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Autore: FRC Coazze    29/04/2012    1 recensioni
Una nobile famiglia costretta a lasciare la sua terra. Un nuovo paese. Una potente abazia. Una creatura leggendaria. Un tesoro. Un ragazzo. Una storia.
(Basata su fatti storici.) Questa storia è temporaneamente sospesa.
Genere: Avventura, Fantasy, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 3. Fila, Iegia… fila finchè ce n’è…

 

 

Filippo uscì dall’ampia porta della casa del balivo. Si voltò indietro, gettando un’occhiata distratta alla costruzione. Certo, non poteva essere definita palazzo o castello, ma era comunque una casa signorile, a differenza delle altre del paese. Almeno quello. Non li avevano messi nella stalla insieme alle capre… era già qualcosa.

Era una casa bassa, due piani, dalla lunga balconata di legno che si protendeva elegante sul prato dinnanzi. La facciata elegantemente colorata, ospitava lunghe file di rombi rossi intorno alla piccole finestre, come processioni immobili di tante, grosse formiche colorate. Il portone di legno, pesantemente borchiato, pareva una sentinella arrogante, le braccia incrociate sul petto con alterigia, e se ne stava lì a custodire le sale della casa come fossero chissà quale prezioso tesoro.

Filippo sbuffò pesantemente, mentre distoglieva lo sguardo e posava i primi passi sull’erba morbida del prato. La spada ondeggiava al suo fianco, la guardia che tintinnava appena contro la cintura di cuoio. Certo non se ne sarebbe andato in giro disarmato… specie in quei posti. Aveva indossato il suo corpetto di cuoio sopra la camicia bianca, un corpetto ormai piuttosto consunto. Il leone sul petto era ormai quasi del tutto cancellato, ancora si vedevano bene le fauci spalancate e la lunga lingua saettante, la criniera regale, ma le zampe armate, la lunga coda e la corona che portava sul capo erano ormai nient’altro che schizzi a matita sfumati dalla gomma del tempo.

Il giovane voltò a destra, deciso. Attraversò il breve tratto di prato che divideva la casa dalle scuderie, una piccola costruzione che si ergeva adiacente alla casa, il tetto in pietra macchiettato da pennellate di licheni azzurri, come un foglio vittima dei giochi colorati di un bambino. Chiamarla ‘scuderia’, comunque, era un eufemismo: per la realtà non era che una comunissima stalla. Era semplicemente una lunga e bassa costruzione che si protendeva in avanti rispetto alla linea dell’abitazione, come un lungo braccio teso, e che accompagnava il lungo muro che circondava tutto il caseggiato custodendone le mura e comprendendo il quadrato di prato che si apriva davanti all’abitazione e il pozzo.

Di fronte alla stalla si trovava un ragazzino dai vivaci capelli ricci; stava armeggiando con alcune bardature e il loro tintinnio ondeggiava appena nell’aria calma di giugno, come se fosse perfettamente parte di essa insieme al frinire leggero delle cavallette.

“Tommaso!” Chiamò Filippo, rivolto al ragazzo non appena lo ebbe raggiunto alle spalle. Questi si voltò di scatto, sorpreso di ritrovarsi improvvisamente davanti il giovane.

“Mio signore. Non vi ho sentito arrivare…” Cercò di dire Tommaso, gli occhietti neri che saltavano da un lato all’altro del volto di Filippo.

“Smettila di frignare e preparami Chrétien.” Gli disse duramente Filippo, allontanando poi lo sguardo dal ragazzino per lasciarlo vagare nei prati che li circondavano con una tirata indifferenza.

“Sì, mio signore.” Disse subito il ragazzo. Quindi posò in fretta le briglie che teneva in mano e sparì in un balzo nella scuderia.

Filippo sospirò con fare irritato. Scostò gli occhi. Nessuno poteva dire che quei parti, quelle montagne, quel cielo non fossero belli. Erano belli. Verdi e freschi come gocce di rugiada cadute direttamente dal sole, ma Filippo quei raggi, quel verde non poteva vederli, gli occhi appannati dalla cupa nebbia del rancore che tutto ingrigiva e opprimeva e mascherava. Nessuno poteva dire che quelle montagne fossero le stesse della Valle d’Aosta, ma, certo, ci somigliavano molto. Le stesse rocce, azzurre e bianche e grigie, come gli stendardi del freddo, dure e taglienti come frammenti di cielo. Ma non erano le montagne di Montjovet, quelle. Erano le montagne di Coazze.

