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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    30/04/2012    8 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

Now I can't breathe
Now the rain's falling down and I'm ripped at the seams
Feels like I'm drowning
In you but my tears reveal more than my fears
'Cause I
I'm terrified
I'm terrified

Jordyn Kane - Terrified

11. Terrified

Aprii gli occhi lentamente, cercando di abituarmi alla luce del giorno che filtrava dalla finestra, illuminando la stanza. Lanciai un’occhiata alla sveglia sul comodino: erano le nove appena passate; c’era ancora tempo.

Richiusi gli occhi, lasciandomi andare nuovamente contro il fianco di Edward, sospirando leggermente. Sfregai la guancia contro il suo petto, godendomi la sensazione della sua pelle contro la mia, del suo calore che mi riscaldava facendomi desiderare di non alzarmi mai più da quel letto, del suo battito regolare sotto l’orecchio e delle sue braccia che mi stringevano protettive a lui.

Dopo pochi minuti sentii il suo battito cardiaco accelerare, e il suo corpo risvegliarsi. Piegai la testa all’indietro, fino a scorgere le sue palpebre sollevarsi.

Mi sporsi fino a lasciare un bacio sulla sua mascella, coperta da un leggero strato di barba che mi solleticò le labbra e le guance. «Buongiorno», sussurrai.

Le sue sfiorarono la mia fronte. «Buongiorno».

Tornai a riposare sul suo petto. Nessuno di noi sembrava disposto ad alzarsi ancora. La sua mano scivolava lenta avanti e indietro lungo la mia schiena, sollevando di tanto in tanto il tessuto della camicia da notte, arricciata fino ai miei fianchi. Sollevai una gamba, fino a sfiorare con la coscia il suo bacino, venendo a contatto con la sua erezione mattutina. Lo sentii trattenere a stento un gemito di piacere e sorpresa.

Si irrigidì, trattenendo il respiro.

Mossi una mano lungo il suo petto nudo, scivolando lentamente verso il suo stomaco, accarezzando con il palmo e i polpastrelli la sua pelle morbida e la carne soda e calda.

La sua stretta intorno alla mia vita si intensificò, e prima ancora che potessi opporre resistenza Edward ribaltò le nostre posizioni, facendomi ritrovare schiacciata fra il suo corpo ed il materasso. Chinò il viso sul mio, sfiorando con il suo naso il mio, tenendo le nostre labbra a distanza.

«Non devi andare a lavorare?», sussurrai, accarezzando con le dita i suoi capelli, più scompigliati che mai.

Le sue labbra si piegarono in un piccolo sorriso sghembo. «Abbiamo ancora un’ora per noi», rispose solamente, la voce arrochita dal sonno e dal desiderio. Le sue labbra sfiorarono l’angolo della mia bocca, leggere. Le sue mani percorsero le mie cosce, fino ad arrivare ai fianchi, aprendole per farsi spazio con il bacino. «Correrò per arrivare in orario, non importa», mormorò, scendendo a baciarmi la gola mentre un gemito lasciava le mie labbra, avvertendo il contatto fra i nostri bacini.

Sentii le sue mani sotto la camicia da notte, e inarcai la schiena per permettergli di sfilarmela.

Presi il suo viso fra le mie mani, guardandolo negli occhi. «C’è tempo», sussurrai, più a me stessa che a lui.

Lui sorrise. Posò le labbra sulle mie, e ripeté le mie parole contro la mia bocca.

 

Sentii il mio polso venire stretto in una morsa salda, e riaprii gli occhi di scatto. Sentivo il mio cuore battere impazzito nel petto, l’aria calda e pesante intorno a me. La temperatura era alta, e stavo iniziando a sudare.

Mi trovavo in una stanza buia, illuminata da una fioca luce che filtrava dalle tendine tirate di una piccola finestrella. Quando mi calmai avvertii sotto l’orecchio il battito accelerato di un altro cuore, e i ricordi del sogno appena fatto divennero chiari ed evidenti.

Mossi leggermente la gamba che avevo piegato nel sonno intorno al suo bacino, e avvertii chiaramente il contatto con la sua erezione. Edward si irrigidì sotto di me, e strinse maggiormente il mio polso, fermo all’altezza del suo stomaco.

«B-Bella», mi richiamò a denti stretti, con la voce roca e strozzata.

Deglutii, cercando di porre rimedio alla mia gola secca, inutilmente. Cercando di non muovermi troppo allontanai la gamba dal suo corpo, e appena Edward capì che finalmente ero sveglia e vigile lasciò andare il mio polso, che strinsi al petto, imbarazzata. Mi staccai definitivamente da lui, andando a sdraiarmi sul mio lato di letto. Lo vidi rilassarsi leggermente.

«Scusa», sussurrai, ricordando le sue parole di ieri sera riguardo il minare il suo autocontrollo. «Non mi ero accorta di… di quello che stavo facendo».

