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Autore: OtoyaIttoki    25/04/2012    3 recensioni
La figlia di un temibile serial killer e il figlio del più grande detective del mondo si incontrano fortuitamente all'insaputa dei propri padri, innescando così uno strano "gioco" del destino. A cosa porterà tutto questo?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Beyond Birthday, Naomi Misora, Near, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Orsacchiotto.

Sospirai.

Tutto sommato l’incontro con quella ragazza era stata una delle cose migliori che mi erano capitate nell’ultimo periodo.

Trovavo faticoso alzarmi ogni giorno e indossare la solita maschera che ti condiziona totalmente la vita.

Vieni bidonato dai tuoi amici? Sorridi e porgi l’altra guancia.

Vieni deriso e umiliato? Sorridi e porgi l’altra guancia.

Vieni…ignorato da tuo padre? Sorridi e…

No, non ce la facevo più. Io desideravo, come tutti i figli, l’attenzione di mio padre.

Dopotutto era un mio diritto, no?

Io stimo mio padre, ma sono convinto che la cosa non sia reciproca. E’ sempre stato un tipo piuttosto restio a mostrare apertamente le proprie emozioni, però speravo che almeno con il proprio figlio smettesse di essere il terzo L, e si comportasse semplicemente da papà. Al contrario, è sempre stato distante, lontano.

Irraggiungibile, come la cima di una montagna difficile da scalare.

In fondo, io e lui siamo uguali (e non mi sto riferendo solo all’aspetto fisico): entrambi salviamo le persone, anche se in modo diverso. Lui è un famoso detective, la cui identità è protetta da uno pseudonimo, e tramite le sue strabilianti capacità deduttive riesce a risolvere anche i casi più complessi. Io, invece, aspiro a diventare un brillante medico nell’ospedale in cui pratico il tirocinio. Tuttavia, non ho mai voluto essere come quei medici finti che compaiono nei telefilm: belli ma superficiali, e con una lista di amanti lunga quanto un’autostrada.

Ecco, io vorrei rimanere me stesso, anche se tutti sostengono che questo sarà impossibile.

Dicono che prima o poi mi farò corrompere anche io dal dio denaro e che commetterò qualche azione sporca per emergere professionalmente.

Onestamente non so come andrà a finire, ma devo ammettere che le soddisfazioni migliori le ho ricevute proprio dal mio lavoro.

Un lavoro a cui ora mi aggrappo strenuamente, proprio come un paziente che lotta tra la vita e la morte.

Perché, a parte quello, non ho nient’altro.

Nessun’altro.

Sarò sincero: inizialmente, mi sono iscritto alla facoltà di medicina per dimostrare a mio padre che anche io ero in grado di  combinare qualcosa di buono nella vita.

Credo che inconsciamente l’ho fatto per farlo sentire fiero di me.

Per essere lusingato e lodato da lui.

Volevo fargli capire che la mia imperfezione non era un difetto.

Volevo fargli capire che, benché fossi totalmente diverso da mio fratello, anche io meritavo una possibilità.

La possibilità di parlargli, di stargli accanto.

Ma lui mi ha negato anche questo.

Da quando mia madre è venuta a mancare qualche anno fa, si è rinchiuso nella sua stanza, nel suo perenne mutismo e da lì esce raramente.

Diciamo che è sempre stato un solitario, ma ho notato che da quel particolare evento, questa sua attitudine è nettamente peggiorata.

Sono dell’opinione che il silenzio e l’indifferenza siano molto più “dolorosi” di un pugno, perché feriscono l’anima, il nostro essere.

Tra me e lui si è creato una sorta di muro, rappresentato fisicamente da una porta e “idealmente” dal suo “rifiuto” verso il mondo esterno, e quindi indirettamente anche verso di me.

Mi sono sempre chiesto cosa non andasse in me, se gli desse fastidio il fatto che avessi ereditato da mia madre il suo carattere ingenuo e sbadato.

Se assomigliassi troppo a lei.

Oppure, semplicemente, provava una sorta di rimorso per non aver potuto evitare la morte di sua moglie?

No, doveva esserci un’altra ragione.

Sì, perché Nate River è sinonimo di logica.

