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Autore: cheedori    24/04/2012    6 recensioni
In caduta libera.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dominic Howard, Kate Hudson, Matthew Bellamy
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Meds

_everywhere there's rain, my love

everywhere there's fear.





*

Piove.
Beh, non è che sia proprio una sorpresa, in realtà. Questa è Londra, l’unica città al mondo dove le previsioni meteo sono più scontate delle fragole al Tesco - quando sono in offerta, ovviamente, altrimenti no, il mio bel paragone si risolve in un’affermazione priva di senso che però suona bene e venderà comunque perché io sono un fottuto genio, un figo della madonna e tu sei appena stato stregato dal mio fascino da cobra incantatore, har har.
No, non ci credo per davvero - neanche un poco, sul serio! - e anzi mi fa ridere e al contempo mi preoccupa che il mio esser ridicolo e totalmente inadeguato venga in genere interpretato dai media come una sorta di ribellione al pensiero comune - al fottuto sistema, no? Puttanate. Non mi piace che mi puntino contro una telecamera (ho una faccia strana, sono brutto), odio parlare di cosa mi passa per la testa quando compongo (niente?), non sopporto le domande del cazzo che alcuni giornalisti si ostinano a propormi (da “qual è il ruolo di Dio nella tua vita?” a “cos’hai mangiato a colazione?” - sul serio?), intervista dopo intervista - e quindi sì, continuo a dire in giro che voglio suonare sulla luna o che allevo pecore nel tempo libero, che la pasta al sugo mi fa piangere, che ammazzo polli nel mio giardino e che, cazzo, al prossimo live show avrò un ufo ancora più grande!, perché almeno questo darà loro qualcosa di cui parlare. Più o meno, perché poi se anche non hanno nulla di concreto per le mani, in realtà, le cartucce della stampa son sempre piene di inchiostro, e a scriver quattro cazzate non ci vuole certo un’arte; è il caso (recente, ahimè) dei giornali di gossip, quelle ridicole riviste sulle quali copertine capeggiano sparaflashanti titoli in fuxia: “Matt (quando azzeccano il nome giusto, perché ormai ho perso il conto delle volte in cui sono diventato Max, Marc o David) Bellamy: tenero amante o traditore incallito?” - e beh, allora no, neanche vale la pena d’addentrarsi in quella giungla senza munirsi prima di sciabola e katana, e la voglia d’armarmi contro dei moscerini, in tutta sincerità, devo averla lasciata da qualche parte insieme a quella di bere candeggina - o, tornando nell’immediato, quella di alzare il culo e andare a recuperare l’ombrello in macchina.
Sì, perché piove e ho l’ombrello, ma ripararsi è troppo mainstream per Matt Bellamy - noto rivoluzionario. Dunque mi bagno, e anche se non c’è neanche un filo di sole - né a dire il vero abbastanza luce da permettermi di leggere il mio libro - indosso comunque delle lenti scure (cerchiate di rosso, una figata assurda!) che nascondono la stanchezza e le occhiaie. Sono a Hyde Park, su una panchina poco distante da quella che una volta era la casa di Dom qui a Londra. Persone - tante, alcune vestite come si conviene ad un funerale (poveri sfigati, dev’esserci qualche ufficio qui vicino) e mamme che trascinano via bambini che palesemente non hanno alcuna intenzione di rinunciare alle meraviglie dello scivolo solo perché in questa cazzo di città, ripetiamolo tutti in coro, PIOVE SEMPRE -, continuano a sfilarmi davanti rivolgendomi occhiate perlopiù curiose; non credo che nessuno di loro mi abbia veramente riconosciuto come “Matt Bellamy, l’ammazza-polli che suona in quella band di sfigati” o tantomeno “Max Bellamy, quel topo che sta con Kate Hudson”, ma devo comunque essere uno spettacolo degno di nota, seduto qui come un coglione in occhiali da sole a gocciolare acqua dai capelli e poi dalla punta del naso, dritta sulle pagine del libro che sto facendo finta di leggere per darmi ancora una parvenza di dignità.
Una parte di me si sta effettivamente chiedendo cosa diavolo ci faccia qui, alle tre del pomeriggio, solo e triste come il giorno in cui sono nato. La verità? Non ne ho la più pallida idea.
Dovrei essere agli Studios; oggi avevamo una sessione e ieri sera ho detto a Chris che li avrei raggiunti, anche se in realtà l’ho fatto più per far sì che la smettesse di guardarmi neanche fossi merda sotto le sue scarpe quando sono tornato giù in sala con il nostro batterista (che aveva di suo già provveduto a rimproverarmi per la scenata a tavola con Kate tra un conato, una scusa e altre preghiere imbarazzanti, tra cui quella di tenergli la mano perché aveva paura di sporcarsela e gli faceva ‘cioè troppo schifo, Matt!’. Strano tipo, quel Dominic Howard). Kelly, poi, è stata anche più eloquente: “se Chris si fosse rivolto a me in quel modo, io l’avrei castrato con una pinzatrice” mi ha detto salutandomi, un bacio sulla guancia sinistra e poi su quella destra, le sopracciglia dislocate presso l’attaccatura dei capelli ma il sorriso saldo sulle labbra. A volte quella donna mi fa una paura fottuta - e dico sul serio. La coppia del buonsenso, ad ogni modo, era già lontana dal quartiere di Primrose Hill quando mi sono offerto di accompagnare Dom a casa; quindi, senza pensarci due volte, l’ho afferrato sotto braccio, ho attraversato il giardino, percorso 34 passi verso sinistra e aperto la porta di casa sua, scortandolo fino al piano di sopra e poi a letto, dove, dopo aver trascorso mezz’ora distesi a sparlare di Kelly e del mondo femminile in generale, ho deciso non fosse il caso di passare la notte - sebbene la prospettiva di portare avanti il nostro piano di conquista per un mondo di soli uomini fosse comunque piuttosto invitante.
Naturalmente, se la reazione dei coniugi Wolstenholme mi era parsa esagerata, non ero certo pronto alla dichiarazione di guerra attuata dalla mia donna: un post-it sul frigorifero, sotto alla foto di noi tre - io, lei e Dom - in Messico, il mese scorso.