Edward respirò profondamente. «Lo so. Non fa niente, stai tranquilla».

Si alzò dal letto, dirigendosi verso la sua valigia. Prese le sue cose, poi andò verso il bagno. «Vado a farmi una doccia».

Non dissi niente e rimasi sdraiata nel letto, facendo finta di non averlo sentito aggiungere, prima di chiudere la porta del bagno, quel “possibilmente ghiacciata”.

 

Quella mattina a colazione ero più imbarazzata del solito. Non riuscivo a guardare Edward negli occhi senza ripensare al nostro risveglio, decisamente diverso da quello che avremmo dovuto condividere. E non riuscivo neanche a smettere di pensare al sogno di quella notte, un ricordo di una della tante mattine settimanali che erano comuni quando Edward non era ancora ossessionato dal lavoro e faceva di tutto per passare del tempo con me. Mi mancavano quei ricordi, quelle esperienze, quelle sensazioni di pace interiore. A quel tempo mi bastava risvegliarmi con lui al fianco per poter iniziare bene la giornata.

Riprendemmo il viaggio intorno alle dieci di mattina, e dopo appena venti minuti ci fermammo a Joseph City, attirati dall’insegna gialla di un coniglio che riportava a caratteri neri la scritta ‘Here it is’, ovvero ‘Qui c’è’. Si trattava di un negozio abbastanza vecchio ed ampio, il Jackrabbit Trading Post, al cui interno si trovava ogni genere di souvenir che si poteva chiedere: c’erano oggetti di origine indiana, cappelli da cowboy, strumenti per la pesca e anche alcune pietre preziose, insieme ai comuni oggetti con riferimenti al Grand Canyon. Comprai diversi oggetti, soprattutto per Alice e Rosalie, e anche un piccolo acchiappasogni da tenere per me; mi avevano sempre interessato quei piccoli utensili indiani, così rudimentali ma al tempo stesso belli.

Edward girò per il negozio guardando gli oggetti, senza comprare nulla; a differenza mia sembrava non essere interessato ad avere ricordi fisici di quei luoghi. Ritornati in auto riprendemmo il nostro viaggio, e a metà strada per Flagstaff deviammo dalla Route 66, prendendo una strada che ci avrebbe condotti fino al luogo in cui quasi cinquantamila anni fa - secondo quanto hanno stimato gli esperti - cadde un meteorite, ovvero il Meteor Crater; sul confine del cratere si trova un edificio adibito a museo, e una passerella conduce fino alla cresta del buco, incredibilmente profondo.

Dopo una visita di circa un’ora, e dopo aver pranzato nel fast-food del museo, riprendemmo l’auto, diretti verso Flagstaff. Il paesaggio era immutato: una distesa immensa di terra secca punteggiata da saguari e recinzioni di filo spinato ai lati della strada, cespugli secchi e tralicci con fili protesi per chilometri. Non incontravamo mai nessuno lungo il nostro percorso. Sembrava di essere in mezzo al nulla.

Una volta entrati nella città di Flagstaff ci fermammo per fare rifornimento. Mentre passavo il lavavetri bagnato sul parabrezza per ripulirlo dalla polvere rossiccia e dai moscerini Edward mi guardava, pensieroso.

«Che c’è?», gli chiesi dopo diversi minuti di silenzio, durante i quali si ostinava ad osservarmi senza proferire parola.

«Ricordi quando mi hai chiesto se volevo tornare a Chicago?», domandò.

Annuii, voltando il lavavetri dalla parte della gomma, per togliere l’acqua.

Edward seguì il movimento della mia mano, con una ruga di indecisione a piegargli la fronte. «Non sarebbe una cattiva idea se posticipassimo di qualche giorno il ritorno, no?»

Sorrisi. «Per niente», risposi. «Quindi neanche tu hai molta voglia di tornare, dico bene?»

Riposi il lavavetri nella ciotola accanto alle pompe di benzina, e salii in auto con lui. Edward accese il motore, e non rispose.

«All’ospedale va bene che ti prenda dei giorni in più?»

Si immise nel traffico, restando sempre in silenzio. Quando ormai ero certa che non mi avrebbe risposto, disse: «Hanno detto che posso prendermi tutto il tempo che mi serve prima di ritornare, quindi non ci sono problemi».

Aggrottai le sopracciglia, perplessa. Da quando l’ospedale concede ferie illimitate?, stavo per chiedergli ancora, ma lui mi precedette, domandandomi se preferivo passare un pomeriggio di relax o andare direttamente al Grand Canyon. Scelsi la prima, e quando lasciammo alle nostre spalle la Route 66 per dirigerci a sud, verso un parco dove poter passare il pomeriggio, non ebbi più il coraggio di chiedergli nulla; l’espressione cupa che avevo visto più volte sul suo viso era tornata a ingrigire i suoi occhi, facendomi solo desiderare di vederlo di nuovo sorridere.