Peccato che con quella stessa logica avesse fatto terra bruciata intorno a sé.

Quando dobbiamo comunicare ci serviamo di mio fratello che è l’unico, oltre agli stretti collaboratori di mio padre, a poter accedere alla sua stanza.

Lo ammetto, un po’ lo invidio per questo.

Lui ha ereditato la genialità e il modo di fare di mio padre e io mi sono sempre sentito inferiore a lui, inadeguato, nonostante fossi io il più grande.

In pratica, non sapevo niente di lui, tralasciando la sua pagella scolastica, dato che toccava a me andare ai colloqui con i professori.

Decisamente squallida come cosa.

Spesso e volentieri, prima di coricarmi, mi sono chiesto se importasse solo a me della nostra famiglia.

Se valeva davvero la pena preoccuparsi per questa situazione.

Mi sentivo un po’ come un clown che cerca di attirare l’attenzione della folla.

Probabilmente ero solamente un patetico clown.

Mi mancava mia madre che, con la sua spontaneità e la sua sferzante allegria, era una fonte inesauribile di ottimismo.

Come avrà fatto a stare con un musone come mio padre? Avranno stabilito qualche compromesso?

Esisteva una persona capace come lei di rassicurarmi, di dirmi che si sarebbe risolto tutto?

Le ragazze con cui ero stato fino a quel momento erano interessate solo al mio aspetto fisico e al mio carattere troppo permissivo per comprendermi veramente.

I miei amici sostengono che io sia uno “stupido idealista romantico”, convinto dell’esistenza del vero amore, e che a ventitré anni ero, sotto certi aspetti, ancora infantile.

Non ho mai creduto nell’amore perfetto, però suppongo che da qualche parte nel mondo, o chissà magari proprio a Tokyo, ci sia una donna disposta a “sopportarmi”.

Una donna capace di valorizzarmi e di apprezzare la mia franchezza.

Lo ammetto, spesso capita che non riesco a tenere a freno la mia lingua e che dica la prima sciocchezza che mi passa per la testa.

Può darsi che la parola “stranezza” fosse un tratto comune della mia famiglia.

Ciò nonostante, arrivai alla conclusione che deprimermi non sarebbe servito a niente, solo a rodermi il fegato e a riempirmi il cervello di inutili paranoie.

Dovevo reagire e cambiare le cose.

Forse se gli fossi andato incontro, prima o poi mio fratello e mio padre avrebbero apprezzato i miei sforzi; fortunatamente la buona volontà non mi è mai mancata e prima di arrendermi volevo tentare l’impossibile.

E quella stessa mattina avevo ricevuto la mia prima soddisfazione personale.

Mio fratello Ate stava uscendo dalla camera di nostro padre, tenendo tra le mani un vassoio e una tazzina vuota. Solitamente ci dividevamo i compiti, improvvisandoci cuochi o dedicandoci alle faccende domestiche con risultati talvolta disastrosi.

Sia io che Ate eravamo dovuti crescere in fretta.

«Vado a scuola. Mi ha detto di augurarti buona giornata.» sentenziò mio fratello senza particolari inflessioni nella voce, dirigendosi prima in cucina e poi verso la porta con la cartella sulle spalle.

«Grazie, portavoce.» cinguettai ironicamente, mentre frugavo nella mia tasca e allungavo qualcosa verso di lui.

«E’ un portafortuna, l’ho comprato in un tempio shintoista. So che sabato avrai un concorso di pianoforte, verrò senz’altro a vederti.»

Ate mi lanciò un’occhiata perplessa: sicuramente stava pensando che fossi un idiota, però fu lui a sorprendermi maggiormente, accettando il mio amuleto.

«Fa’ come ti pare.» detto questo, se ne andò e io esultai euforico.

Che stessi iniziando a guadagnarmi la sua fiducia? Ci tenevo davvero tanto a costruire un rapporto con mio fratello che aveva sempre giudicato male il mio essere protettivo nei suoi confronti. Grazie al suo aiuto, avrei potuto parlare anche con mio padre.

«Meglio non fantasticare troppo, adesso è meglio che mi sbrighi o arriverò tardi al lavoro.»