“Le lenzuola pulite sono nell’armadio in corridoio.”


‘Spero che la pelle sintetica del divano nuovo cinga le tue palle in una morsa infernale e ti eviri nella maniera più lenta e dolorosa possibile - virgola - stronzo’ avrebbe potuto aggiungere, ma Kate ha classe, e tra i suoi molteplici talenti rientra quello di riuscire a concentrare una maledizione di livello avanzato come la presente in una semplice, insignificante letterina - poco più di uno scarabocchio, nell’angolino in fondo a destra, una ‘K’ che pesa come il giudizio universale.
In conclusione? Ho trascorso la notte in salotto, sì, ma per ripicca ho fatto fuori un’altra bottiglia di rosso e una busta intera di caramelle al mou, poi ho ho provato a realizzare degli uccellini in origami con gli involucri colorati, solo che ho fallito miseramente perché le mie capacità manuali, come risaputo, si limitano ad una sega - che stringa un cazzo o una chitarra, tra le dita, è poi in realtà del tutto irrilevante.
Quando mi sono svegliato stamattina sporgevo per metà dal divano, sul parquet, dove la mia faccia si premeva tra un peluche di Bingham (una rana gialla) e una caramella mezza masticata; gli scongiuri taciuti della mia donna erano ancora una volta stati assecondati da una sorta di deviata potenza celeste, a quanto pare, perché oltre al caldo boia alle parti basse, il formicolio nelle dita dei piedi e la sensazione di non possedere più una spina dorsale, mi ero ritrovato incapace di fare altro a parte fissare, a turno: la bottiglia vuota, il telecomando, il telefono e il neo che ho sul polso destro. Scegliendo di credere che la nausea che mi aveva colto all’improvviso fosse dovuta all’insostenibilità dell’essere e delle cose e non ai due litri abbondanti di vino che simpatizzavano col toffee e il resto della cena all’interno del mio organismo, non ho potuto fare a meno di notare comunque che c’era decisamente qualcosa di strano - fuori tono - nella scena di cui mi ritrovavo a far parte. Era vero, quello non era certo il mio lettone; il profumo di brioches e bacon era stato rimpiazzato dal fetore inumano dei miei piedi, e il tè, la mia fumante tazza di tè nero, con latte e due cucchiaini di zucchero... beh, al suo posto c’erano due dita di rosso che rotolavano sul fondo della bottiglia - ma no, non era nemmeno quello il problema. Si trattava di qualcosa di molto più sottile, come un patto segreto, un serpente che agisce silenzioso. A fornirmi una soluzione all’inganno di cui mi sentivo vittima, è stato infine Dom, facendo esplodere il mio iPhone in una serie di note stonate da qualche parte sul tappeto vicino ad un mezzo topo-uccello turchese.
“Cazzo vuoi.” ho mugugnato nel ricevitore.
“Buongiorno anche a te. Non so se te ne sei accorto, ma immaginavo fosse lo stesso il caso di avvisarti: un taxi ha appena rapito tuo figlio, la tua quasi-moglie, la baby-sitter e una trentina di valigie. Tu ci vai in bici in aeroporto?”
E certo, perché Kate ripartiva oggi e ha deciso di sparire con mio figlio senza neanche pensare di svegliarmi o quantomeno farmelo salutare - poi sarei io quello che non riesce a controllare le proprie reazioni, secondo Chris. Ebbene, lanciarsi in un inseguimento folle nella propria Mini, in pantofole e con una caramella ancora appiccicata alla guancia, in tale situazione, mi è parsa una risposta piuttosto appropriata al comportamento maturo e del tutto responsabile della mia donna. Almeno è quello che ho spiegato alla statale quando mi ha fermato per eccesso di velocità - ma devo avergli fatto abbastanza pena, perché si sono limitati a controllare velocemente i documenti e a farmi una multa, poi hanno permesso che ripartissi alla volta di Heathrow pigiando sull’acceleratore con più foga di prima.
Ho sempre odiato gli aeroporti - troppe persone, troppi controlli, troppo tutto.
Quando sono arrivato il tabellone delle partenze in fondo all’area privata del check-in segnava le 10:41. Poco più sotto, un’iscrizione in bianco su blu suggeriva che il tempo dei saluti fosse arrivato per i viaggiatori del volo VS023 diretto a Los Angeles - i quali, come gentilmente ricordava la voce dello speaker, erano attesi al gate 28B per l’imbarco. Che culo, insomma.
L’eroica impresa che mi ha visto protagonista questa mattina ha in effetti un che di Hollywoodiano; sono abbastanza sicuro che i giornaletti spaccia-pettegolezzi comincerebbero a prodursi da soli, se venissero a conoscenza di questa simpatica storiella. Ebbene: Kate ha già passato i controlli, quindi sono costretto a comprare un biglietto per il primo volo disponibile (Dubai) al fine di essere fisicamente in grado di vedere e salutare mio figlio; la mia solita sfiga vuole che al check-in l’aggeggio impazzisca del tutto, così perdo altri cinque minuti cercando di convincermi che non vale la pena di mandare a puttane tutto scappando dalla security; quando gli addetti ai controlli e alla sicurezza decidono finalmente che sono, dopotutto, innocuo, mi lancio in una corsa folle lungo metà del corridoio del Terminal 5 che si conclude con un assistente di volo che mi blocca al gate mentre tento di far segno a Kate - la vedo, la testa bionda e il fagotto che nasconde! - della mia presenza; annaspo, perché l’ossigeno che mi è rimasto nei polmoni non è abbastanza neanche per chiamarla, ma lei mi sente lo stesso, perché si gira e mi studia per qualche secondo, prima di decidere che sì, forse è il caso di avvicinarsi.