 

Il Red Rock State Park era un parco a diversi chilometri da Flagstaff, adatto soprattutto per gli appassionati di trekking, ed era anche un punto di osservazione di diverse specie di uccelli. Tuttavia, né io né Edward eravamo giunti fino lì per camminare, ma solo per raggiungere il lago che si trovava non molto distante dal parcheggio delle auto, per poter passare il pomeriggio immersi nel silenzio della natura e il più lontano possibile dall’automobile. Dopo una settimana intera di viaggio no-stop era giunto il momento di fermarci per qualche ora, giusto il tempo per riposarci e goderci quel sole splendente, che a Chicago era molto difficile trovare perfino in pieno Agosto.

Prendemmo una delle coperte che si trovavano nella macchina di Emmett, uno zaino con alcune cose da bere e mangiare e percorremmo il sentiero più breve che conduceva al lago. L’erba intorno al sentiero sterrato era alta e fitta, verdissima. Nell’aria si respirava il profumo di sole, erba, lago e fiori. Non c’era vento, ma l’afa era più respirabile rispetto che in centro città o sulla strada. Non c’era molta gente nel parco, a giudicare dalle poche auto accanto alla nostra.

Raggiungemmo la nostra destinazione venti minuti di camminata dopo, e il panorama era bellissimo: il lago era uno specchio d’acqua in cui si riflettevano le pietre rosse distanti, gli alberi verdi e gialli che arrivavano fino alle sponde, protendendosi sulla superficie chiara; da un lato era costeggiato da una zona erbosa, mentre dall’altra c’erano delle rocce rosse che si immergevano nell’acqua, che diventava sempre più profonda. Non c’era nessuno oltre a noi, e sembrava quasi di essere in un piccolo paradiso personale.

Andammo a sistemarci sul prato, poco distanti dall’acqua e accanto ad un albero, in modo da poterci riparare all’ombra della sua fronda nel caso il sole fosse diventato troppo battente; stendemmo la coperta, e aspettai che Edward si sfilasse la maglietta per decidermi a togliermi la canotta e i pantaloncini di jeans, per restare in costume, indossato poco prima nel retro del furgoncino. Mi sfilai anche le scarpe, e mi sedetti sulla coperta.

Guardai Edward, e mentre lo osservavo pensai che c’era qualcosa di diverso nel suo corpo: le braccia sembravano più muscolose, non erano più sottili e magre come un tempo. Forse aveva ripreso ad andare in palestra, come faceva prima di iniziare a lavorare assiduamente, oppure ero semplicemente io a non ricordare bene come fosse il suo corpo un anno prima. Distolsi lo sguardo prima che mi notasse intenta ad osservarlo, imbarazzata.

Il sole era davvero forte, e mi sembrava già di sentire la pelle bruciare; sicuramente il giorno dopo sarei stata rossa come un’aragosta se non mi fossi sbrigata a mettere qualche crema protettiva. Presi lo zaino, sperando di non aver dimenticato la protezione solare nella valigia insieme alle altre creme, e quando la trovai tirai un sospiro di sollievo.

Ne stesi un po’ sulle braccia e il petto, cercando di arrivare fin dove riuscivo sulla schiena. Quando richiusi il barattolo lo tesi ad Edward.

«Vuoi che te la metta sulla schiena?», mi chiese, aprendo il tappo.

Annuii leggermente, e mi voltai fino a dargli le spalle; raccolsi i capelli da un lato, e aspettai. Mi resi conto di avere i nervi a fior di pelle solo quando sentii il contatto con le sue mani, che si posarono sulla mia schiena quasi inaspettatamente. Trattenni il fiato, sperando che scambiasse i brividi che mi avevano appena percorsa per una reazione alla crema fredda.

Con i palmi spalmò la crema nella parte alta della schiena, raggiungendo poi sulle spalle. Chiusi gli occhi, sentendo la sua pelle scivolare sulla mia, in una carezza lenta che sembrava quasi un massaggio. Quando sentii le sue mani percorrere di nuovo la mia schiena, scendendo verso il basso, rabbrividii. Si fermarono sui miei fianchi, finendo il lavoro che non ero riuscita a terminare.

Appena sentii le sue mani allontanarsi dalla mia vita aprii gli occhi e rilasciai i miei capelli, poi mi voltai. Presi la crema dalle sue mani, senza incrociare i suoi occhi. «Girati», sussurrai solamente.

Edward fece come gli dissi, e mi inginocchiai dietro di lui, iniziando a compiere gli stessi movimenti che poco prima aveva svolto lui con me. Accarezzai la zona fra le scapole, risalendo fino alle spalle, scendendo poi lungo le sue braccia, indugiando sui muscoli che sentivo sotto le dita. Non mi ero sbagliata, le sue braccia erano molto più sode e muscolose rispetto a un anno prima.