Filippo chinò il capo, grevemente. Si passò una mano far i lunghi capelli castani come a scacciare quegli sciocchi, falsi pensieri che gli si erano accavallati nella mente, uno sull’altro, fino a cadere rovinosamente a terra, come un branco di acrobati impacciati.

“Insomma, quanto ti ci vuole!” Ringhiò il giovane irritato. Voleva togliersi quell’impiccio di Valgioie il più in fretta possibile. Come diavolo suo padre pensasse che lui riuscisse a scoprire qualcosa non l’aveva ancora capito. Che doveva fare? Interrogare ogni valligiano che incontrava.

“Eccomi.” La voce del giovane Tommaso lo distolse un attimo dai suoi pensieri. Il ragazzo gli stava tendendo le briglie del grande stallone grigio che sbuffava ansioso, i grandi occhi scuri fissi sul suo padrone.

“Alla buon ora.” Esclamò Filippo rudemente, afferrando con mala grazia le briglie dalle mani esili del ragazzino. “Ora sparisci.” Gli disse poi, mentre si allontanava dalle stalle accompagnando il cavallo grigio in silenzio. Chretièn scosse il capo sbuffando mentre seguiva il suo padrone con passo pesante.

Sovrappensiero, il giovane si diresse verso il possente portone che si apriva nella cinta, al di là non si aprivano altro che prati e quel basso muro di pietra sembrava una linea tracciata su un foglio uniforme, che divideva l’erba dall’erba.

Le grandi ante del portone erano aperte e Filippo poteva vedere oltre i muri e le case di pietra che si ergevano più in là. Aveva intenzione di raggiungere Giovanni, forse non per raccontargli del sogno… non aveva ancora deciso riguardo a quella questione, ma così, giusto per vedere che cosa combinava suo fratello. Aveva preso il suo nuovo incarico piuttosto sul serio. Seguire i lavori per l’erezione della loro nuova casa… d’altronde non potevano occupare per sempre la casa del balivo, giusto?

“Filippo!” Esclamò improvvisamente una voce non appena il ragazzo ebbe superato il portone. Il giovane si voltò subito alla sua destra, da dove proveniva quella voce allegra. Sospirò esasperato. Giusto lì di fianco, vicino al lungo muro che racchiudeva la casa-forte, c’era un ometto pingue con un grande naso aquilino e i capelli grigi sparsi a ciuffi intorno alla grande isola calva al centro del capo. Indossava una tunica scura che lo copriva fino alle ginocchia, piuttosto logora sui gomiti e intorno al collo, e un lungo mantello nerastro poggiato sulle spalle larghe. Nel complesso, più che un uomo, sembrava un aquilotto nero e spelacchiato. Stava parlando con un tipo magro, che indossava quella che con un po’ di difficoltà poteva essere identificata come tunica –o almeno lo era stata- , con un naso che avrebbe tranquillamente potuto rivaleggiare con quello del suo interlocutore.

“Avevo giusto intenzione di parlare con un rappresentante della nostra famiglia ospite.” Disse l’ometto indirizzando al ragazzo un sorriso sghembo.

Filippo fece una smorfia: “Sì, beh, cercate mio padre. Non mi interessa.” Fece per riprendere il suo cammino, ma l’ometto l’aveva già raggiunto d’un balzo e afferrato per un braccio.

Filippo abbassò lo sguardo su di lui con irritazione.

“Dovreste imparare le buone maniere, giovanotto.” Disse l’ometto piccato, osservano il giovane dal basso con i suoi grandi occhi scuri, il naso all’insù che si protendeva nell’aria come una sgraziata protuberanza in quel viso tondo.

“E voi dovreste imparare a non importunare la gente, messer balivo.” Rispose Filippo. L’ometto sorrise malignamente. Il ragazzo allontanò per un istante gli occhi dal volto del balivo per posarli sull’uomo che lo fissava, stancamente appoggiato al muro. Non aveva mai visto quel tipo. Era magro, quasi scheletrico e lì, poggiato con la spalla contro le pietre della cinta sembrava una grottesca imitazione di un barcollante membro della danza macabra, con quegli occhi scavati nel cranio come grotte, gli zigomi ossuti che tendevano la pelle all’inverosimile. Sembrava tranquillamente a suo agio lì… non aveva certo paura di lui. O se l’aveva non la dava a vedere.

Filippo allontanò gli occhi dall’uomo e li posò nuovamente sul balivo, ancora aggrappato al suo braccio con quelle sue dita affusolate tanto da parer artigli. E quegli occhi acquosi e astuti… il naso a becco che minacciava l’aria come una spada tesa. Davvero, gli mancavano solo le ali e poi sarebbe stato un’aquila perfetta.

