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Autore: Whatadaph    03/05/2012    4 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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Capitolo 5

“Gellert Grindelwald”

 

Beta: Unbreakable Vow ♥

 

 

Albus non sapeva bene cosa pensare, e non perché non avesse idee – quando mai gli era accaduto di non averne? Al contrario: il giovane non sapeva bene che cosa pensare perché le idee nella sua testa erano così tante e talmente scintillanti che faticava a distinguerle. Per non parlare di estrarne una da quel groviglio per elaborarla, come faceva Kendra quando si dilettava a districare un filo da una di quelle matasse che ai figli parevano inestricabili.

 

Era andato in casa di Bathilda con l’idea di accettare un tè, sorridere educatamente e scambiare quattro chiacchiere formali con quel Gellert, per poi tornare il prima possibile da Ariana ad autocompiangersi. Ma adesso, mentre il cancelletto della propria abitazione strideva nei propri cardini, i pensieri di Albus migravano in tutt’altra direzione. Altro non faceva che ripercorrere nella propria mente ogni passo o parola del pomeriggio appena trascorso, sentendosi addosso un curioso senso di trepidazione. Gellert Grindelwald riecheggiava in ogni angolo delle sue meningi, con quel suo apparire abbagliante ma al tempo stesso a tratti ambiguo.

 

Era giunto in casa Bagshot in perfetto orario, quel pomeriggio, senza smentire minimamente la sua proverbiale puntualità. Alle cinque in punto aveva premuto l’indice sul campanello, e non aveva dovuto attendere molto perché Bathilda aprisse la porta con quel suo lieve sorriso sveglio impresso sulle labbra.

 

“Oh, Albus,” gli si era rivolta amabilmente. “Sono lieta che tu sia venuta.”

 

“Salve, Bathilda,” aveva risposto lui in tono misurato. “Come stai?”

 

La donna gli aveva assicurato di essere in perfetta salute, poi con aria apprensiva gli aveva domandato come stesse lui. Albus aveva educatamente risposto che stava benissimo, grazie – anche se non era del tutto certo di averla convinta.

 

“Gellert, forza!” aveva poi gridato Bathilda sporgendosi verso le scale. “Scendi giù, che è arrivato Albus Dumbledore!”

 

Dal piano superiore non era giunto alcun segno di vita. Bathilda aveva aggrottato le sopracciglia, preoccupata.

 

“Sai,” si era rivolta in tono confidenziale al giovane Dumbledore, “non credo gli faccia bene starsene sempre rinchiuso nella sua stanza, il naso sui libri... Ha una mente notevole, ma è così giovane! Gli farebbe bene una boccata d’aria, di tanto in tanto.”

 

Albus aveva annuito con aria comprensiva. Poi, giacché ancora nessun rumore era riecheggiato per le scale, aveva ripreso la parola: “Bathilda, forse non è il momento adatto... Non vorrei disturbare,” aveva detto in tono pacato.

 

"Ma no, Albus, figurati!” Bathilda gli aveva sorriso un po’ nervosamente, “Forse Gellert non avrà sentito, è talmente preso dai suoi studi...”

 

“Appunto, davvero. Forse è meglio che va-”

 

“Arrivo!” un grido proveniente dal piano superiore aveva interrotto la sua frase ancora a metà, d’improvviso, facendolo sobbalzare... Lo aveva stupito quell’intonazione fremente, quasi ansiosa. Era lo stesso tono frenetico che solitamente assumevano i pensieri nella sua testa quando un’idea geniale minacciava di disgregarsi irrimediabilmente, sfilacciandosi sempre di più fra le dita al tentare di trattenerla.

 

Uno scalpiccio era risuonato per le scale: Albus si era voltato in quella direzione, e lungo i gradini quello che doveva essere Gellert Grindelwald metteva uno svelto passo dietro l’altro, nell’ombra. Quando finalmente aveva raggiunto l’ingresso inondato dal sole pomeridiano, per Albus era stato possibile scorgere la sua figura con maggiore chiarezza.

 

Era un giovane sottile, non troppo alto, con polsi nodosi che facevano capolino dall’orlo delle maniche della giubba che indossava. Il suo viso era leggermente squadrato, dalla mascella sicura, la sua carnagione caratterizzata da quello stesso pallore vagamente malsano della pelle di Albus.