«Hai ripreso ad andare in palestra?», gli chiesi, cercando di assumere un tono disinvolto.

Lo sentii irrigidirsi. «Non proprio».

Rimasi in silenzio, aspettando che continuasse. Risalii lungo le sue braccia, tornando alla schiena, rallentando i movimenti senza nemmeno accorgermene.

«Ho preso qualche lezione di box», disse infine, probabilmente capendo che attendevo una risposta.

Aggrottai le sopracciglia, perplessa. «Lezioni di box? Da quando ti interessa la box?»

«Mi aiuta a rilassarmi, tutto qui», tagliò corto, evidentemente restio a parlarne.

Non riuscivo a immaginare quelle mani delicate, abituate a muoversi sinuosamente sui tasti d’avorio di un piano e capaci di curare le persone, chiudersi a pugni per picchiare altra gente. Mi sembrava una cosa contro natura, in qualche modo.

Feci scivolare le mani lungo la sua schiena chiara, fino a pochi centimetri dall’orlo dei pantaloncini da mare che indossava. Lo sentii irrigidirsi, e altri brividi mi attraversarono.

Finii di spalmargli la crema in fretta e furia, ritirai il tubetto nello zaino e afferrai il mio libro da leggere; dopo essermi sdraiata sulla coperta nascosi il mio viso fra le pagine, fingendo di essere immersa nella lettura. Cercavo di mantenere un ritmo respiratorio pressoché normale, ma non ero sicura di esserci riuscita.

Dopo pochi minuti Edward si alzò, e lo vidi allontanarsi verso il lago. Sospirai, lasciando cadere il libro sul mio viso, per ripararmi dal sole cocente. Faceva più caldo di quanto mi aspettavo; se non fosse stato per l’improvvisa stanchezza che l’afa agiva su di me, probabilmente mi sarei spostata all’ombra dell’albero, lasciando perdere il mio proposito di dare un po’ di colore alla mia pelle lattea. Mi rilassai sulla coperta, sentendo intorno a me nient’altro che i rumori delle foglie mosse da un leggero vento, i tonfi leggeri dell’acqua del lago, e ogni tanto il verso di qualche uccello distante. Era così pacifico che ero perfino sul punto di addormentarmi. Fino a quando non sussultai al contatto con qualcosa di ghiacciato che si posò sulla mia pancia all’improvviso.

«Edward!», strillai, balzando a sedere e lasciando cadere il libro al mio fianco, scomposto, e per poco non sbattei la testa contro quella di Edward, chino su di me. Era completamente bagnato, e i capelli continuavano a gocciolare, bagnandomi lo stomaco.

Rise divertito, mentre osservava la mia espressione sorpresa e quasi atterrita. Lo spinsi all’indietro, facendolo cadere sulla coperta, e scacciai le gocce fredde dalla pelle.

«Sei pazzo», esclamai, cercando di respirare profondamente per riprendermi dallo spavento.

Lui continuava a ridere e si protese in avanti, verso di me.

Alzai una mano per fermarlo. «Stai lontano. Sei ghiacciato».

«Solo perché sei stata troppo tempo al sole», ghignò, avvicinandosi.

Mi alzai in piedi, allontanandomi prima che potesse afferrarmi per bagnarmi. Imitò il mio movimento, e in poco tempo mi ritrovai a correre per il lungolago, con Edward alle calcagna che mi inseguiva.

Era una fortuna che quel posto non fosse frequentato, altrimenti non credo che ad altre persone sarebbe piaciuto venire disturbate da due ragazzi un po’ troppo cresciuti che si rincorrevano ridendo e scalpitando come pazzi. Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo, e bastavano quelle risate per farmi smettere di pensare in modo pessimistico al futuro.

Arrivai fino alla zona di pietra accanto al lago, rallentando per evitare di sfracellarmi sulle rocce: la storta dell’altro giorno era già un ricordo, ma non avevo intenzione di ripetere l’esperienza tanto presto, soprattutto accompagnata da graffi o escoriazioni. Prima che potessi raggiungere i cespugli le braccia di Edward mi circondarono, facendomi scontrare contro il suo petto bagnato. Inarcai la schiena, sentendo l’acqua fredda a contatto con la mia pelle calda per il sole. Edward sfregò il viso contro il mio collo, cercando di bagnarmi ancora di più, ridendo.

«Va bene, va bene, hai vinto!», esclamai, scoppiando a ridere quando la sua barba corta mi solleticò la pelle sensibile del collo.

Mi lasciò andare, e inaspettatamente mi prese in braccio, infilando un braccio dietro le mie ginocchia e l’altro dietro la schiena. Alzai il capo, guardandolo senza capire, mentre alcune gocce scivolavano dai suoi capelli al mio viso, bagnandomi. Dopo qualche secondo di contatto non sembrava più così freddo.