“Ho fretta, signore.” Disse in fretta Filippo, scrollandosi di dosso le dita artigliate del balivo. Tuttavia non si mosse. Fece un accenno col mento verso l’uomo magro all’ombra del muro.

“Chi è?” Chiese al balivo.

L’ometto si voltò un secondo come se si fosse dimenticato dell’uomo con cui stava parlando poco prima. Lo osservò per un istante, poi si voltò nuovamente verso il giovane: “Uno dei minatori di Forno. Veniva a chiedere cibo. Il lavoro nelle miniere è duro. E’ di questo che volevo parlare con voi.”

Filippo analizzò ancora l’uomo per qualche secondo, poi, senza distogliere lo sguardo, sibilò: “Non sono responsabile per le miniere. Né mi interessano le vostre azioni caritatevoli. Quando a te” aggiunse poi ad alta voce rivolgendosi all’uomo, “se vuoi cibo rivolgiti al prete, non a noi. E ora fila!”

Nonostante il tono imperioso di Filippo, l’uomo non fece una piega; semplicemente rimase lì, appoggiato al muro a fissare il giovane con quei suoi occhi incavati.

Filippo ricambiò lo sguardo per un attimo, poi sentì qualcuno spingerlo sulla spalla costringendolo a distogliere gli occhi. Chrétien stava premendo il suo naso morbido contro la schiena del giovane con impazienza, i suoi occhi neri vispi e desiderosi di riprendere il cammino. Filippo gli gettò un breve sorriso, quindi voltò le spalle e si allontanò congedandosi dal balivo con un semplice gesto del capo.

L’ometto lo guardò allontanarsi con occhi insistenti, quasi asfissianti. “I miei ossequi, giovanotto.” Esclamò allargando un sorriso mentre levava una mano in segno di saluto, un saluto diretto ormai soltanto alle spalle del giovane e alla larga groppa del cavallo grigio.

Il balivo abbassò la mano mantenendo sul volto il sorriso, quasi fosse ormai impresso indelebilmente nel suo volto. Si girò verso il suo compagno e la curva sul suo viso, miracolosamente svanì lasciando il posto ad un’espressione greve, pensierosa. Dov’era finito?

***

Tutti a lui capitavano. E tutti quella mattina. Prima suo padre, ora il balivo Guidone e quella specie di scheletro deambulante… chi mancava alla lista? Filippo sbuffò pesantemente. E poi chi diavolo era lo scheletro? Se quel tipo era venuto a chiedere cibo lui era un cavallo. Non gli piaceva. Non gli piaceva affatto… il modo in cui l’aveva guardato con quei suoi occhi come cristalli neri in una grotta, il sorrisetto che gli aveva imbruttito il volto… il modo in cui il balivo ci parlottava prima che lui li interrompesse. Tipi strani in quel paese ce n’erano molti, ma lo scheletro li batteva tutti.

Era uno dei minatori di Forno, aveva detto il balivo? Allora di certo ne avrebbe parlato a Giovanni. Suo fratello aveva l’incarico di controllare l’estrazione dalle miniere di ferro, oro e argento nel vallone di Forno, sulle montagne. Era lui responsabile e lui conosceva i lavoratori, conosceva i luoghi…c’era stato tante volte. Sì, Giovanni doveva sapere che uno dei suoi minatori girovagava allegramente per il paese.

No. Quel tipo non gli era piaciuto proprio per niente. E il balivo o era un bonaccione ingenuo o era più furbo di quanto desse a vedere… sempre che- che ci faceva una gallina in mezzo al sentiero?!

“Ehi! Levati!” Esclamò Filippo allontanando la bestiola con il piede. La gallina sbattè le ali mentre lo stivale del giovane la spingeva indietro, verso il prato.

Filippo la osservò per un attimo, mentre essa prendeva a razzolare tra le erba come se niente fosse accaduto. Era pensieroso. Per quanto volesse stare il più lontano possibile dagli affari di Coazze, non poteva evitarli quando questi si accanivano su di lui come uno stormo di arpie. Era come quella gallina. Per quanto tentasse di razzolare nel sentiero, lontano da tutto il resto, prima o poi passava qualcuno a spingerlo nuovamente nel prato. Dannato paese d’inferno! Che futuro c’era per lui lì? Lontano dalla sua vera casa, imprigionato in un buco in mezzo alle montagne, in un paese dimenticato da Dio sotto la pressione di un futuro che non c’era. Non lì. Non c’era nulla lì. Né un passato né un futuro e il presente non era altro che una bolla trasparente e asfissiante che lo stava uccidendo a poco a poco. Diede un calcio deciso ad una delle pietre della mulattiera. La pietra di Montjovet la portava sul cuore, quelle… quelle meritavano la polvere in cui giacevano.