 

Aveva un viso dai lineamenti cesellati, a tratti androgini, con folte sopracciglie bionde a tagliarlo per orizzontale. Quasi a delimitare lo spazio, smorzare la sottile ambiguità dei suoi tratti. La sua testa era ricoperta da ricci dorati e lucidi, simili a un’aureola.

 

Poi Albus l’aveva guardato dritto negli occhi, quasi rabbrividendo. Erano svegli e sgranati, di un colore misto – un grigioverde limpido, uniforme, a metà. C’era uno strano bagliore che ardeva nel fondo di essi, un bagliore stridente e in qualche modo sinistro, selvaggio.

 

Improvvisamente, Albus aveva avvertito per la prima volta lo spazio come un’entità a sé stante, viva e consistente. Lo spazio esisteva ed era denso, esisteva ed era fatto di troppa distanza. Si era accorto di avere una gran voglia di parlare, tanto e a lungo. Parlare e sputare fuori ogni cosa. Raccontare a Gellert Grindelwald cosa volesse dire essere Albus Dumbledore, colui che aveva sempre la soluzione in tasca. Raccontargli chi era davvero, francamente e nel profondo. Parlare di quel senso di prigionia, quel sentirsi tarpare le ali da un villaggio bigotto e una sorella senza colpe.

 

Parlare di sogni infranti, di speranze perdute.

 

“Oh, ecco Gellert!” la voce di Bathilda era risuonata per l’ingresso, stranamente inopportuna. “Eccoti qui! Lui è –”

 

“Albus,” si era fatto avanti con la mano tesa e la testa alta. “Albus Dumbledore.”

 

Il giovane era parso soppesarlo con lo sguardo. “Gellert.”

 

I loro sguardi si erano poi incrociati, e le labbra di Gellert si erano incurvate in un sorriso improvviso e disarmante che aveva coinvolto il volto del ragazzo e l’intera sua figura, come un fuoco d’artificio o il lampo di un fulmine.

 

“Venite di là, ragazzi,” li aveva invitati Bathilda con fastidiosa gentilezza, interrompendo il loro colloquio prima ancora che avesse inizio. “Il tè è pronto.”

 

Li aveva condotti fino in salotto e aveva fatto accomodare Albus sul divano, prima di saltare su e precipitarsi a prendere i biscotti in cucina – “Non mi piace usare la magia per queste sciocchezze... Non sono così pigra!”.

 

Per qualche istante era caduto il silenzio, poi Gellert aveva preso la parola.

 

“Come mai un ragazzo brillante come te resta a marcire a Godric’s Hollow?” l’aveva interrogato, scrutandolo con una curiosità spavalda e all’apparenza quasi morbosa.

 

Albus aveva sostenuto il suo sguardo. “Potrei farti la stessa domanda,” era stata la sua cauta replica.

 

L’altro era parso soddisfatto da quella risposta: le sue labbra si erano incurvate nuovamente in quel suo sorriso fulgente e vagamente impertinente. “Sono stato espulso da Durmstrang,” aveva detto in tono sorprendentemente indifferente, senza cessare di sorridere.

 

Se glielo avessero chiesto, Albus si sarebbe detto piuttosto perplesso: quello specifico provvedimento disciplinare gli era sempre parso come una minaccia consistente ma anche lontana. Non conosceva nessuno che fosse stato espulso, ed era proprio ciò che a lui avrebbe fatto più male... Nutriva un amore viscerale per Hogwarts: per nulla al mondo vi avrebbe rinunciato. Inoltre, un’eventuale sebbene improbabile espulsione avrebbe compromesso definitivamente la sua carriera.

 

Che poi, aveva pensato amaramente, alla fine la mia carriera è stata compromessa comunque.

 

Eppure Gellert Grindelwald non pareva neanche lontanamente sfiorato dalla cosa. Sembrava davvero che non gliene importasse granché... per Albus era qualcosa di inconcepibile.

 

“E come mai?” aveva chiesto, improvvisamente curioso.

 

Gellert aveva abbassato per la prima volta gli occhi. Le ciglia lunghe gli orlavano dolcemente gli zigomi di ombre ondulate.

 

“Non erano alla mia altezza,” aveva risposto lentamente.

