tempo per stare con te senza essere continuamente richiamato dall’ospedale ad orari impossibili». Prese un profondo respiro. «La cosa peggiore era sapere cosa ti stavo facendo e nonostante tutto pregare che tu riuscissi a resistere ancora un po’ di tempo».

Sentii gli occhi inumidirsi e distolsi lo sguardo, cercando di trattenere le lacrime.

«Abbiamo passato quasi un anno in questa situazione, Edward», sussurrai, con la voce che tremava. «Quanto ancora pensavi che potessi resistere?»

«Troppo, me ne rendo conto», mormorò, con la voce tormentata.

Rimasi in silenzio, mentre il sole toccava la linea dell’orizzonte davanti a noi. Il cielo era rosso.

«Bella», mi chiamò Edward.

Mi voltai a guardarlo, sperando che quello che stava per dire non fosse il colpo di grazia che mi avrebbe fatto scoppiare a piangere.

I suoi occhi erano seri, e nella luce del tramonto sembravano lucidi. «Quando dicevo che ti amavo più del mio lavoro non mentivo. Il motivo per cui mi sono sempre impegnato così tanto in quello che facevo non era per eguagliare mio padre, ma per riuscire ad arrivare a un livello abbastanza alto che mi garantisse degli orari che mi permettessero di restare a casa con te nel weekend e la notte».

«Ma non capisci che io avevo bisogno di te in quel momento?», gli chiesi, la voce che non faceva più nulla per nascondere i singhiozzi trattenuti. «Quando hai iniziato a lavorare così tanto io ti ho sostenuto, ma speravo che ci saresti comunque stato per me quando avevo bisogno». Sentii le lacrime scivolare lungo le mie guance, e le scacciai con un gesto nervoso della mano. «Invece sei sparito, ci vedevamo un paio di ore alla settimana, non parlavamo più, e le poche volte che dovevamo uscire ti presentavi con ore di ritardo», singhiozzai. «Anche il giorno del mio compleanno mi hai lasciata sola. Sono rimasta ad aspettarti per più di due ore al ristorante, e poi ti sei presentato a casa mia nel cuore della notte». Premetti i palmi sugli occhi, per cercare di impedire alle lacrime di continuare a scivolare lungo le mie guance. «Ti sei perfino dimenticato del mio compleanno per colpa del tuo lavoro».

Sentii le sue mani chiudersi intorno ai miei polsi, in una presa delicata che quasi tremava. Mi abbassò le mani dal viso, facendo incontrare i nostri occhi. Si era avvicinato, e solo pochi centimetri ci separavano.

«Mi dispiace», sussurrò Edward, con la voce spezzata, dopo diversi secondi, mentre cercavo ancora di fermare le lacrime che non volevano saperne di finire e avevano ripreso a scivolare senza impedimenti lungo le guance. «Non posso cambiare quello che ho fatto, e so di aver sbagliato nel peggiore dei modi. Ho dato per scontato troppe cose, anche te, e non potrò mai perdonarmelo. Ma farei qualsiasi cosa per poter sistemare le cose, e per aiutarti a dimenticare quello che è successo lo scorso anno».

Mi morsi il labbro inferiore con forza. «Se te ne andrai a Los Angeles come farai a sistemare le cose? Come-»

«Non me ne andrò mai, Bella», mi interruppe, tenendo i miei polsi stretti nelle sue mani. «Non lo farò se tu mi chiederai di restare».

Respirai profondamente, e chiusi gli occhi.

Lasciò andare i miei polsi e posò i palmi sulle mie guance, cancellando le scie delle lacrime, accarezzando la pelle con i polpastrelli. «Non voglio doverti lasciare di nuovo», sussurrò.

Nei suoi occhi vidi di nuovo quel dolore, quel sentimento che nemmeno io riuscivo a capire ma che mi stringeva il cuore in una morsa, togliendomi il fiato. Anche Edward stava soffrendo, anche lui aveva dovuto affrontare un anno difficile dopo la nostra separazione. Non potevo perdonarlo, non ancora, e forse mai avrei potuto farlo, ma sapevo che non potevo e non volevo continuare a pensare a ciò che era stato. I ricordi sarebbero per sempre rimasti con me, poco importava quanto cercassi di combatterli o scacciarli, loro sarebbero tornati a torturarmi; l’unica cosa da fare era accettare che le cose fossero andate così, e cercare di andare avanti. Ed Edward sembrava disposto a farlo. Sembrava deciso a porre rimedio al passato, ed io ero stanca di respingere lui e i miei sentimenti. Dopo la sera precedente, quando sotto l’effetto dell’alcol avevo ammesso più di quanto mi sarei mai permessa normalmente, non valeva più la pena fingere che tutto quello che provavo fosse solo un ricordo del passato.