Sbuffò, quindi riprese il cammino accompagnando i passi pesanti di Chrètien. Che altro poteva fare? Soltanto lasciare che gli eventi lo afferrassero e lo sballottassero qui e là come le acque torbide di un mare nero… ma non glielo avrebbe permesso ancora per molto. La gallina era testarda. Era già tornata nel sentiero.

Filippo avanzò verso il gruppetto di case che rumoreggiava poco lontano dalla loro casa. Era il corpo centrale del paese di Coazze, la borgata che veniva chiamata Villa dai paesani, e in quell’istante era appena un brusio che si distingueva nei prati circostanti come un piccolo formicaio. Non aveva intenzione di passare dentro la borgata, tutta chiusa e sospettosa come una madre ansiosa. Era buffo vedere che quelle case in pietra e terra non erano poi così diverse da quelle delle borgate di Montjovet; basse, grigie e fredde, bucherellate appena da qualche finestra che si apriva  come una palpebra nei possenti muri di pietra. Vista da fuori, la borgata sembrava un piccolo castello tutto chiuso e diffidente, con le case tutte fermamente sistemate spalla contro spalla come una testuggine romana, ma dentro la vita andava avanti rumorosa. Tutte le case davano sull’interno, con i loro balconi in legno, le porte cigolanti… ma le vecchine no. Le vecchine se ne stavano tutte fuori, dove la pietra lasciava spazio all’erba, vicino alla mulattiera che costeggiava la borgata dove i passi di Filippo  e della bestia che conduceva battevano sulle pietre grigie. Eccole tutte lì, le vecchie comari, strette a gruppetto, a osservare tutto e a parlottare tra di loro. La maggior parte degli abitanti era sparsa per la campagna, rimanevano proprio soltanto le anziane a lavorare alla tela, filando la ruvida fibra di canapa. I loro occhi acuti non tardavano a posarsi, con un po’ di sospetto, sulla figura di quel giovane di bell’aspetto, la pelle chiara accesa dalla barba scura, che conduceva quel grosso cavallo grigio.

Era uno di quei feyditi. Quelli là, che se ne erano arrivati da Mongiovet. Era il pensiero generale. Filippo leggeva chiaramente quelle parole nei loro occhi acuminati e acquosi. Eh, si vedeva che non era uno di lì… no, no… con quei lineamenti appuntiti… la pelle chiara… gli occhi verdi. Si vedeva che era un nobile e, soprattutto, uno di fuori.

Da sola, all’ultimo angolo di pietra della borgata, v’era una vecchietta curva, piccola nella figura, il volto ormai una ragnatela di rughe tanto spessa che Filippo non aveva potuto evitare certe volte di chiedersi se i ragni fossero morti soffocati in quell’intrico di fili. La conoscevano tutti in paese. La chiamavano la Iegia, ma Filippo non era mai riuscito a capire se fosse il suo vero nome oppure uno dei tanti soprannomi nel dialetto locale che ogni buon paesano si portava dietro. No, probabilmente era il suo nome. O un diminutivo. Iegia… Teresa, forse.

Eccola là, tutta intenta a filare con quelle dita lunghe e acuminate che sembravano loro stesse degli aghi, ossute eppure così perfette nel loro movimento meccanico. Gli occhietti vispi della Iegia erano fissi sul lungo filo bianco che faceva lentamente scivolare tra le dita, eppure Filippo sapeva che lei lo stava spiando da sotto quelle palpebre cadenti, anche se non alzava mai lo sguardo. Lo stava aspettando al varco, laggiù, in fondo alla via polverosa, seduta curva sul suo sgabello come una delle tre Parche, in silenzio, in attesa, mentre le sue labbra si muovevano nella sua solita litania.

“La Iegia fila… fila al rouet… fila, Iegia… fila…”

Ecco, alle orecchie di Filippo arrivò quella cantilena, uscendo come una ninnananna triste e monotona dalle labbra sottili della vecchia, appena un sussurro increspato dalla voce raspante, come le unghie di un animale sulla viva pietra.

“Fila, Iegia… fila finchè ce n’è… fila, fila…”

Filippo sospirò, mentre si avvicinava alla vecchina, laggiù, all’angolo della strada, da sola. Quasi ne sentiva l’alito soffiargli sul collo come il respiro di un predatore famelico che sorride bieco nell’aspettare la preda, già pregustandone il sapore sulle labbra.