«Cosa…», iniziai, non capendo il motivo del suo gesto.

Mi interruppi quando le sue labbra si piegarono in un sorriso sghembo e fece un passo in direzione del lago.

«Non ci provare», lo minacciai, stringendomi alla sua spalla, cercando di liberare le gambe dalla sua stretta per scendere. «Edward, guai a te se mi butti in acqua. Potrei sfracellarmi sulle rocce».

Lui rise. «Ho controllato prima. Non c’è alcun pericolo».

Ormai era arrivato sul bordo di una roccia, e sotto di me vedevo già l’acqua scura del lago. Allacciai le braccia intorno al suo collo. «Non ho alcuna intenzione di fare il bagno qui. L’acqua sarà ghiacciata».

Edward sorrise. «Devi solo abituarti alla temperatura. Non è così fredda, sei tu ad essere bollente per colpa del sole».

«La temperatura solare va benissimo, credimi», replicai.

Sentii il suo braccio dietro la mia schiena muoversi, fino a sostenerla con la mano. Forse ero sulla buona strada per convincerlo che la sua non era una buona idea.

«Credo che ti si stia per slacciare il costume», mormorò, e sentii le sue dita giocare con i laccetti del reggiseno, tirandoli. Staccai le braccia dal suo collo per correre a fermare la sua mano, senza pensare al fatto che il suo era solo un trucco affinché lo lasciassi andare. Solo quando mi ritrovai a mezz’aria, dopo che lui mi aveva lanciata, mi ricordai di chiudere la bocca e smettere di respirare. Il contatto con l’acqua avvenne in pochi secondi, e appena riemersi sentii un altro tonfo accanto a me, che mi schizzò di gocce sul viso.

Tirai i capelli indietro, e dopo essermi assicurata che il reggiseno del costume fosse ancora ben allacciato mi lanciai contro Edward, appena riemerso. Cercai di spingerlo per le spalle in basso, inutilmente, ma alla fine mi arresi.

Lui continuò a ridere, e gli gettai addosso più acqua che potevo. Afferrò i miei polsi, fermando i miei attacchi, e mi attirò a sé, sorridente. «Sei ancora convinta che l’acqua sia ghiacciata?»

Feci una smorfia, trattenendomi dal mentire: aveva ragione, dopo appena un paio di secondi mi ero già abituata alla temperatura, e non faceva affatto freddo. Ma non volevo dargliela vinta. «Non è neppure calda, però», ribattei.

Edward scosse il capo, alzando gli occhi al cielo. «Mi darai mai la soddisfazione di sentire un ‘hai ragione’?»

Gli feci la linguaccia. «Mai».

Lui inarcò un sopracciglio, l’espressione divertita. Lasciò andare i miei polsi, e si allontanò a nuoto, immergendosi e rispuntando poco più in là di tanto in tanto. Lo seguii, avventurandomi per quelle acque che ancora un po’ mi spaventavano: in quella zona non si vedeva cosa c’era sul fondo, e non sapevo se c’erano anche alghe, o se erano pietre e sabbia. Non sapevo nemmeno dire quanto fosse profondo in quel punto: sapevo solo che né io né Edward toccavamo con i piedi.

Mi sdraiai a pancia in sù, osservando il cielo azzurro, privo di nuvole. Sembrava di essere in un altro posto, su un altro pianeta. I problemi di Chicago sembravano lontani anni miglia, irraggiungibili. Avrei potuto passare le mie giornate così: a viaggiare di posto in posto, di Stato in Stato, visitando parchi e città, decidendo di volta in volta se fermarmi o proseguire. Non era una cosa fattibile, lo sapevo, ma in quel momento l’idea era davvero allettante.

Mi rimisi in verticale, tornando ad immergere completamente i piedi. Mi voltai per cercare Edward, ma in quel momento sentii qualcosa strisciare accanto alle mie gambe, e subito dopo stringermi le caviglie. Urlai, iniziando a dimenarmi, cercando in giro Edward per chiamare aiuto, e lui uscì dall’acqua davanti a me, scoppiando a ridere non appena fu all’aria aperta. Lo colpii sul petto, e lo investii con quanta più acqua potevo e mille insulti, dandogli dell’idiota e minacciandolo di non riprovarci se non ci teneva a beccarsi un calcio assestato lì dove non batteva mai il sole.

Prima che mi calmassi posò entrambe le mani sui miei fianchi, attirandomi a sé, mentre tenevo ancora le braccia incrociate sotto il seno con un broncio simile a quello di una bambina dell’asilo. Sorrise, ancora evidentemente divertito. «Scusa. Non ho saputo resistere».

«Guarda che il calcio te lo posso tirare anche ora, se non la pianti di prendermi in giro», lo minacciai ancora.

Finalmente l’espressione divertita lasciò il suo viso, rimpiazzata da un’espressione più seria, e quasi sorpresa.