Per mia fortuna, l’esperienza da commediuccia per famiglie si conclude bruscamente prima che possa fare la figura dell’idiota romantico (in ginocchio a chiedere scusa brandendo dei fiori sbucati dal nulla, tipo), e più precisamente con me che prima inciampo, poi impreco ed infine le rantolo contro non più di quattro parole in fila, in realtà - qualcosa sulle righe di “Bing - partire - perché - svegliare”; un finale che comunque Kate sembra giudicare abbastanza appropriato, visto il modo in cui finalmente si sporge per permettermi di giocare un po’ col bambino e poi salutare entrambi con un bacio sulla guancia. “Ti mando un messaggio quando arrivo” (‘se non mi richiami immediatamente puoi dire addio ai tuoi privilegi da fidanzato - virgola - stronzo’) ha detto sistemando meglio il cappellino sulla testolina bionda nuovamente serrata da una trincea di coperte e copertine; e poi niente, si è imbarcata sventolando la mano con un sorriso plastico al mio indirizzo e niente più. Sono uscito dall’aeroporto scortato da un’assistente che continuava a ripetermi che c’era ancora tempo per raggiungere il gate riservato al mio volo (quello o ci stava provando, la tipa), e fuori in parcheggio ho trovato un’altra multa ad attendermi sul cruscotto, stavolta per divieto di sosta. Evviva.
Il volo di Kate atterra a Los Angeles tra dodici ore - nove adesso, se ho fatto bene i conti; la vera sfida consiste nel cercare di rimanere svegli e sobri abbastanza a lungo, specie considerando la scarsa quantità di ore di sonno accumulate nell’ultima settimana. Ecco perché sono seduto a vegetare su una panchina, bagnato fino al midollo, a far finta di leggere un libro peraltro noiosissimo: per riposare la mente e rinvigorire lo spirito. Forse.
In realtà c’è un altro tizio sotto alla pioggia insieme a me, ma lui sta facendo jogging ed è coperto da capo a piedi da una di quelle tutine neon aderenti che lo fanno assomigliare ad una sorta di catarifrangente mobile; una scelta affascinante, in realtà - e poi mi piacciono le sue scarpe (sono rosse, adesso voglio anch’io un paio di scarpe rosse). Più in là, verso i cespugli, c’è un povero disgraziato che porta a spasso un alano largo due volte me e alto almeno cinque. Alla vista del cane considero brevemente l’idea di chiamare Tom e chiedergli dove sia, se gli vada un caffè - poi rifletto che probabilmente è in studio a filmare con i ragazzi e che dovrei esserci anch’io, quindi decido di fare un colpo a Dom, che invece sarà sicuramente in ritardo e quindi ancora in giro. Come previsto, quando risponde dopo appena uno squillo, il mio batterista mi comunica per prima cosa che è ancora a casa.
“Sì, sì, sì, lo so, scusa, sto arrivando, lo giuro, infilo le scarpe e sono lì, un casino, la lavatrice...!”
“La lavatrice.”
“No, sì - erm. Si è rotta. Cioè, ha allagato tutto.”
“La lavatrice.”
“... eh.”
La risatina rilassata che mi lascio sfuggire rovina la parvenza di serietà e rimprovero che volevo dare alla telefonata - almeno inizialmente, per scherzo. Dom ride con me. Idiota.
“Tranquillo, neanche io sono agli Air.”
“Ah - ah! Bene! Chris sarà contentissimo!”
“Lascia perdere, guarda.”
Un tonfo, uno sbuffo e poi rumore di carta.
“Quindi non vai?”
Esito. Non vado?
“Nah.”
“Ok. Che fai allora?”
Non lo so.
“Non lo so.”
Suono di bicchieri che vengono posati su una superficie dura, tipo marmo. Un accendino che scatta e uno “puf!” dritto nel ricevitore. Sta fumando, ora.
“Fumi?”
C’è una pausa, come se Dom stesse pensando a cosa dire - a quanto potermi dire.
“Mhhhh.”
Erba.
“Scommetto che è erba.”
“Roba buona, Bells. Roba buona.”
Dio, quanto mi farei una canna in questo momento.
“Mi fa piacere constatare che siamo regrediti allo stato di liceale, Dommykins.”
“Smezzerei con te, Matty caro, ma sai com’è.”
“Sai com’è cosa?”
“Sei una persona seria, adesso. A proposito, sei riuscito a recuperare la tua famiglia di fuggiaschi poi, stamattina?”
“Una persona seria, infatti. Sì, sì, alla fine sì, ma ho rischiato seriamente di volare a Dubai.”
“A Dubai.”
“Dubai.”
“Che schifo Dubai.”
“Ma sì, è assai banale, in realtà, nella sua esagerazione. Come una bolla di platino pompato.”
“Amo quando inventi termini di paragone solo perché nella tua testa suonano bene.”
Come dicevo prima?
“Ma sta’ zitto. La lavatrice, Dom, seriamente?”
“... oh, senti, vaffanculo.”
Dom ride in quella maniera affezionata che riserva solo ed esclusivamente a me e che mi fa sentire la persona più speciale al mondo. So che è molto gay, ma è anche molto vero.
“Vieni da me. Poi usciamo e ti porto a mangiare fuori, dai.”
“Dammi il tem-”
Ma ha già attaccato, lo stronzo, ed io ho finalmente mosso il culo dalla panchina su cui sono stato seduto per più di due ore.