Il giovane cercò di fare l’indifferente mentre i passi lo portavano sempre più vicino alla Iegia, trattenendo con forza gli occhi dal cadere sulla sua piccola figura ricurva.

“Leone, leone… t’han ben fregato…” Borbottò improvvisamente la vecchia, senza tuttavia allontanare gli occhi dal fuso, quanto il giovane fu a pochi passi da lei.

Filippo non riuscì a trattenersi e i suoi occhi si posarono in uno scatto sulla vecchia, per poi spostarsi velocemente a fissare la strada sterrata.

“Vecchio leone dal pelo irsuto… dall’oro alla polvere sei caduto…” Continuò a cantilenare la vecchia, mentre un sorriso storto si posava sulle labbra screpolate muovendole in una retta obliqua che sembrava quasi tagliare il viso rugoso della donna.

Il giovane si morse il labbro a disagio. Quella strana vecchina sembrava riuscire, unica tra molta gente, a metterlo in difficoltà; non sapeva perché. Forse era quel suo continuo cantilenare come lo stormire indefesso delle fronte degli alberi sotto il soffio roboante del destino… forse era quel suo sorriso, quel suo ghigno storpio che la faceva somigliare ad una delle tre crudeli, ciniche Parche romane… Lachesi, colei che svolgeva sul fuso lo stamedella vita, e decideva la lunghezza fatale di ogni filo. Sì, quella vecchia sembrava davvero la personificazione del destino, della fatuità di ogni cosa.

… fila, finché ce n’è …

Finché ce n’è, già. E poi?

E poi… e poi Filippo non si accorse di essersi fermato. Non si accorse di essere lì, immobile, sotto gli occhi lucidi e profondi della vecchia Iegia, incatenato in quella palude brunastra che sembrava aver ingoiato i suoi passi ed avvolgersi pian piano intorno a lui in un abbraccio putrido e carceriere.

La vecchia aveva smesso di lavorare al fuso. Aveva taciuto la sua geremiade. Ora, semplicemente lo guardava masticandosi appena le labbra sottile per inumidirle con un poco di saliva. Per un lungo istante la Iegia tacque, poi, lentamente il suo braccio scheletrico si alzò, piano, come mosso da fili legati alle nubi che viaggiavano tranquille nel cielo. Ma non v’era nulla di placido, né rassicurante in quel gesto, vi era solo l’estenuante, impietosa lentezza di un destino comunque destinato a compiersi. E quel dito, ritto e storto allo stesso tempo, che si tendeva verso di lui come l’indice teso di Dio, cernitore inflessibile nella Valle di Giosafat.

“Terribile è il dono. Velenose le zanne del serpente di fuoco.” Disse improvvisamente la Iegia con quella sua voce gracchiante, come una vecchia gazza. “E il suo occhio vede… vede tutto… ti vuole, ti cerca…” Filippo la guardò stupito, la fronte improvvisamente corrugata, la bocca appena socchiusa, immobile, pietrificato, con la volontà di allontanarsi e andare il più lontano possibile dalla vecchina, e quella stessa volontà di rimanere lì.

“Ah, figlio del demonio!” Esclamò la vecchia. “Le corna e le squame gelide della vipera!” Improvvisamente sollevò anche l’altra mano, mentre quella con cui indicava il giovane veniva portata al viso in un tentativo di proteggersi dalla visione a cui i suoi vecchi occhi davano forma.

“La scia di fuoco del cielo morirà in silenzio!” Continuò a gridare la Iegia, ripiegandosi su sé stessa cotto lo sguardo sconvolto di Filippo. “La vipera è velenosa… velenosa… vede… vede tutto…” Pian piano la sua voce andò smorzandosi, divenendo poco più di un asmatico sussurro, perduta nella stessa putrida palude che aveva tenuto prigioniero il giovane. Lentamente, la vecchia abbassò le mani tornando a portarle al fuso e al filo, riprendendo il suo lavoro come se niente fosse.

“Fila Iegia… devi filare… ce n’è, ce n’è ancora… filo e fuso… fila Iegia… fila…”

Filippo impiegò un istante a riscuotersi dallo stupore e dallo sconcerto, mentre la vecchia riprendeva tranquilla la sua tiritera.

Quasi gli sembrava di sentire il sangue tornare a scorrere caldo nelle sue vene, dopo essersi rintanato impaurito in qualche angusta tana del suo cuore. Sentì di nuovo il calore invadergli corpo come una madre dolce e consolatrice che lo stringeva tra le sue braccia scacciando via il gelo di quegli occhi, di quella voce che lo avevano carpito. Tirò frettolosamente le briglie del cavallo e voltò in fretta le spalle, allontanandosi il più velocemente possibile da quella strana vecchia e dalla sua nenia inquietante. Ma più avanzava sulla stradina nei prati, più le parole della Iegia rimbombavano nella sua mente come i tamburi di un esercito di punti interrogativi.

