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Autore: Dernier Orage    29/04/2012    2 recensioni
Parigi, Marzo 1997. Due amanti si rincontrano dopo quattordici anni: Ismaël ha una piccola libreria a Parigi, Stéphane è diventato uno scrittore, ha due figlie e tifa l'Arsenal. Storia di una ricostruzione.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Fine agosto 

Resistendo poco nell’oscurità e nell’atmosfera soffocante del parcheggio seminterrato, Stéphane con uno sferragliare aprì la saracinesca del garage, fece segno ad Ismaël di seguirlo nel labirinto di scatole e mobili. Avventurandosi sopra una scala a pioli raggiunse il soppalco e con uno scatto aprì le ventole dell’aria e una finestrella dai vetri opachi per la polvere; avvitò la lampadina e una luce fioca e gialla illuminò vagamente gli spigoli degli oggetti. Dopo qualche secondo passato ad orientarsi nel marasma di ricordi e cianfrusaglie e carabattole, recuperò la custodia color aragosta della chitarra alla quale da adolescente aveva creduto di voler consacrare la vita, cercando altri ragazzi per formare un gruppo post-punk e sconvolgere il mondo dall’alto dei palchi – o lenirlo attraverso le puntine dei giradischi. Tirò fuori lo strumento musicale facendo cigolare le giunture e la cerniera arrugginita, con un ampio e teatrale gesto del braccio la mostrò ad Ismaël, soddisfatto del ritrovamento. I cinque o sei accordi imparati da autodidatta, lo strimpellare continuo e quei ritmi famosi che suonava sempre alle feste a casa degli amici o negli stacchi in radio, prima di introdurre qualche canzone o dedicare la buonanotte a qualche cuore in ascolto. In Germania si era portato dietro soltanto l’armonica, suonandola raramente ma trovandone familiare e rassicurante il peso nella tasca del cappotto. 
Provò a vibrare le corde e a correggere il suono col diapason trovato nella custodia, alzò lo sguardo per incontrare quello di Ismaël. Gli aveva fatto male il giorno prima essere tenuto lontano da Jean-Jacques mentre Ismaël aveva avuto un attacco epilettico. Certo, Ismaël se l’era sentito fin dalla mattina, la chiamava aura, ed era stata una sua richiesta il non farsi vedere, come se Stéphane non sentisse il bisogno di sapere cosa fare o come se non lo avesse già visto altre volte, riverso sul pavimento tra i banchi di una classe polverosa. Con le mani nelle tasche dei pantaloni beige, la camicia spiegazzata stretta dalla cintura intrecciata, si guardava intorno, sfuggiva, nominava oggetti che avevano perso l’appellativo. Nella sua danza richiamava la luce e risaltava su tutto, gli occhi grigi erano l’unica cosa a metà di quell’opera di chiaroscuri, di contrasti, di nero e di bianco. Di un volumetto sgualcito e un’idea balenata in testa, aria eloquente. 
- Una lettura di Majakovskij? - chiese incerto Stéphane, una gamba sul settimo piolo e l’altra sul nono, la chitarra ancora stretta a pizzicare note con i polpastrelli. 
- Come lo leggi a me - aggiunse Ismaël con una vena dolce. 
- Pubblica? - Stéphane tentennò, soppesando l’idea e volgendo lo sguardo dal libro di poesie ad Ismaël; - non sarei in grado - 
- Mica in un teatro, al centro sociale - mormorò Ismaël; - oltre il fatto che pubblicizzeresti le attività del Pelloutier, per te, pensa alla soddisfazione - 
- Mh, vieni qua - Stéphane sapeva già che lo avrebbe fatto. Era un costante esaudire i desideri dell’altro, da parte di entrambi. Magari gli sarebbe piaciuto davvero parlare di poesia a dei ragazzi, senza pretese, Ismaël lo capiva con uno sguardo, nel suo cuore aperto percepiva e prevedeva ogni speranza o piacere anche sconosciuto. Lo scrittore gli allungò una mano per invitarlo a salire le scale.
- Io parlavo seriamente - brontolò Ismaël accarezzandogli le ginocchia. 