Così mi sporsi verso di lui e allacciai le braccia intorno al suo collo, affondando il viso nella sua spalla, e lasciando che le sue mi stringessero come in passato, mentre le sue mani mi accarezzavano la schiena cercando di darmi conforto. Sentii il suo respiro fra i miei capelli, e il suo profumo invadermi le narici, così carico di ricordi che quasi mi sentii male.

Lasciai che le mie lacrime scendessero, mentre davanti a noi il sole tramontava, e intorno a noi scendeva l’oscurità.

 

Rimanemmo al parco fino a poco prima delle sette di sera, ovvero l’orario di chiusura. Se non fosse stato per l’aria fredda che iniziò a soffiare poco dopo il tramonto probabilmente saremmo rimasti lì fino a quando i ranger del parco non ci avrebbero trovati, costringendoci ad andarcene. Avvolta dall’oscurità, la foresta pietrificata era ancora più spaventosa di quanto lo era di giorno, alla luce del sole. Non c’erano né suoni né luci, in quel posto. Tutto sembrava immobile, disabitato.

Quando ci lasciammo l’ingresso del parco alle spalle tirai un sospiro di sollievo.

Edward ed io parlammo poco nel tragitto di quasi un’ora che ci condusse fino ad Holbrook, ma finalmente l’aria che si tornò a respirare nell’abitacolo era tranquilla e rilassata come prima dell’incontro con Jacob. Sentivo la testa leggera e al tempo stesso pesante a causa del pianto disperato dell’ora precedente, e avevo bisogno di recuperare le ore di sonno perse la notte prima a Canoncito.

Quando finalmente arrivammo ad Holbrook, il motel che era segnalato sull’itinerario non era esattamente come me lo aspettavo: una fila di finte tende indiane di diverse dimensioni circondavano un parcheggio, al cui ingresso si trovava un edificio che riportava l’insegna al neon del Wigwam Motel. Guardai Edward con le sopracciglia inarcate, e lui rise leggermente.

«Non ti eri chiesta cosa significa wigwam?», mi chiese, parcheggiando il furgoncino davanti alla lobby del motel.

«In effetti no», ammisi. Era stato lui a dirmi che il termine indicava in spagnolo e francese le tende indiane; fino a un attimo prima quel termine era sconosciuto per me.

Scesi con lui dall’auto, guardando con più attenzione le strane tende che dovrebbero essere delle normalissime camere di motel.

Edward mi sfiorò il braccio, attirando la mia attenzione. «Andiamo?»

Mi morsi il labbro, e prima che potesse andare avanti lo fermai tirandogli la manica della camicia. «Potremmo prendere una matrimoniale sola», dissi tutto d’un fiato. «Se per te non è un problema», aggiunsi subito dopo.

Era da quando eravamo partiti dal parco che ci stavo pensando: le nostre future tappe prevedevano un dispendio di soldi non irrilevante - soprattutto se avremmo dovuto raggiungere la riserva indiana a bordo di un elicottero - e avevamo già dormito due notti insieme da quando eravamo partiti - lasciando una camera vuota per una volta per di più -; sarebbe stato inutile e dispendioso continuare a dormire in camere separate quando potevamo restare insieme.

Edward aggrottò le sopracciglia, indeciso. «Per me non è un problema. Ma sei sicura che a te vada bene? Non mi sembra che stamattina fossi molto contenta di trovarmi nello stesso letto».

Arrossii, e abbassai lo sguardo. «Non mi ricordavo di averti chiesto di restare. Ero solo sorpresa, tutto qui. E non mi sembra di essere ubriaca adesso, no?»

Sorrise leggermente, alzando un angolo della bocca. «Non credo».

Rimase a guardarmi per alcuni secondi, forse per capire che fossi sicura di quello che gli avevo detto, poi si voltò, ed entrammo insieme nella lobby.