Vipera? Quale vipera? La scia di fuoco… come faceva la vecchia a sapere del suo sogno? Non aveva senso.

Si gettò un’occhiata indietro. La vecchia era ancora là, intenta a lavorare al fuso come se nulla fosse accaduto. Sì, la gente di Coazze era strana. Probabilmente era lì che i romani portavano i pazzi. Oh sì, i Covaciensi erano strani… oppure talmente acuti da essere incomprensibili alla mente dei comuni mortali. E avevano il potere di far diventare folli anche chi veniva da fuori. Non era forse che quell’assurdo sogno che lo infastidiva la notte era cominciato proprio dopo essere arrivato a Coazze? Mai a Montjovet il suo sonno era stato turbato da miraggi notturni. Gli incubi erano venuti sì, più e più volte, ma mai così strani, assurdi, con forme talmente astruse che nemmeno Dio sarebbe stato in grado di disegnare.

Vipera…

Serpente di fuoco…

La scia di fuoco morirà in silenzio.

Forse il suo sogno significava qualcosa. Forse c’era un motivo per cui quella scia di fuoco correva nelle sue iridi lontane la notte. Alzò un attimo gli occhi da terra e quei pensieri parvero allontanarsi da lui per qualche secondo. Di fronte al giovane si ergeva il cantiere per la costruzione della nuova casa. Una casa-forte, abbastanza grande da contenere tutta la loro numerosa famiglia. Il corpo centrale era ormai quasi finito e il lavoro dei muratori paesani si era ormai spostato sull’alto muro di cinta che stava mano mano circondando tutta la casa come un piccolo serpentello pronto a diventare ben presto una grossa vipera sonnecchiosa.

In tutto, vi lavoravano una dozzina di persone. Tutte del posto. Alle orecchie di Filippo giungeva della pietra che battevano l’uno sull’altra, il frinire del legno, le voci profonde dei lavoratori che si alzavano al di sopra di tutti gli altri rumori mentre si chiamavano a vicenda con ben poco tatto. Certo, non sarebbe stata come il loro castello di Montjovet. Sembrava l’abitazione di un mercante taccagno più che quella di un’antica stirpe nobile.

Filippo si fermò a pochi passi dalla casa in costruzione e si guardò intorno cercando il fratello. Ne colse la figura sull’altro lato della casa, appoggiata al tronco di un melo mentre osservava in silenzio, con attenzione, l’avanzare dei lavori. Giovanni parve accorgersi della presenza del fratello minore perché guardò verso di lui e gli fece cenno con la mano e Filippo sapeva già che sul suo volto si era andata dipingendo un’espressione stupita appena si era reso conto che il ragazzo col cavallo, che lo osservava, era suo fratello.

Filippo scosse il capo con fare rassegnato e avanzò verso il fratello.

Giovanni era un giovane corpulento dalla folta barba nera. I capelli lunghi legati in una coda. Nel complesso sembrava la copia più robusta e più selvaggia del padre Roleto. E più esuberante.

Filippo non fece in tempo a dire una parola di saluto che Giovanni l’aveva afferrato per la spalla e strattonato in avanti. “Filippo!” Esclamò con un grande sorriso mentre la grande mano si abbatteva sul capo del fratello spettinandolo con fare giocoso, e ben poco delicato, mentre spingeva il volto di Filippo contro il suo petto.

“Ehi, lasciami!” Protestò Filippo cercando di liberarsi dalla presa ferrea del fratello. Giovanni lo lasciò andare ridendo dell’espressione scioccata e irritata di Filippo mentre questi cercava di risistemarsi i capelli scarmigliati che gli erano finiti in faccia.

“Sei un orso.” Ringhiò Filippo, tirando indietro le lunghe ciocche scure che gli solleticavano il viso. Il sorriso di Giovanni si aprì ancora di più illuminando i suoi occhi castani con la stessa curva che gli addolciva le labbra.

“Eh lo so, lo so.” Rise Giovanni. “E’ bello dar fastidio ai fratelli minori.” Aggiunse poi piantando la sua mano sul viso di Filippo e costringendolo a piegarlo di lato sotto la spinta di quella che voleva essere una carezza.