 

                                                                       ~

 

«Ehi, va tutto bene?» le domandai, preoccupandomi per la sua reazione. Era diventata rigida come il marmo tutto ad un tratto e la sentii appoggiarsi a me.

Era la prima volta che qualcuno mi chiedeva aiuto e mi sentivo un po’ impacciato.

«Portami all’ospedale, ti prego.» sussurrò debolmente, socchiudendo gli occhi.

Essendo una metropoli, Tokyo vantava diversi ospedali e non sapevo dove volesse essere accompagnata lei.

« In quale ospedale vuoi andare? Dimmi almeno come ti chiami.» la esortai, appoggiandole le mani sulle spalle. La guardai negli occhi, incurante del loro colore rosso rubino, e accorgendomi solo in quell’istante del fatto che fosse sotto shock.

Cercai di rimanere lucido e di non comportarmi da semplice passante, bensì da medico.

«Al Tokyo International Hospital o qualcosa del genere. Mi chiamo Miho, Miho Misora.»

Conoscevo bene quel posto, dato che ci lavoravo. Senza perdere altro tempo, chiamai un taxi e in venti minuti (il traffico dell’ora di punta non perdona), giungemmo a destinazione. La porta scorrevole si aprì automaticamente al nostro passaggio, mentre le nostre narici vennero stuzzicate dall’odore di disinfettante che si respira in ogni ospedale.

Oltre a questo anche la sofferenza e il dolore erano facilmente palpabili.

Io, ormai, ne ero assuefatto, invece Miho storse leggermente il naso. Si fermò alla reception, dove c’era sempre un via vai di dottori e infermiere, e chiese qualcosa alla segretaria.

«La camera mortuaria è al piano inferiore.» le rispose l’impiegata con fare professionale, indicandole poi la direzione da prendere.

Dovevo chiederle cos’era successo o dovevo starmene zitto?

Dubbio amletico.

«Una mia amica è stata trovata morta nel suo appartamento, in circostanze ancora misteriose.» fu lei a rompere il silenzio e io gliene fui infinitamente grato. Prendere l’iniziativa non era mai stato facile per me, soprattutto in situazioni estremamente delicate.

«Mi dispiace.»

Cos’altro potevo dirle per consolarla? Dopotutto ci eravamo conosciuti da poco e non sapevo minimamente come comportarmi con lei. Miho chinò il capo in segno di ringraziamento, ma non si azzardò a parlare, persa com’era nel suo mondo.

 Le scale mi sembravano infinite, come se le avessi ripercorse in continuazione, fino a quando non arrivai davanti al timbratore.

«Precedimi pure, devi svoltare a destra. Sarò da te in un attimo.» mi accomiatai da lei per qualche attimo, staccando il badge che avevo attaccato al camice e passandolo la banda magnetica nel timbratore.

Solo in quel frangente mi accorsi di una cosa.

Pareva quasi che fossi il protagonista di un thriller che scopre un indizio di vitale importanza.

«Sul mio cartellino non è segnato il mio nome…come avrà fatto ad indovinarlo?»

 

                                                                         ~

 

Nel frattempo Miho giunse in prossimità della camera mortuaria, notando una piccola folla riunita intorno ai genitori di Emiko, la sua amica defunta.

Preferì rimanere in disparte e attendere il momento giusto per avvicinarsi, quando una voce, per lei sgradevole, la chiamò all’improvviso.

«Miho-san, è da un sacco che non ci vediamo.»

Raye Penber, uno degli investigatori a capo della squadra omicidi, si era appena materializzato davanti a lei.

 

 

 

Ringraziamenti et similia:

Volevo ringraziare chi ha recensito la mia storia, chi l’ha messa in una delle tre liste e chi ha letto soltanto: grazie per avermi dedicato un po’ del vostro tempo.

Lo stile e la grammatica sono molto importanti, tuttavia sarei ancora più felice se riuscissi nell’intento di dare una buona caratterizzazione ai miei personaggi, di renderli in qualche modo “veri”.

Forse pecco di presunzione, ma mi piacerebbe farveli amare così come li amo io.

Per concludere, cercherò di  aggiornare una volta a settimana e mi auguro di migliorare sempre di più.

Stay tuned!

OtoyaIttoki

 

  
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