* * *

“È colpa tua,” inizio, adocchiando male il mio batterista. “È sempre colpa tua.”
Me ne sto rannicchiato in una delle sue poltrone preferite; è verde e blu con intarsi dorati e sembra un po’ un enorme pavone impagliato, ma è anche estremamente comoda. In realtà quest’affare è più mio che suo - l’ho comprata tre o quattro anni fa in una boutique d’antiquariato a Como e lui poi me l’ha fottuta con una scusa ridicola durante l’ultimo trasloco; in generale, è quella dove mi siedo sempre quando siamo qui a prendere il tè, quindi sì, è a tutti gli effetti la mia poltrona, solo che è anche accidentalmente finita nel salotto di casa sua. È la più bella della sala, insieme con quella rosa acceso, tipo fuxia, con la struttura in legno scuro - gliel’ho regalata io nello stesso periodo e lui l’ha scelta da subito come trono personale. Stanno l’una affianco all’altra, in mezzo ad altre quattro poltrone tutte diverse tra di loro per stile e colore, in una stanza piccola e buia che profuma di dolce e tè - sempre di tè. Il “salotto piccolo” (perché poi ce n’è uno più grande - enorme - al piano inferiore, dove Dom organizza le sue feste) è la stanza che preferisco di casa Howard, insieme con la terrazza della camera da letto - ma quella non è nemmeno una stanza, quindi suppongo che questa vinca tutto.
“Che colpa?”
La cosa bionda appoggiata alla sua seduta con la tipica nonchalance del predatore - sì, proprio Dom - non si è ancora lanciata all’attacco, nonostante io tenga i piedi sul suo prezioso tavolino. Riesco persino a stupirmi di avere ancora entrambi braccia e gambe, mentre ficco in bocca quello che deve essere il terzo brownie di fila.
“Questi maledetti - ” bofonchio, masticando a bocca aperta: “- cosi!
Dom mi guarda un po’ schifato, un po’ divertito, un po’ fatto.
“Che c’è, che hanno che non va?”
“Dimmelo tu, non riesco a smettere di mangiarli!”
Resto a guardarlo mentre si alza e ne recupera uno dal vassoio sul tavolino, poi lo divide proprio davanti ai miei occhi, offrendomene una metà. L’accetto.
“Da quanto tempo non ti facevi una canna?”
La risposta “tanto” ha quasi la stessa valenza di “troppo”, quindi assottiglio gli occhi e aspetto che la sua curiosità si cheti da sé. Dom sembra rifletterci per un po’, ma alla fine sta zitto e dà un morso alla sua parte tornando a sedere con le gambe penzoloni sui braccioli della sua poltrona e la testa sporta verso la mia.
“È solo fame chimica, Ciccio-Bells. Mangia e non pensare alla dieta.”
“Oh, ‘fanculo, pure tu con questa storia...”
“Che c’è, la tua donna ti affama?”
“Mrppf. No. Cioè, non proprio. Più che altro mira a farmi sentire in colpa, sai?”
“È una donna, Matt. È così che agiscono.”
“Dice, tipo - tipo che ho sempre l’affanno quando finiamo perché mangio troppa pasta.”
“Quando finite cosa?”
“Di scopare, Dom.”
Dom si agita a disagio per un paio di secondi, una smorfia di finto disgusto in volto.
“Errgh, non avevo davvero bisogno di saperlo, ma grazie lo stesso.”
“Quando vuoi.”
Entrambi mastichiamo in silenzio per qualche secondo, gustando a fondo il sapore ricco del cacao che esplode e permane a lungo sulla lingua. Quando Dom parla di nuovo, la sua voce è strana, come se si stesse strozzando con la sua stessa saliva.
“Fatti meno seghe, Matt.” dice, ed io ci metto un po’ a capire cosa intenda dire.
“E come si fa?”
“Tieni le mani lontane dall’uccello?”
“Scemo.”
Dom sorride con la lingua tra i denti, prima di tornare improvvisamente serio.
“Ehi, va tutto bene?”
Sì? No? Dovrebbe, ma in realtà no?
“Nottataccia.”
“Capito.”
Mi raddrizzo un po’ meglio mentre lui posa il pezzettino di dolce nuovamente sul vassoio, poi torna a stendersi con le gambe in bilico sulle mie, punzecchiandomi piano con il dito indice.
“La ciccia andrà via con il tour, Bells, vedrai.”
“Dici?”
“Ma sì, e tutti torneranno a minacciare di nutrirti con una flebo.”
“Bei tempi quelli.”
Dom corruccia le sopracciglia prima di distenderle di nuovo, insieme al resto del viso, in un sorriso che in realtà non somiglia per nulla a se stesso.
“Bei tempi, già,” inizia, piano: “se non contiamo tutte le volte in cui mi hai fatto cagare sotto dalla paura con le tue stronzate, Matt.”