 

A quel punto Albus aveva sentito un trasporto improvviso nei suoi confronti. Quante volte anche a lui era accaduto di sentirsi così! Quante volte si era visto costretto a realizzare che assieme al dono della genialità gli era stato riservato anche il lato buio della medaglia. L’eterna solitudine, ecco la sua condanna. Albus Dumbledore non avrebbe mai trovato qualcuno alla propria altezza, qualcuno con cui condividere ogni cosa.

 

Di fronte agli occhi di Gellert Grindelwald, quella certezza per un istante era vacillata.

 

“Adesso tocca a te,” la voce di Gellert era giunta a distoglierlo dai suoi pensieri. “Come mai sei qui?”

 

“Ho finito gli studi quest’anno,” aveva risposto lui quasi distrattamente.

 

Grindelwald aveva inarcato le bionde sopracciglia, e a quel punto la voce di Albus si era messa in moto di proprio conto.

 

“Mia madre è morta,” si era ritrovato a dire, “e io sono –”

 

“Sei rimasto l’unico con la famiglia sulle spalle.”

 

Albus si era detto che fosse sciocco sorprendersi. “È così,” ammise.

 

“Ma perché qui?” aveva insistito Gellert.

 

“Perché mio fratello va ancora a scuola, e mia sorella... devo badare a lei.”

 

Ancora una volta, Gellert aveva puntato gli occhi nei suoi. “È malata?” aveva domandato con vaga cautela.

 

Probabilmente se a rivolgere ad Albus un simile interrogativo fosse stato chiunque altro, lui si sarebbe sentito quantomeno seccato e probabilmente a disagio. Ma sentendosi porre la domanda da Gellert Grindelwald, la percepì in qualche modo diversamente. Gli era parso di intuire nelle sue parole qualcosa di simile a una ricerca – non gli veniva alla mente nessun vocabolo che fosse più appropriato di quello.

 

“Non esattamente,” si era sentito rispondere. “Ariana non riesce a controllare la propria magia,” aveva sospirato.

 

Negli occhi di Gellert riluceva uno strano bagliore. “E per questo rischia di violare lo Statuto di Segretezza.” Non era affatto suonata come una domanda.

 

“Proprio così,” Albus aveva annuito, vagamente sorpreso da tanta perspicacia.

 

“Ecco qui,” Bathilda era rientrata in salotto, sorridendo entusiasticamente nel vederli conversare in tanta confidenza. “Pasticcino, Albus?”

 

“Grazie,” aveva sorriso lui automaticamente.

 

Adoro i tuoi biscotti, zietta,” aveva cinguettato Gellert con un sorriso smagliante.

Albus aveva notato l’affetto del quale gli occhi di Bathilda si erano tinti in risposta a quel sorriso. Aveva sentito una curiosa risatina corrergli su per la gola, e l’aveva trattenuta a stento. Si era scoperto divertito nel prendere nota della sfrontatezza con la quale Gellert teneva le redini della signorina Bagshot, che pure era una donna sveglia. La gestiva allegramente, quasi mettendo alla prova le proprie capacità.

 

Si era ripromesso di stare attento: non si sarebbe di certo fatto manipolare altrettanto facilmente.

 

“Dovreste andare a fare una passeggiata, un giorno di questi,” aveva poi proposto Bathilda. “Vi farebbe bene prendere un po’ d’aria fresca, a tutti e due.”

 

“Ma certo, zia.”

 

Gellert aveva sorriso dolcemente, ma non appena Bathilda si era voltata aveva gettato ad Albus un’occhiata di complice esasperazione, che lui aveva ricambiato.

 

“Davvero, Gellert,” aveva ripreso Bathilda. “Stai sempre chiuso a studiare in quella stanzetta!”

 

“Hai ragione, zia,” aveva annuito il ragazzo, condiscendente.

 

“Che cosa studi?” si era informato Albus, sinceramente curioso.

 

Gli occhi di Gellert si erano quindi posati su di lui per l’ennesima volta.

 

“Incantesimi avanzati,” aveva risposto in tono neutro. “Magia oscura.”

 

La risata di Bathilda si era levata cristallina nel salotto.

 

“Oh, come è divertente,” aveva sospirato la donna. “Gellert scherza sempre.”