 

Appena misi piede nel piccolo wigwam che ci avrebbe ospitati per quella notte provai una vaga sensazione di claustrofobia. Era un ambiente piccolissimo, la cui base poligonale era divisa in tanti spicchi ai cui lati erano incastonati una televisione ed una sola finestra, più una porta che conduceva ad un bagno minuscolo. Il condizionatore era appeso al soffitto, e in un angolo c’erano una scrivania con uno specchio ed un piccolo armadio.

Fortunatamente era solo la sistemazione per una notte, o non credo che sarei riuscita a resistere a lungo in un ambiente così ristretto.

Edward ed io chiudemmo le valigie nell’armadio, cercando così di lasciare più spazio possibile nella stanza, e poi andammo a mangiare in uno dei pochi ristoranti della città.

Quando tornammo al motel, poco più di un’ora dopo, eravamo entrambi stanchi.

«Se ci fosse qui Jacob probabilmente ci trascinerebbe contro la nostra volontà in qualche pub a bere», scherzai, mentre Edward infilava la chiave nella serratura della porta.

Lo vidi aggrottare le sopracciglia, e mi fece entrare nella stanza. «Per fortuna l’abbiamo lasciato ad Albuquerque. Non credo che avrei retto un’altra serata a base di alcol».

Mi sedetti sul bordo del letto, sfilandomi le scarpe. «Eppure mi è sembrato che tenessi bene l’alcol. Se non ricordo male mi avevi detto di essere solo un po’ confuso anche dopo tutti quegli shot». Non ero certa che me l’avesse detto, i ricordi della sera precedente erano ancora un po’ confusi, sembravano venire da un sogno più che da fatti realmente accaduti.

Edward tirò fuori il suo borsone dall’armadio, appoggiandolo sulla scrivania per aprirlo. «Questo non significa che sarei riuscito a resistere a un altro giro di alcolici questa sera».

Annuii pensierosa. Mi ridestai dai miei pensieri solo quando Edward mi richiamò, e decisi di andare a fare una doccia, così da non avere bisogno di svegliarmi prima il mattino seguente per farla.

Quando uscii dal bagno, più rilassata di prima, mi infilai subito sotto le coperte, mentre Edward andava a farsi a sua volta la doccia. Rimasi sdraiata a guardare il soffitto, sentendo gli occhi pesanti ma non riuscendo ad addormentarmi. Mi sentivo nervosa al pensiero di dover condividere il letto con Edward, sebbene l’avessi già fatto per i due giorni precedenti.

Appena lo vidi uscire dal bagno, con indosso una maglietta bianca e un paio di boxer scuri, per poco non mi lasciai prendere dal panico. Mi imposi di rimanere immobile, e rimasi con gli occhi fissi sul soffitto mentre lui si infilava sotto le coperte al mio fianco.

«Vuoi che accenda la tv?», mi chiese, e la sua voce era più vicina di quanto mi aspettassi.

Lo guardai, trovando il suo viso sopra il mio, poco distante, illuminato solo dalla fioca luce dell’abat-jour, e distolsi lo sguardo, sentendomi arrossire.

Scossi il capo, e pochi secondi dopo la luce si spense, facendo calare nella camera l’ombra. Dalla piccola finestra, le cui tendine erano ben tirate, filtrava solo un filo di luce azzurra, che si estendeva lungo la parete fino ai piedi del letto, ma non illuminava null’altro che la piega fra il pavimento e il muro.

Sentii Edward muoversi al mio fianco e trattenni il respiro, in attesa di un accidentale contatto che non avvenne.

«Siamo ancora in tempo per chiedere un’altra stanza».

La sua voce arrivò vicino al mio orecchio sussurrata, ma ebbe l’effetto di farmi sussultare e quasi saltare sul letto.

Tirai le coperte fin sotto il mento, cercando di calmare il mio cuore impazzito.

«Non serve», replicai, e maledii la mia voce che tremò.

«Sei sicura di riuscire a dormire? Mi sembri agitata».

Mi irrigidii ancora di più. «Non sono agitata».

«Bella, riesco a sentire il tuo respiro, e non è quello di una persona tranquilla che sta per addormentarsi», sussurrò, e mi parve quasi divertito.