Taccio. Sì, Dominic è una delle poche persone al mondo - l’unica oltre a mio padre, ma per motivi totalmente diversi - che riesca a mettermi a posto con una sola frase, e questo è uno di quei momenti in cui io resto a fissarmi le dita in silenzio mentre lui internamente si chiede se sia il caso di scusarsi o meno. A quanto pare lo è, perché presto una sua mano è sulla mia e la stringe, senza dire nulla perché entrambi sappiamo che non ce n'è bisogno.
C’è questa cosa, tra noi due, come una specie di patto taciuto che stabilisce che di alcune cose non si parli più - insieme ad altre mille clausole del tipo dire-fare che puntualmente vengono infrante quando alziamo troppo il gomito; una di queste è l’anno 2000.
Quando Dom parla di “stronzate”, non si riferisce a quelle a cui tutti noi e quelli attorno alla band abbiamo assistito o preso parte; quando dice che l’ho fatto cagare sotto dalla paura, non intende ricordare la sera in cui mi hanno minacciato e poi derubato del tourbus per un debito che avevo con un paio di strozzini di Exeter; quando Dom ripete che quelli erano bei tempi, lo fa solo per farmi pesare la bugia, mentendo a sua volta.
Ci sono cose che restano e resteranno solo tra noi due: sono i tagli sulle mie braccia e le magliette a cui tiravo giù le maniche tra le dita fino a deformarle per nasconderli; sono le volte in cui mi affamavo per giorni e poi giacevo svenuto nella mia camera d’albergo fino a quando non arrivava lui con la chiave di riserva ed un panino al tonno; sono le notti trascorse schiacciati in due in una sola cuccetta, sono i giorni in cui sparivo senza dire nulla e il modo in cui lui mi chiamava “stupido coglione” quando mi ritrovava, tremante per lo spavento e la rabbia. Sono tutte le fottute volte in cui Dom e solo Dom non solo ha teso una mano, ma si è calato giù con una corda e ha assicurato la mia vita ad un gancio mentre mi tirava fuori da un baratro mai pienamente compreso. Non è detto che ne sia mai uscito, in realtà - non è possibile semplicemente ‘smettere’ di essere depressi, per quanto ci provi - ma lui è sempre stato lì con me, pronto a far tentennare la fune in caso di necessità, senza aspettarsi mai un “grazie” se non un “vaffanculo”.
Gaia una volta mi disse (e doveva essere piuttosto sconvolta, perché io ero ubriaco e ricordo anche che le risi in faccia) che era sua convinzione che Dominic fosse innamorato di me; qualche mese dopo ci siamo lasciati per un motivo assolutamente idiota (un video di me che ‘ballavo’ con una in un club di Manhattan), una cosa così stupida, così assurda (nemmeno me l’ero scopata!), che crederci mi risulta ancora difficile anche dopo tutto questo tempo.
Anzi, una parte di me pensa che le due cose - Dom e la gelosia - fossero in realtà correlate, che quella del video sia stata solo la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso, perché era da tempo che tra di noi le cose andavano male.
“Ehi.”
Facevamo proprio schifo come coppia, io e Gaia.
“Matt?”
Ma almeno ero innamorato di lei.
“Scusa, ero distratto.”
Dom mi sta fissando, un’unghia che gratta l’interno del mio palmo sinistro, leggera. Fa il solletico, ma non gli dico di smetterla.
“Ordiniamo qualcosa qui e poi usciamo a bere, ti va?” propongo, più per spezzare il silenzio che altro. Lui si ferma e non mi risponde, studiando invece ancora per qualche secondo un punto imprecisato sulla mia faccia. È allora che mi sovviene l’idea che magari non abbia voglia di passare la serata con me, perché Dom ultimamente è un po’ così - mi evita volentieri, diciamo, quando può.
“Cioè - se ti va, intendo. Non volevo dire che - tu oggi hai detto... però se hai altri programmi, insomma, dimmelo, non farti problemi, io -”
“Thai? Anzi, ti va bene anche il cinese? Ho voglia di Chiao-tzu.”
Mentre parla, Dom si alza per recuperare il telefono dal tavolino, ma non molla la presa sulla mano, tirandola invece per farmi segno di allungarmi con lui.
“Poi dopo ti porto in un posto carino, un bar appena fuori dal centro.” Dice, sventolando la mano in una direzione immaginaria. “C’è sempre qualche band che suona e tanto buon vino, ti piacerà.”
L’idea di uscire e distrarmi un po’ non mi dispiace, anzi; in momenti come questo credo sia fortemente necessario, perciò annuisco con convinzione alla proposta e stringo di più le sue dita tra le mie quando si risiede sulle mie ginocchia, già al telefono per l’ordinazione.
“Voglio anch’io i ravioli! E poi il riso alla cantonese, il pollo alle mandorle, gli involtini e il gelato...”
Dominic allarga sempre la bocca più che può quando sorride.