Primi di settembre

- Resta qui - ordinò Louise aggrappandosi con una mano ai pantaloni di Stéphane e osservando i bambini all’entrata della scuola, alcuni si nascondevano dietro le madri, altri giocavano a prendersi e altri ancora si erano raggruppati per raccontarsi la pausa estiva. 
- Non vuoi che ti accompagni? - le domandò il padre chinandosi per guardarla in viso. 
- Sì, ma poi resta qui fino alla fine - disse lei spostandosi a disagio per far passare una signora con il passeggino. Era uno scricciolo nella camicetta con colletto ricamato e nel vestito blu con la pettorina. La cartella rettangolare bianca con disegnate delle fragoline, troppo larga per le spalle. 
- Certamente - Stéphane le si inginocchiò di fronte e le prese le manine tra le sue; - solo per oggi però. Hanno il numero di casa, qualsiasi cosa accada verrò a prenderti. Devi stare tranquilla - 
- Non mi piace - borbottò Louise. Vide che la scalinata e il portone si stavano liberando dal flusso di studenti diretti nelle classi, con tono deciso aggiunse; - va bene, entriamo ora - 
I pavimenti di marmo conservavano l’ultima cera dell’estate e restituivano lo scalpitio di suole in gomma e in cuoio, giacchette di jeans di vari colori abbellivano i muri sopra gli attaccapanni. La maestra appena vide la nuova alunna invitò Stéphane ad entrare nell’aula e lo salutò stringendogli la mano. 
- Ciao, Maelice. Ci siamo conosciute in primavera, ti ricordi? - salutò la bambina sorridendole. 
Louise annuì e cercò di nascondersi dietro il padre. 
- Tende a preferire essere chiamata Louise, sa come sono fatti - fece Stéphane scherzosamente alla maestra. Era giovane e indossava un lungo vestito batik e i capelli tirati indietro con un cerchietto. C’era un bambino seduto sulla cattedra che giocava con i pennarelli nel portapenne. 
- Oh, certamente. Scusami Louise, d’ora in poi ti chiamerò così. Vai pure a sederti, durante l’appello ti presenterò alla classe - Louise abbracciò il padre e poi si sedette nel piccolo banco vicino alla finestra, proprio davanti alla cattedra e iniziò a tirare fuori l’astuccio e un quaderno dalla cartella. La maestra si voltò dando le spalle alla classe e rassicurò Stéphane – È importante che non si accorga dell’ansia dei genitori. Andrà tutto bene, è una bambina sveglia - 
- La settimana prossima la piccola comincerà l’asilo - mormorò il papà, poi scuotendo la testa come per scrollare qualche sensazione di dosso, aggiunse; - qui c’è il libro delle vacanze, lo ha fatto tutto da sola - 
Stéphane aveva mantenuto la promessa ed era rimasto l’intera mattinata in un pub vicino alla scuola, prendendo un caffè turco, leggendo il Libé e sfogliando dei quotidiani stranieri. Aveva osservando i gesti del barista, dal bancone - i bicchieri lavati e asciugati, le tazzine calde coperte da un panno sopra la macchina del caffè, lo specchio dietro gli scaffali delle bottiglie colorate degli alcolici - allo stagliarsi imponente dalla cassa. Gli avventori: l’uomo con la giacca di pelle eccessiva per la stagione, la bionda dal rossetto arancione al terzo whiskey, due spagnoli con gli zaini in spalla e le scarpe da montagna. 
L’arredamento era moderno e laminato, dai colori chiari e caldi, arancione e bianco, i tavolini dalle gambe sottili attaccati alle pareti, degli sgabelli dal bancone, delle reclame alle pareti: il tucano disegnato del Lovely Day for a Guinness.
- Aspetti qualcuno? - gli domandò il barista sovrastando lo sbuffo di vapore della macchina del caffè. 
- Mia figlia, è il suo primo giorno di scuola - Stéphane guardò l’orologio, era lì dentro già da due ore. L’attesa era qualcosa che gli faceva venire voglia di ricominciare a fumare, bruciare i minuti e calpestarli sotto le All Star. Richiuse il taccuino e i disegnini infantili di aerei, frecce e profili sparirono sotto la copertina blu. 
- Sarà emozionante - commentò l’uomo allungandogli la ciotola delle arachidi. 
- Emozionante. Sì, è il termine giusto - Stéphane gli sorrise cancellando l’espressione insofferente, si avvicinò alla teca sul bancone - prendo un croissant integrale. Mi faresti un altro caffè? - 