Feci un sorriso trionfante. «Ecco, così va meglio».

Provai a sciogliere l’intreccio delle mie braccia, e solo quando scontrai i gomiti contro il petto di Edward capii cos’era stato a far cedere l’espressione divertita più delle mie minacce: eravamo vicinissimi, praticamente attaccati l’uno all’altra, e i nostri visi erano separati solo da pochi centimetri.

Rimasi immobile per diversi secondi, e il mio sguardo lasciò il suo per scendere fino alla sua bocca, lucida e bagnata dall’acqua del lago. Una scossa percorse il mio corpo, partendo dalla nuca e arrivando fino alla punta dei piedi, percorrendo anche le braccia. Avvicinai il volto al suo, come seguendo un richiamo che improvvisamente aveva iniziato a risuonare nella mia testa, confondendomi e ipnotizzandomi. Vidi il suo viso avvicinarsi a sua volta, i suoi occhi, incatenati ai miei, di un verde così intenso che sembrava quasi in movimento.

Il suo respiro mi accarezzò le labbra bagnate, dandomi i brividi. Era sempre più vicino.

Arretrai prima che le sue labbra si posassero sulle mie, inspirando profondamente l’aria fresca del lago, riuscendo a cogliere l’ultimo barlume di lucidità della mia mente.

Lasciai le sue spalle, e le sue mani liberarono i miei fianchi, permettendomi di allontanarmi.

Mi schiarii la voce. «È meglio se usciamo. Dobbiamo asciugarci prima di riprendere il viaggio», dissi, senza guardarlo.

Con la coda dell’occhio lo vidi annuire, e prima che potesse aggiungere altro nuotai fino alla riva, cacciando indietro il desiderio di tornare da lui.

 

Passai le successive due ore immersa nella lettura del mio libro, riuscendo fortunatamente a distrarmi dalla presenza di Edward, che si era steso al mio fianco a pancia in sù, gli occhiali da sole a nascondergli gli occhi e le braccia distese lungo i fianchi, l’espressione apparentemente rilassata. Ogni tanto faceva commenti disinteressati sul posto, il tempo, la temperatura, come se non fosse successo nulla. Eppure io non riuscivo a fingere che solo pochi minuti prima non fosse successo niente, che non ci fossimo trovati sul punto di baciarci. Fra di noi, soprattutto da parte mia, era tornata a governare la tensione, che rendeva le nostre conversazioni brevi e spesso imbarazzate. I tentativi di Edward di iniziare un discorso erano evidenti: stava cercando di sminuire ciò che era quasi successo, come se tutto ciò fosse una cosa normale e comune, per cercare di non minacciare l’equilibrio della nostra relazione. Avrei voluto assecondarlo, fargli capire che mi andava bene fingere che niente fosse successo, ma la verità era che non riuscivo a smettere di pensarci perché quell’improvviso desiderio di baciarlo mi aveva scombussolata; ricordavo confusamente di aver provato la stessa sensazione due sere prima a Canoncito, quando ero ubriaca e non riuscivo a controllarmi, ma il giorno dopo pensai - mi ero convinta - che la mia fosse stata solo una reazione involontaria suscitata dall’alcol e i ricordi del nostro passato. In quel momento, immersa nelle acque del lago, ero sicura di non avere una sola goccia d’alcol in circolo: ero perfettamente sobria, capace di intendere e volere, e il desiderio provato nei confronti di Edward non era solo dovuto alla semplice attrazione fisica, ma a qualcosa che andava oltre. E questo mi faceva paura. Ero rimasta letteralmente terrorizzata dai sentimenti che stavo lentamente riscoprendo, e ciò che mi spaventava ancora di più era ciò che avrei incontrato continuando per quella strada: il dolore, l’ossessione, il bisogno di lui. Volente o nolente era questo ciò che mi avrebbe aspettato se avessi scelto di ripercorrere il cammino insidioso dei sentimenti, e non ero per niente attratta da quella prospettiva.

Edward poteva anche aver ammesso di aver sbagliato, aveva riconosciuto i suoi errori e a giudicare dal dolore che lui stesso provava dubitavo fosse nelle sue intenzioni ripeterli: ma chi mi assicurava che non sarebbe ricascato nello stesso sbaglio? Anche in passato aveva avuto le migliori intenzioni quando aveva iniziato a lavorare di più, ma ciò non si era rivelato una scelta saggia, né per me né per lui. Entrambi avevamo pagato per le sue scelte, e non volevo più correre il rischio di rimanere ferita così duramente: sapevo che se Edward mi avesse costretta a subire la stessa tortura dell’anno precedente probabilmente non mi sarei più ripresa normalmente.