* * *

“Vado a prendere da bere e torno!”
Quella è stata l’ultima frase che gli ho sentito dire prima di ritrovarmi abbandonato in compagnia di una vaschetta di arachidi troppo salate e dei salatini ammuffiti al bacon. Sono passati almeno 30 minuti ed io non vedo Dom da nessuna parte. Quando la musica cambia ancora una volta da un ritmo soft-pop ad una serie di rutti rimasterizzati da qualche testa di cazzo che gioca a fare il DJ (e la spacciano per elettronica, dico), decido che ne ho avuto abbastanza e mi lancio alla sua ricerca, dirigendomi direttamente verso il bar. Una parte di me si aspetta di trovarlo nella posizione dell’iguana rovesciato, disteso su tre quarti del bancone mentre cerca di attaccare bottone con Miss Guarda-Che-Tette o Guarda-Che-Culo, ma così non è. In realtà, Dom non è neanche tra la gente in fila per i propri drinks, o tra i cumuletti fermi a chiacchierare nell’area immediatamente prima ed io devo sembrare proprio una mamma chioccia mentre allungo il collo alla ricerca della sua testolina bionda tra la folla di persone presente nel locale.
“Matt? Matthew Bellamy?
Ohcristosignorenononotipregononononotipregocosahofattodimaleno-
“Erm - err. Sì?”
Tizia-Che-Sa-Il-Mio-Nome ha già una mano sul mio braccio mentre miagola una scusa in un inglese improvvisato.
“Sono ici pour la band, loro miei... amisci?”
“Oh, erm. Bello, sì, anch’io.” mento, voltandomi verso di lei e... oh, porca puttana.
“Sei solo?”
La ragazza che mi ritrovo davanti è molto bella. Tipo, davvero molto bella. Ha un’aspetto mediterraneo - dev’essere francese, a giudicare dall’accento.
Indossa poco trucco, e ciò me la fa piacere ancora di più.
“Sono con... erm. Un mio amico, ma -”
“Lo so? Dominic è andato avec Thierry, ha detto che dovevano... parlare.”
Chi cazzo è Thierry?!
“... Thierry?”
“Lui è un ami de Dominic, suona nella band.”
Quindi Dom mi ha mollato per le sue public relations. Il solito - bello stronzo.
“Se torna gli dici che -”
Moi, je suis Cécile.
Ah.
“Oh. Er - je... Mathieu?”
Con un brivido mi accorgo che la mano che era sul mio braccio si è spostata sulla mia spalla, e che la bella francese mi sta usando come appoggio per ballare. Trascorriamo un po’ di tempo così, qualche minuto o forse di più, semplicemente muovendoci con la musica (questo è ancora l’effetto dell’erba) e scambiando qualche parola di tanto in tanto. È un via-vai di shots, dalle nostre parti - offerti dalla band, a quanto pare - e il passo dall’essere semplicemente brillo a completamente ubriaco è più breve della gamba.
“Sei una groupie, non è vero?”
Cécile sorride eloquente scostandosi una ciocca dal viso.
In quel momento smetto di pensare.
“Posso offrirti ancora qualcosa da bere?”
Cosa sto facendo.
“Mmh, pensavo ad un’altra chose...”
“Sentiamo, allora - come posso aiutarti?”
“Vieni con moi?
Ha gli occhi come l’oro, Cécile, e i capelli del colore della terra; la sua pelle è chiara ma lievemente abbronzata sul viso, e un polso delicato sbatte contro il mio prima di afferrarlo e tirarmi con sé verso la fine del corridoio del bar, nelle toilettes degli uomini.
Non ho neanche il tempo di abituarmi al suono del suo nome sulla lingua, perché la sua bocca trova subito la mia, mentre occhi e mani vanno alla ricerca un cubicolo libero. Infine ci rinuncia, decidendo invece di farsi leva sui miei fianchi e salire su uno dei lavandini allineati contro lo specchio, le gambe allargate ad accogliermi nel mezzo - dita che già hanno trovato la zip dei miei pantaloni e tirano giù insistenti. In un attimo sposto quella patetica imitazione di gonna e le sfilo il perizoma di pizzo, toccandola con insistenza dove le cosce si dividono, preparandomi a prenderla senza troppi indugi... ma poi qualcosa deve andare storto, perché inizia ad agitarsi e a dire cose che non capisco nella sua fottuta lingua.
“Non senza - sans préservatif! Muovi via!”
Il preservativo?
“Andiamo, bellezza, sono pulito...”
Non! Non! Qu’est-ce que tu fais?!
“MATT!”
