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Autore: martinaburton    27/04/2012    0 recensioni
La Crisi ha messo in ginocchio l'intero paese e Ania deve cercare di mantenere la sua famiglia, nonna , fratello, e gatto. Questo è solo l'inizio, il primo capitolo, e lei non conosce ancora i fatti che presto sconvolgeranno la sua vita, tra mondi paralleli e porte spazio temporali.
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Camminare nella pioggia mi è sempre piaciuto, fin da quando ero bambina. L'asfalto ha un odore particolare quando piove. Le gocce, grosse e tiepide, mi schiaffeggiavano il viso. cominciavo a sentire i capelli bagnati e pesanti appiccicarsi alla fronte. Senza dubbio è una sensazione spiacevole per molti, ma per me no. Per me era vita, energia, adrenalina. La terra che tornava a pulsare, i colori che si facevano saturi. Acqua che cade, fiumi che si ingrossano, tombini che gorgheggiano. Aumentai il passo. Per quanto mi piacesse stare in giro, stavo facendo tardi all'appuntamento. Quando entrai nella saletta stretta e umida fui colta da un improvviso senso di desolazione: tutte quelle facce spente, l'odore di muffa e la carta da parati verde scuro mi fecero venire un senso di vuoto dietro lo sterno. Per un momento pensai di andarmene. Ma non potevo, o meglio, non sarei mai riuscita ad essere così vile e fuggire a gambe levate, non era da me. Perciò mi misi seduta su una scomoda sedia di plastica marrone e aspettai. Quando chiamarono il mio nome ero quasi riuscita a imbambolarmi osservando le gocce di pioggia alla finestra , quindi sobbalzai. Bell'inizio. Entrai nello stanzino. Mi sorprese trovarlo piuttosto luminoso, e pulito. A una massiccia scrivania di mogano sedeva un uomo sulla cinquantina, bello, oserei dire. Ostentava un'espressione seria e professionale. Pensai a mio padre, ai suoi lunghi pomeriggi passati a lavorare nell'ufficio accanto a camera mia, e a quando, dopo la sua morte, mi rifugiavo in quell'ufficio a piangere mentre sprofondavo nella nostalgia e nell'odore dei suoi sigari e del suo dopobarba. Un colpetto di tosse richiamò la mia attenzione. < Ania, giusto? > < si, sono io >. Ero lì per ottenere dei soldi, una specie di sussidio per noi poveracci di periferia. Da quando la Crisi aveva messo in ginocchio l'intero stato le famiglie come la nostra, prive di un capofamiglia, avevano dovuto arrangiarsi alla bell'e meglio, tra un sussidio e l'altro, con la costante preoccupazione di non riuscire ad arrivare a fine mese con del cibo in pancia e un letto in cui dormire. Ci eravamo tenuti alla larga dagli usurai, gentaglia priva di morale. Ora, però, con la stagione fredda in arrivo il nostro orto aveva cominciato a inaridire e così eccomi lì, in un vecchio ufficio, a sperare di ottenere un po' di denaro in più. Non è mai facile dover ammettere di essere indigenti e dimostrarlo sfoggiando vestiti rattoppati e scarpe consunte. In un certo senso però mi ero abituata. Quando si hanno una nonna e un fratello minore da tenere in vita mettere da parte l'orgoglio è l'ultimo dei problemi. < Vediamo di fare in fretta, ho tanti altre persone da vedere oggi > < Ma certo > < E così sei qui per il sussidio. Hai con te una dichiarazione dei redditi > < Ma certo >. Mi sentii stupida a ripetere la stessa frase, lui se ne accorse e io percepii il leggero imbarazzo che si era creato. Pescai dalla tasca del cappotto un foglio stropicciato e glielo porsi. Lo esaminò da dietro le spesse lenti degli occhiali , lo sulla appoggiò sulla scrivania e con un cenno mi fece capire che dovevo riprenderlo. Mi concesse il sussidio. Non volevo mostrarmi troppo grata, mi sembrava di privarmi di dignità, ma in un certo senso luì colse qualcosa nel mio sguardo che voleva dire < grazie infinite > e mi sorrise. Non era affatto scontato ricevere soldi dallo stato in quel periodo, nessuno se la spassava, nemmeno nei gradini più alti della società e pertanto i soldi da dare ai poveri non erano molti. Si stava attenti a distinguere i "casi disperati" da quelli meno urgenti. Il nostro non era un caso disperato ma non era nemmeno trascurabile. Negli ultimi mesi le entrate della mia famiglia si erano notevolmente ridotte. Stavo per uscire ma mi bloccò < senti, un'ultima cosa: quanti anni hai? > . Mi soffermai. Quanti anni avevo. < Diciotto, fra un mese >. Diciotto anni e due persone a cui badare. Diciotto anni e già me ne sentivo addosso quaranta. Diciotto anni sono abbastanza per vedere tua madre che sparisce e non si fa più vedere perché < la Crisi ha portato via la mia parte migliore, non c'è più niente che io possa dare a questa famiglia, è meglio per voi se me ne vado >. Sono abbastanza per vedere tuo padre che muore perché non ha tempo per farsi curare < altrimenti chi porta a casa il pane la sera >. Ma sono anche abbastanza per sapere di essere viva, e di avere sangue che pulsa nelle vene, e sinapsi nel cervello, e gambe per muoversi. Ho sempre odiato il vittimismo. All'improvviso uno scoppio, un fracasso di vetri, urla di donne.
  
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