“Finiscila!” Sbottò Filippo, irato. Di solito non se la prendeva più di tanto per l’esuberanza di suo fratello, ma quel giorno qualsiasi cosa sarebbe riuscita a dargli sui nervi.

Giovanni parve confuso per un istante e il suo sorriso sbiadì appena, ma poi si lasciò sfuggire una risata divertita. “Uh, siamo permalosi questa mattina…” Disse sarcasticamente. “Chrètien, dirglielo tu. Bisogna prendere la vita con ottimismo.” Disse poi al grande stallone grigio che osservava la scena con occhi curiose, le orecchie ritte sul capo.

Filippo lo guardò cupamente, con occhi grevi. “Un orso che parla con un cavallo… ecco una cosa che mi mancava oggi.” Sbuffò.

Giovanni lo guardò, stringendosi nelle spalle. “Ehi, io mi diverto.” Disse, ammiccando.

Filippo sospiro tristemente. “Beh, io no.” Disse, ma non c’era arroganza nella sua voce, né irritazione, soltanto una placida tristezza increspata appena da lievi onde di rassegnazione come sfiorata appena da una punta di dolore. L’espressione di Giovanni si fece più seria nell’udire quella voce, il sorriso sul suo volto barbuto si trasformò in una leggera smorfia.

“Te la prendi troppo, fratellino.” Disse, quindi afferrò Filippo per le spalle e lo fece voltare verso quella che sarebbe diventata la loro casa. “La vedi?” Fece, “la nostra nuova casa. Quando sarà finita sarà perfetta per ricominciare.”

“Ricominciare cosa? E’ soltanto un mucchio di pietre messe una sull’altra… non è un simbolo, non è…” Filippo tacque un secondo mordendosi un labbro, “non ha alcun significato per noi.” Concluse infine, gettando un’occhiata al fratello.

“Non ancora, forse, ma lo avrà. Un giorno.” Sorrise Giovanni.

“Parli come nostro padre.” Sbuffò Filippo voltandosi verso il fratello maggiore. “Dobbiamo farci forza e ricominciare. Dobbiamo accettare la cosa. E’ solo debolezza questa.” Sbottò infine, sentendo la sua voce gemere sotto un’improvvisa frustata d’ira che non riuscì a trattenere.

Giovanni non replicò. Capiva suo fratello, anche a lui mancava Montjovet, anche lui era arrabbiato con il conte di Savoia, per il modo in cui li aveva calunniati e cacciati… ma che ci poteva fare? Non si poteva cambiare la storia, bisognava rimboccarsi le maniche e seguirne il corso senza tentare di voltare la barca, o l’unica cosa che avrebbero ottenuto era spezzare il remo. Filippo era un idealista… lo era sempre stato, fin da quando erano bambini ed il suo orgoglio per il cognome che portava gli gonfiava il petto, e l’amore per il rosso leone rampante del loro stemma era quasi un’ossessione. Filippo era come loro nonno Giacomo. Lui e loro padre, Roleto, erano meno attaccati a Montjovet… almeno non ossessionati dalla loro terra come Filippo.

“Ce l’hai ancora la pietra che hai preso a Montjovet?” Chiese Giovanni, improvvisamente, senza un vero motivo. Filippo lo guardò interrogativo per un istante, poi rispose: “Certo. Sempre.”

Giovanni accennò alla casa in costruzione col capo. “Sarebbe bello incastonarla in un muro della nuova casa.” Lo disse sinceramente, la sua intenzione era genuina, ma Filippo non potè evitare di inorridire a quel pensiero. La sua pietra… l’unica cosa che gli rimaneva di Montjovet… No. Non si sarebbe mai separato da lei.

“Sei matto?!” Esclamò, spalancando gli occhi verdi.

Giovanni alzò le mani con fare colpevole. “Ehi, ehi… era solo un’idea. Non farti venire un colpo!” Disse sorridendo.

Filippo sospirò, scostando per un istante gli occhi dal fratello. “Devo andare a Valgioie.” Disse dopo un po’.

Giovanni sollevò un sopracciglio, interrogativo. “Perché?”

“Non lo so. Nostro padre vuole che vada a indagare su dei furti di cibo lassù.” Rispose Filippo e col capo accennò verso la pendice della montagna dove spargevano le borgate di Valgioie.

“E poi dici che nostro padre non ti considera!” Fece Giovanni con l’ennesimo sorriso.

Filippo fece scattare gli occhi su di lui, fulminandolo con uno sguardo gelido. “Ti pare? A me sembra un modo per liberarsi di me.”

“Sei deprimente. Potrebbe essere qualcosa di importante.” Osservò Giovanni.