Sono ubriaco. Sono davvero molto ubriaco e probabilmente anche estremamente ridicolo in questo momento - chiappe all’aria in un bagno pubblico - ma riconosco comunque la voce che mi chiama, e le mani che mi afferrano e mi portano lontano dal calore delle cosce di Cécile, dritto sul pavimento sporco.
“Cécile, qu’est-ce qu’il y a?”
Voci concitate in francese riempono la piccola sala, mentre Dom si avvicina e mi strattona senza troppe cerimonie, facendomi segno di tirarmi su i pantaloni ed uscire immediatamente dal bagno, in silenzio.
“È lui, non è vero?”
“Thierry, per favore.”
Un uomo scuro in volto e alto almeno due me messi l’uno sull’altro ci squadra con uno sguardo indecifrabile - prima Dom, poi me e poi ancora Dom, fissandosi lì.
“Guardala, guarda la nostra Cécile, Dom. Sta tremando.”
Cécile non sta affatto tremando, noto. La stronza anzi sorride, allargando di più le gambe.
“Sono sicuro che starà bene. Matthew, tu vai in macchina.”
L’uomo francese - Thierry - caccia fuori una risata divertita, mentre torna a guardarmi.
“Ma no, può restare anche lui. Sentiamo...”
“Non t’azzardare, non ci provare neanche Thierry, non -”
“Il tuo amico è grande abbastanza per sapere che il mondo non è tutto rose e pompini, non?
A questo punto Dom mi sposta e prende ad urlare frasi in un francese che non riesco a capire, ma io ancora non mi muovo; non è che sia scemo o abbia troppa paura in questo momento - certo, sono piccolo, molliccio ed ubriaco e Thierry è grosso il doppio di me - ma c’è qualcosa nell’aria che mi suggerisce di restare zitto, per una buona volta. È il modo in cui il mio migliore amico mi vuole fuori di qui - fuori dalla questione - prima che possa comprendere cosa stia succedendo: è quello che mi fa rimanere inchiodato dove sono, lo sguardo fisso sulla scena davanti a me.
“Vuoi sapere che ci faceva Dominic qui con me, non è vero?”
Per quanto Dom si sforzi di parlare nel suo francese storpiato, comunque, Thierry pensa bene di ignorarlo continuando a rivolgersi a me in un inglese perfettamente comprensibile.
“Il nostro amico - Dominic” e lo dice calcando quello stupido accento sul suo nome. “vedi, io gli ho fatto un favore, e adesso lui mi deve qualcosa in cambio. Semplice, non?
Annuisco una volta, voltandomi a guardare Dom. Thierry lo tiene per un braccio, stringendo la pelle attorno all’osso tanto forte da lasciare un alone bianco attorno alla presa.
Sono abbastanza sicuro che gli stia facendo male.
“Vedi, mi ha detto che stasera aveva ‘altri impegni’ e di ‘togliermi dalle palle’. Scortese da parte sua, non trovi?”
Annuisco ancora, perché non so cos’altro fare.
“Tu li sai succhiare i cazzi, Mathieu?”
Cécile approfitta di quel momento per scendere dal suo trono di porcellana e infilarsi le scarpe, sussurrando qualcosa nell’orecchio di Thierry prima di uscire. Dom sta tremando, e per la prima volta da quando ho cominciato a rendermi conto di cosa sta accadendo, capisco che ha paura.
E capisco anche perché.
“Quanto vuoi?”
La domanda lascia le mie labbra prima che mi accorga di averla formulata, e una mano è già nella giacca alla ricerca del portafogli. La cosa diverte Thierry al punto che lascia andare Dom per mettersi a ridere, lanciandolo nella mia direzione.
“È proprio divertente il tuo amico.” dice, mentre apre un rubinetto e si spruzza un po’ d’acqua sul volto. “Prima fa il porco con Cécile e poi fa tanto il prezioso per un cazzo in bocca.”
È solo dopo essersi asciugato con cura le mani sotto l’apposito erogatore d’aria calda che Thierry lascia cadere una bustina a terra, proprio ai miei piedi.
La semaine prochaine, Dominic.
Tutto ciò che riesco a sentire per qualche minuto dopo - oltre ai suoi passi che si allontanano - sono i respiri profondi di Dom al mio fianco; il bianco nel pacchetto perde d’importanza di fronte al modo in cui gli tremano le gambe e quasi non riesce a stare in piedi. Non ci penso due volte prima di avvolgergli un braccio attorno alle spalle e guidarlo verso l’uscita, verso l’auto, verso casa.