Dopo almeno mezz’ora di silenzio mi decisi a distogliere lo sguardo dal libro, e azzardai un’occhiata ad Edward. Il suo volto era rilassato, come se fosse addormentato: appoggiai il libro di fianco, e mi avvicinai abbastanza da vedere oltre il riflesso delle lenti scure degli occhiali, trovando i suoi occhi chiusi. Anche il respiro era regolare, il petto si alzava e abbassava ad un ritmo lento.

Libera dal suo sguardo, mi presi la libertà di osservarlo a lungo, rispolverando vecchi ricordi e informazioni che per molto tempo avevo tenuto in disparte, costringendomi a chiuderle in un cassetto della mia mente. Ricordavo ancora con precisione il punto esatto in cui si trovava la piccola cicatrice - quasi invisibile - vicina all’attaccatura dei capelli, sulla sua fronte, alla mia sinistra; ricordavo fosse dovuta ad una caduta dalla bicicletta quand’era ancora un bambino, e la sua espressione buffa mentre mi raccontava quell’aneddoto. Sapevo che la zona dietro l’orecchio era molto sensibile, e che bastava passarci la punta delle dita per farlo ridere per il solletico.

Guardai la barba corta, feci mente locale che fossero passati due giorni dall’ultima volta che se l’era fatta, e ricordai con un sorriso di quell’unica volta in cui mi ero azzardata a provarci io, finendo per fargli un piccolo taglio: da quel momento mi ero rifiutata di provarci ancora, anche se lui si era messo a ridere quando per poco non svenivo dopo aver visto la sua guancia macchiarsi di sangue e mi aveva spronata a riprovare un’altra volta. Del resto mi piaceva perfino di più quando aveva un po’ di barba, e dopo il primo giorno - che era ispida e fastidiosa - diventava anche più piacevole da toccare. Il secondo giorno in genere era già più morbida.

Lanciai un’altra occhiata oltre le sue lenti, trovando le palpebre ancora abbassate, e poi allungai una mano fino a sfiorare con la punta delle dita la barba corta sulla sua mascella, sentendo la consistenza ruvida dei peli che pizzicavano i polpastrelli in modo piacevole. Sfiorai il suo viso fino ad arrivare al mento, e soffermai lo sguardo sulle sue labbra, rosate e carnose al punto giusto, con il labbro inferiore leggermente più pieno del superiore. Notai il suo respiro accelerare e allontanai la mano immediatamente, tornando a nascondermi dietro le pagine del mio libro, terrorizzata che potesse risvegliarsi da un momento all’altro e trovarmi intenta a toccarlo e guardarlo; tuttavia, Edward non si mosse: pochi minuti dopo il suo respiro tornò regolare, ed io tirai un sospiro di sollievo, riprendendo a leggere per distrarmi dal pensiero del suo corpo a pochi centimetri dal mio.

 

Dopo non so quanto tempo di preciso, mi addormentai. Il sole era davvero troppo caldo, ma non avevo voglia di svegliare Edward per spostare la coperta all’ombra dell’albero, per cui rimasi sdraiata lì, con il libro aperto sul viso per ripararmi gli occhi e l’afa che mi stava facendo lentamente addormentare.

Fu Edward a risvegliarmi, quando il sole era ancora alto ma sembrava già prepararsi alla discesa verso l’orizzonte. In pochi minuti raccogliemmo le nostre cose, e dopo esserci rivestiti ci dirigemmo verso l’auto. Saliti in macchina Edward mi tese una bottiglia d’acqua e prendendone un’altra per sé, incitandomi a berla per reidratarmi dopo quelle ore passate sotto il sole cocente.

La strada per arrivare al Grand Canyon National Park - la nostra meta di quel giorno - consisteva in buona parte nel ripetere a ritroso la strada compiuta dopo pranzo fino a Flagstaff, e subito dopo proseguire ancora in direzione Nord, oltre la Route 66, per arrivare dopo più di due ore di viaggio ai cancelli del parco nazionale. Pagammo il nostro ingresso con il furgoncino, e seguimmo la strada principale che attraversava una foresta per arrivare fino al Grand Canyon Village dove si trovava l’hotel presso cui avevamo intenzione di pernottare. Quando arrivammo alla lobby il sole era già tramontato da un pezzo, e dopo aver lasciato le valigie in camera andammo a cena in una piccola osteria del villaggio. Non era molta la gente in giro, probabilmente anche per l’ora tarda, e quando decidemmo di fare una passeggiata lungo la strada pedonale che costeggiava la valle del canyon - completamente buia, e quasi impossibile da riconoscere se non per la fioca luce della luna che illuminava solo alcuni contorni - ci ritrovammo soli, immersi nel silenzio totale. Non c’era il rumore dell’acqua o dei ristoranti a farci compagnia, e nemmeno il soffio del vento, che era assente. Sembrava che ci fossimo solo io e lui, intenti a passeggiare tranquillamente lungo un sentiero illuminato solo da alcuni piccoli lampioni, costeggiato da un lato da un muretto di pietre che separava dallo strapiombo e dall’altro dal giardino verde che circondava l’hotel. La nostra stanza era una di quelle che stavamo passando in quel momento, al quarto ed ultimo piano dell’edificio. Probabilmente il mattino seguente avremmo avuto una vista mozzafiato quando ci saremmo svegliati.