“Sì, o un’altra invenzione di quelli di Giaveno per attaccar briga.”

Giovanni sospirò esasperato.

Filippo ridusse gli occhi a fessure, spiando il fratello attraverso le palpebre, ma decise fosse meglio lasciar cadere l’argomento, almeno per il momento. “Comunque”, disse allora, “sappi che c’è uno dei minatori di Forno che gironzola per il paese.”

“E allora?” Fece Giovanni con un’alzata di spalle. “Non è vietato.”

“Non mi piace quel tipo…” Disse Filippo sospettoso.

Giovanni alzò gli occhi al cielo. “Perché mi importuni con la tua intolleranza verso questo paese e poi ti interessi dei suoi affari?”

“Perché… perché...” Balbettò Filippo senza riuscire a trovare un vero motivo. “Non lo so perché.” Voltò le spalle al fratello e fece alcuni passi nel prato cercando di allontanare l’agitazione e calmarsi.

“Capisco.” Fece allora Giovanni sollevando le sopracciglia e guardando il fratello fare su e giù nell’erba chiara. Si preparò… ora cominciava il monologo.

“Perché tutto oggi capita? Eh? Prima nostro padre che dopo un anno passato ad ignorarmi decide di spedirmi su per i boschi a cercar fantasmi… poi quel tipo scheletrico e il balivo che mi ha ghermito coi suoi artigliacci appena sono uscito dal portone. E poi, come se non bastasse, quella vecchia pazza della Iegia che comincia a blaterare di vipere, e serpenti e di scie di fuoco. Quello è il mio sogno! Che cosa ne sa lei!” Giovanni sobbalzò a quell’ultima osservazione, tutte le parole che continuavano a uscire e a fluire come un torrente dalle labbra di Filippo divennero soltanto più un uniforme sottofondo ai suoi pensieri. Era Filippo. Filippo era stato scelto. Forse. Doveva esserne sicuro prima di parlarne a loro padre o al nonno.

“Ehi, mi stai ascoltando?” La voce di Filippo riuscì inspiegabilmente a far breccia tra le fila serrate dei suoi pensieri.

“Uh? Come?” Fece Giovanni, confuso, guardando il fratello.

“Bah, lascia perdere.” Rispose Filippo annoiato, quindi si avvicinò a Chrètien e ne afferrò le redini deciso a salire in groppa e dirigersi verso Valgioie. D’altronde, prima partiva, prima sarebbe tornato. Ma non fece in tempo a mettere il piede nella staffa che Giovanni lo aveva afferrato per la spalla, trattenendolo. “Ehi, aspetta.” Furono le parole che accompagnarono il movimento della mano.

Filippo guardò cupamente prima la mano sulla sua spalla, quindi il volto del fratello, attendendo che questi parlasse.

“Hai parlato di un sogno. Che sogno era?” Gli chiese Giovanni cercando di mostrarsi curioso, cosa che probabilmente non funzionò perché Filippo lo guardò con sospetto.

“Devo andare.” Disse Filippo, cercando di liberarsi dalla presa del fratello. Non che non volesse parlargliene, ma c’era qualcosa negli occhi di Giovanni che quasi lo spaventava.

“Non vuoi parlarne? Sono tuo fratello…” Fece Giovanni sorridendogli innocentemente.

Filippo sospirò, quindi finalmente riuscì a balzare in groppa al cavallo. Strinse bene le redini nelle dita, quindi guardò suo fratello dall’alto in basso. “Senti, ne riparliamo quando torno, d’accordo?” Disse.

La strana luce negli occhi di Giovanni parve offuscarsi, ritornando a rintanarsi nel profondo dei suoi occhi scuri. Il giovane annuì. “D’accordo.” Acconsentì infine.

Filippo accennò col capo in segno di saluto, quindi spronò il cavallo lasciandosi indietro il fratello e i rumori dei lavori, il battito delle pietre, i colpi dei martelli.

“Non perderti nei boschi! Ci sono i lupi!” Gridò Giovanni osservando il fratello allontanarsi a cavallo. Filippo non gli rispose. Sempre così serio il ragazzo.

 

*******



Finalmente ho finito anche questo capitolo. Che faticaccia.

Molto, molto denso questo capitolo, non è vero?, forse anche troppo… non so, valutate voi. Spero che Giovanni vi sia piaciuto come personaggio. Riprende un po’ il padre come carattere, anche vista la sua ultima battuta. E la Iegia? Simpatica, eh? XD

E chissà cosa succederà a Valgioie e chi incontrerà Filippo…

Al prossimo capitolo!
 

 
 
  
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