Mi diedi dell’idiota. Avevo dimenticato che Edward era sempre stato capace di leggere le mie emozioni in base al ritmo del mio respiro, ed essendo così vicini era ovvio che potesse sentirlo anche in quel momento.

Presi un profondo respiro e mi girai su un fianco, verso di lui. «È ingiusto che tu riesca a capire cosa sto provando anche senza vedermi», borbottai, sentendomi nuovamente come un libro aperto per lui.

«Credimi, non è sempre vantaggioso capire che cosa prova un’altra persona», mormorò lui in risposta.

Sbuffai. «Sarà anche così, ma io a volte darei qualsiasi cosa per capire cosa stai provando tu. Non riesco a leggerti come tu fai con me», ammisi, mordendomi il labbro inferiore.

Lo sentii muoversi leggermente. Quando parlò di nuovo sentii il suo respiro sul viso. «Puoi sempre chiedermelo».

Sentii le mie guance diventare più calde. «Che cosa provi adesso?», sussurrai, con il cuore che aveva ripreso la sua corsa forsennata nel petto.

Edward rimase in silenzio per quelli che mi sembrarono diversi minuti, ma che in realtà furono con ogni probabilità solo pochi secondi.

«Agitazione», rispose, e la sua voce era più roca di prima. «Desiderio. Vorrei poterti stringere come un tempo, e addormentarmi tenendoti fra le braccia».

Sentii la gola secca, e nonostante la ragione continuasse a urlarmi di porre subito fine a quella situazione voltandomi e dando le spalle ad Edward, strisciai sul materasso, fino a trovare con le gambe le sue e con le mani il suo petto. Spostai il capo sul suo cuscino, e sfiorai la punta del suo naso con la mia, unendo i nostri respiri.

Sotto il palmo della mano sentivo il suo cuore battere impazzito.

Lo sentii trattenere il respiro. «Adesso lo capisci?», sussurrò a pochi centimetri dalle mie labbra.

Rabbrividii. «Credo di sì», risposi sottovoce.

La sua mano trovò il mio polso, e lo strinse delicatamente. «Adesso dormiamo. Non vorrei fare qualcosa di stupido».

Feci un piccolo sorriso. «L’hai detto anche ieri sera, non è vero?»

Si allontanò, sdraiandosi con la schiena sul materasso. «Non è colpa mia se è due notti di seguito che cerchi di minare il mio autocontrollo», ribatté, sospirando pesantemente.

Rimasi immobile, con la testa ancora poggiata sul suo cuscino e a pochi centimetri da lui.

«Minerei il tuo autocontrollo se dormissi fra le tue braccia?», sussurrai, ignorando nuovamente la ragione che mi urlava di tornarmene dalla mia parte di letto e smetterla di attentare all’autocontrollo di Edward.

«Se ti comporti bene non credo», rispose, con una nota di divertimento e anche di preoccupazione nella sua voce.

Sentii il suo braccio alzarsi, come un invito ad avvicinarmi di più a lui. Strisciai al suo fianco, fino a posare il capo sul suo petto, sopra il suo cuore. Il suo braccio si richiuse intorno alla mia schiena, ancorando la mano sulla mia anca.

Respirò profondamente. «Buonanotte», sussurrò, nell’oscurità.

«‘Notte», risposi solamente, sentendo finalmente il sonno sopraggiungere.

Mi addormentai, lasciandomi cullare dal suo respiro e dal battito regolare del suo cuore.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

La mongolfiera quella su cui viaggiano Edward e Bella

Buongiornooo! :D

Come avrete capito questo è un capitolo di svolta. Finalmente vengono chiariti i dubbi riguardo la rottura fra Edward e Bella, e Jacob esce di scena (e dopo quello che ha detto immagino che sia meglio così, o sareste andate voi a ucciderlo di persona XD). Bella sembra iniziare a lasciarsi andare. Cosa succederà ora fra lei ed Edward?

Spero di riuscire ad essere puntuale con gli aggiornamenti anche nelle prossime settimane, purtroppo si avvicina un esame e dovrò cercare di passare più tempo possibile sui libri >.<

Grazie infinite a chi continua a recensire, e grazie anche ai lettori silenziosi :*****

Alla prossima settimana! :D

   
 
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