 

L’impressione di Albus era stata che Gellert non stesse scherzando affatto, sebbene non avesse smentito in alcun modo le parole della zia. Il giovane Dumbledore non era rimasto granché sorpreso dalla cosa, a dire il vero: sapeva che a Durmstrang le Arti Oscure venivano anteposte alla Difesa da esse.

 

“Ad esempio?” l’aveva stuzzicato.

 

“Maledizioni legate alla Trasfigurazione, perlopiù,” l’altro aveva fatto una pausa. “È una materia che mi piace molto.”

 

“Anche a me,” Albus si era detto d’accordo in tutta franchezza. “È decisamente affascinante.”

 

Gellert gli aveva rivolto un’occhiata di placida sorpresa. “Vedo che abbiamo gusti simili,” era stato il suo commento. A quelle parole, Bathilda era andata in visibilio.

 

Il pomeriggio era poi trascorso in fretta. La presenza di Bathilda era stata ininterrotta e ingombrante: si avvertiva una certa tensione nella stanza, come se ci fosse stato qualcosa rimasto in sospeso – una frase interrotta vibrante nell’aria. Lui e Gellert si erano scambiati poche frasi tutto sommato formali, ma Albus aveva avuto l’impressione che dietro quelle futili chiacchiere vi fosse qualcosa di più... qualcosa che solo la presenza di Bathilda aveva ostacolato.

 

 

Adesso, nell’attraversare l’ingresso in penombra della propria abitazione, Albus rifletteva sulle ore trascorse, tentando di valutare Gellert Grindelwald. Era una sua abitudine, quella di riflettere lungamente sulle psicologie altrui, assegnando loro giudizi il più delle volte molto severi. Tuttavia, si rendeva conto di star incontrando non poche difficoltà nell’attribuire un giudizio appropriato al nipote di Bathilda. Gellert gli aveva dato l’impressione di essere un giovane dalla spiccata intelligenza, appena venata da un velo di ambiguità – quella stessa ambiguità che aveva intuito nel fremito nascosto dietro i suoi lineamenti eterei, e nel bagliore selvaggio che albergava nel fondo di quegli occhi sorprendentemente fissi e sicuri. Era come... come se sapesse qualcosa che gli altri neanche potevano immaginare, e ciò lo rendesse estremamente compiaciuto. Albus si domandò di cosa si trattasse. Si chiese se magari Gellert gliel’avrebbe detto, prima o poi, magari in un momento in cui Bathilda non sarebbe stata presente.

 

Provava nei contronti di Gellert una curiosa sensazione. Per la prima volta in tutta la sua vita, aveva l’impressone di aver trovato un’anima a lui affine. Una persona che avrebbe potuto definire sua pari.

 

Non era più solo sul suo piedistallo.

 

 

 

****

 

 

 

Le voci di Ariana e Aberforth risuonavano allegre dalla camera di quest’ultimo. Albus sentì un improvviso trasporto nei loro confronti, e fu con un sorriso che spinse la porta per farsi strada nella stanza.

 

Probabilmente, si trovò a riflettere, Bathilda aveva ragione: faceva bene mettere il naso fuori casa, di tanto in tanto. Si sentiva già rinvigorito, e il suo umore non era mai stato tanto buono da quando era tornato a Godric’s Hollow.

 

Come sempre, Aberforth e Ariana erano seduti sul tappeto e presi dai loro giochi. Aberforth piegava e ripiegava dei fogli di pergamena sottile affinché prendessero le sagome di animali, stupendo la sorella con figure sempre più strambe. Albus si chiese dove avesse imparato e si rese conto di quanto poco in realtà conoscesse del fratello minore. Ariana osservava gli animali di carta con occhi scintillanti, ridendo e battendo le mani. Poi sollevò gli occhi, incontrando quelli di Albus.

 

“Ciao, Al!” esclamò allegra. Era l’unica persona che mai l’avesse chiamato con quel nomignolo: Aberforth raramente gli rivolgeva la parola, e anche talora lo facesse pareva sempre evitare con cura di dire il suo nome ad alta voce, quasi lo infastidisse. Al contrario, Elphias lo pronunciava per intero con voce velata di ardente ammirazione.

 

“Ciao, Ariana,” fece lui di rimando, quietamente, accomodandosi sul bordo del letto del fratello.