Louise era uscita dalla scuola rimanendo qualche passo dietro i suoi nuovi compagni di classe, osservandoli attentamente, l’idea che ci fosse qualcosa di non chiaro, forse frainteso, un dissidio, aveva continuato a scrutarli quando le si era affiancato il padre e le aveva preso la cartella per portarla lui. 
- Tutto bene? - le chiese dandole la mano e aspettandola. 
- Sì. Solo che… quella bambina non mi ha detto come si chiama - mormorò la piccola prendendo la direzione opposta e voltandosi di tanto in tanto a guardare la schiena di quel gruppetto di bambini - sei rimasto qui? - 
- Te lo dirà domani, tranquilla. Sono stato la dentro, va bene lo stesso? - le rispose Stéphane indicando il locale. La bambina annuì. 
La scuola distava da casa un quarto d’ora a passo sostenuto, costeggiando nell’ultimo tratto, rue Froidevaux, il muraglione del cimitero nell’ombra del viale alberato. 
Louise saltellò salendo le scale, per poi fermarsi trovandosi sotto gli occhi le lucide scarpe rosse della vicina di casa. 
- Ma dove corri? - le domandò dandole un buffetto sulla guancia. 
- A casa, oggi è stato il mio primo-primo giorno di scuola! - esclamò Louise sgusciando via di corsa. 

- Stéphane - nel chiamarlo Ismaël aveva sollevato la testa dal bracciolo del divano, lo aveva attirato a se con la voce arrochita dal sonno e una mano tesa ad accarezzare la stoffa dei pantaloni sopra le sue ginocchia. Ismaël aveva inarcato la schiena e si era girato da un lato per fargli posto. Un brivido aveva scorso le sue vertebre al rimbombare della voce di Ismaël che pronunciava il suo nome, una rifrazione.
- Maël - bisbigliò lo scrittore, allungò un braccio fino a sfiorargli una caviglia e l’altro sul polso, spingendosi contro Ismaël raggomitolato dietro la sua schiena - hai sonno? - 
- Sì - Ismaël rimase in silenzio qualche attimo, a rimuginare su dei discorsi abbozzati, opprimenti ma appena accennati, una gabbia a matita leggera - non ti da fastidio la normalità? Io temevo che mi soffocasse e sono partito per il Nicaragua, non volevo rimanere schiacciato da una vita comune - 
- Questa non è una vita comune, con il sorriso di chi si sente dal lato giusto stiamo portando avanti qualcosa di rivoluzionario - la stretta decisa a sottolineare le parole, pelle che scorre su pelle. 
- È involontario - brontolò Ismaël con le palpebre abbassate. 
- E il tuo aiutare come volontario in un’organizzazione di pace la popolazione di un paese uscito da una guerra civile era volontario? Hai appena detto che era per fuggire da una vita normale - domandò lo scrittore. 
- Non ho una mente brillante per farlo in altro modo. Non provavo pena o struggimento, un modo come un altro. Un’opportunità per viaggiare. È stato divertente, non giusto - asserì convinto Ismaël. 
- L’importante è che io sappia che non è così - Stéphane sorrise. 
- Comunque adesso non potrei rinunciarvi…- bofonchiò Ismaël lasciandosi baciare; - a questa vita, si intende - 
Sentì il sorriso di Stéphane sugli angoli della bocca e poi un miagolio come un pianto, freddo. 

- Ha fatto un incubo - affermò Stéphane stringendo Michelle e cullandola; - terza notte di seguito - 
- Piccola - mormorò Ismaël facendo spazio sul divano ad entrambi, era talmente stanco che non riusciva ad alzarsi per andare a letto. Era la terza notte di seguito che Michelle si svegliava piangendo per degli incubi che non riusciva e non voleva raccontate, l’unica spiegazione consisteva nell’inizio dell’asilo la settimana successiva. Racimolare le forze per andarle a prendere un cristallo di zucchero in cucina fu difficoltoso ma ci riuscì e poi, indeciso tra l’andare a letto o aspettare che Michelle si riaddormentasse tra le braccia del padre, stazionò appoggiandosi alla parete, contro lo spigolo dello stipite. 
- Maël, dicevo - chiamò Stéphane proteggendo dai mostri la figlia, stringendola contro il petto e accogliendo nell’incavo della spalla le ultime lacrime della piccola; - mi piacerebbe fare una lettura al Pelloutier, ma pensavo di utilizzarti come seconda voce. Che ne dici? -
- Io non ci salgo su un palco, per quanto basso sia - mugugnò ostinato Ismaël. 
- Registrata, si intende. In russo, un gioco acustico - lo prese in giro lo scrittore, facendo scemare le parole nel contatto visivo. 
   
 
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