Quando tornammo in camera mi cambiai immediatamente, indossando una camicia da notte leggera. Edward rimase vestito, in piedi vicino alla porta. Lo guardai senza capire.

«Non ti cambi per dormire?», gli chiesi, confusa.

Lui giocherellava con le chiavi della camera, senza muovere un passo. «Pensavo di andare a bere qualcosa al bar», disse, come se fosse una proposta.

Aggrottai le sopracciglia. «Va bene», dissi. «Vuoi che ti accompagno?»

Lui scosse il capo. «No, non preoccuparti. Tu inizia pure a dormire, una decina di minuti e ti raggiungo», mi assicurò, aprendo già la porta della stanza.

Feci solo in tempo ad annuire, e poi lui sparì nel corridoio, lasciandomi sola, nella confusione totale.

 

Dopo che Edward se ne era andato mi ero infilata nel letto e avevo spento le luci, non senza prima essermi assicurata di aver tirato bene le tende delle finestre, per evitare che il sole ci svegliasse troppo presto il mattino seguente. Sebbene avessi dormito già nel pomeriggio, caddi presto in un sonno profondo, nonostante sentissi la mancanza del corpo di Edward accanto al mio.

Furono due braccia che mi strinsero all’improvviso e senza preoccuparsi di non disturbarmi che mi risvegliarono nel cuore della notte, mentre la stanza era ancora immersa nel buio.

All’inizio mi spaventai, ed ero già sul punto di gridare quando riconobbi la figura di Edward dalla sua barba corta e il suo profumo, e dalla sua voce che usciva a sussurri spezzati, pronunciando parole sconnesse e senza senso. Mi lasciai attirare nel suo abbraccio.

Gli accarezzai il braccio, lasciato scoperto dalla maglietta che indossava come pigiama. «Edward…?», lo chiamai, confusa e assonnata.

Sentii il suo corpo venire scosso da tremiti, e il viso premere contro il mio collo, bagnandolo.

Impiegai alcuni secondi per capire che ciò che stava lentamente colando dalle sue guance sulla mia pelle altro non erano che lacrime, e che i tremiti che scuotevano il suo corpo erano singhiozzi trattenuti. La scoperta mi lasciò incapace di agire per un istante.

«Edward? Edward, cos’è successo?», gli chiesi, allarmata, cercando di allontanarmi per poter accendere la luce e potermi assicurare che fosse tutto intero e non fosse ferito. Poco importava che fosse lui il medico fra di noi. Ma le sue braccia mi tennero stretta a lui, impedendomi di muovermi.

«Edward, ti prego parla, mi sto spaventando», dissi, cercando di abbracciarlo come potevo, accarezzandogli i capelli, sentendomi completamente inutile.

Sentii la sua presa intorno a me farsi più stretta, e dire qualcosa contro il mio collo, che ripeté qualche istante dopo. «Va tutto bene, non preoccuparti», disse con la voce roca e spezzata. In un’altra situazione probabilmente avrei riso: era lui quello che stava piangendo, eppure era sempre lui a cercare di tranquillizzarmi dicendo a me che tutto andava bene; decisamente non era affatto così.

«Non va tutto bene», sussurrai, agitata e spaventata. Lo strinsi di più a me, sentendo le lacrime continuare a bagnarmi il collo. «Cosa ti è successo?»

Edward respirò profondamente contro la mia pelle, senza allentare la presa intorno alla mia vita. «Bella, per favore… non riesco… a parlarne… adesso…»

Accarezzai i suoi capelli. «Va bene. Non preoccuparti, va tutto bene. Ci sono qui io», sussurrai.

Quella notte non dormii. Rimasi sveglia a cercare di calmare Edward, che perfino nel sonno si agitava e non trovava riposo. Rimasi vigile fino a quando non vidi l’alba nascere dietro le tende, e la luce entrare nella stanza attraverso le fessure delle tende.

Ero sveglia anche quando sentii Edward mugugnare nel sonno una frase che mi avrebbe tormentato per giorni interni: «Mi dispiace, Lizzy».

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salve!! :D

Oggi sono un po' in ritardo, sono riuscita a finire il capitolo solo stanotte >.< Spero di riuscire a farcela anche per settimana prossima ad essere puntuale, ma non posso assicurare niente dato che sto preparando un esame :/

Come sempre grazie mille per tutti coloro che continuano a seguire la storia e un benvenuto ai nuovi lettori *_* Adesso aggiungo le foto dei due parchi visitati in questo capitolo e finisco di rispondere alle ultime recensioni :)

Alla prossima! :*

   
 
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