* * *

Kate mi ha mandato un messaggio due ore fa, comunicandomi brevemente di essere atterrata. Ho detto a Dom di prendere il mio telefono e scrivere invece a mia madre, dicendole di lasciare le chiavi della nostra vecchia casa nel vaso delle ortensie vicino alle scale.
Radio1 passa una vecchia canzone di Tim Buckley mentre parcheggio nel vialetto di fronte alla rimessa. Aspetto che finisca prima di spegnere il motore, continuando a cantarla per un po’ nella mia testa.

Piove, nel Devon.





Allora (60 minuti).
Brevi note necessarie su questo capitolo - tipo le traduzioni di tutta quella roba in francese per quelli che non masticano lumache:

Ici pour : qui per;
Avec: con;
Moi, je suis Cécile: io sono Cecilia;
Chose: cosa;
Moi: me;
Sans préservatif: senza preservativo (poi un giorno vi racconterò di come sia finita su milioni di siti francesi sui metodi di contraccezione);
Non! Non! Qu’est-ce que tu fais?!: No! No! Che stai facendo?!
Cécile, qu’est-ce qu’il y a?: Cecilia, che succede?
La semaine prochaine: La settimana prossima

Non c'è molto da dire, in realtà - o forse troppo. Nel senso che boh, i personaggi stanno assumendo uno spessore e qualcosa che somiglia ad un plot comincia a farsi vedere, anche se andiamo in direzione totalmente opposta alle puccioserie romantiche. Perché, vi avevo dato l'impressione che potesse esserci qualcosa di lindo e love-love - a parte il Bing, ovviamente, al quale va tutto il mio ammore di zia adottiva - in questa storia? HAH, illusi.
Bon, chiudi qui ché stasera non è proprio il caso di stare qui a pettinare le bambole... ringrazio come al solito chiunque legga, favorisca e commenti questa storia, oltre alle magnifiche nainai, Leni e Stregatta che mi sopportano ancora nonostante io inizi a somigliare davvero al caro Mecciu. Motor-mouth e lagnosità generale, intendo - oltre al fatto che la scena iniziale di lui sotto alla pioggia in un parco è totalmente autoreferenziale. XD

In omaggio, la canzone che Radio1, bastarda, decide di passare nei momenti meno opportuni, nonché la stessa che dà l'incipit musicale al capitolo (http://www.youtube.com/watch?v=9UusLG4lasI)
Baci e spremute,

S.


  
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