 

Quest’ultimo, che gli dava le spalle, emise un grugnito indistinto per dar segno ad Albus di aver preso nota della sua presenza.

 

E che non è gradita, pensò Dumbledore fra sé.

 

“Ciao anche a te, Abe,” sbottò lui in tono irritato. “Vi saluta miss Bagshot,” disse poi con tono privo di inflessione, “tutti e due.”

 

“Emozionante,” commentò Aberforth con sarcasmo. Albus trattenne una risatina per non dargli soddisfazione.

 

Ariana, dal canto suo, sorrise di quel suo sorriso vago. “Bathilla è buona,” articolò.

 

Anche se non poteva vederlo in volto, Albus percepì il sorriso trasudante affetto del fratello aleggiare nella stanza, quasi fosse un’entità a sé stante. Ariana cercò gli occhi di Albus, che annuì rassicurante.

 

“Com’è quel Grindelwald?” domandò Aberforth. “Mi ha detto Ariana che Bathilda Bagshot non ha fatto altro che blaterare di lui per un mese intero.”

 

“Niente fastidio,” precisò la ragazzina.

 

“Come hai detto?” le chiese Albus.

 

“Niente fastidio,” ripeté lei. “Niente fastidio che Bathilda parla di Gellert. Bathilda piace tanto Gellert.”

 

“Hai ragione,” convenne Albus, “Me ne sono reso conto oggi.”

 

Nel vederlo della sua stessa opinione, Ariana parve illuminarsi. Abe, al contrario, parve quasi contrariato.

 

“Be’?” fece, piegando l’ala di un cigno di pergamena.

 

Albus capì al volo a cosa si riferisse. “Mi è parso essere una persona interessante,” mormorò, cauto.

 

Aberforth si volse nella sua direzione, cosicché i loro identici occhi azzurri e penetranti si incontrassero. Le sue sopracciglia erano inarcate. “È raro che tu lo dica,” commentò.

 

“Credo ti piacerebbe,” ribatté Albus, assolutamente certo del contrario.

 

L’altro ignorò le sue parole. “È stato espulso da Durmstrang, vero?”

 

“Sì...” annuì, fingendosi distratto.

 

“Perché?” fece il fratello.

 

Lui scrollò le spalle. “Non saprei,” fece una pausa. “Si mormora che il regolamento di Durmstrang sia oltremodo rigido, per quanto concerne la disciplina.”

 

Aberforth sbuffò. “Oh, ma la vuoi smettere di parlare come un libro stampato?”

 

Albus era combattuto fra lo scoppiare a ridere o il rispondere al fratello per le rime, ma alla fine non fece nessuna delle due cose. Aberforth lo guardò fisso, aggrottando le sopracciglia. I suoi occhi sembravano dire: “Ancora una volta hai fatto esattamente quel che mi aspettavo da te.

 

“Non ti smentisci mai,” mugugnò infatti Aberforth, arrabbiato.

 

“A cosa ti riferisci?” replicò Albus, serafivo.

 

“Lo sai perfettamente,” il tono dell’altro era brusco.

 

Ariana passava lo sguardo dall’uno all’altro fratello, l’espressione tinta di perplessità. Dumbledore si sentì improvvisamente irritato – forse perché un infinitesimo angolo di lui sentiva di essere dalla parte del torto.

 

Il suo sguardo cadde sulle creazioni di Abe, che Ariana era intenta a rimirare, e improvvisa nella sua mente balenò un’idea. Estrasse la bacchetta e la puntò sui giocattoli dei fratelli, sotto gli occhi grandi e curiosi di Ariana. La mosse appena, e il cignò di pergamena che la ragazzina teneva fra le mani spiegò prima un’ala e poi l’altra, sbattendole lievemente sfuggì dalle sue dita e prese a svolazzare per la stanza. Per un istante parve perdere quota, salvo poi riprendersi immediatamente. Ariana rise e batté le mani, per una volta Aberforth parve sinceramente sorpreso. Uno alla volta, tutti gli animaletti di pergamena cominciarono a prendere vita, e in breve tempo la stanza fu piena di bianche creaturine che svolazzavano o camminavano goffamente sulle loro fragili zampe, in un allegro sovrapporsi di fruscii.

 

Dopo un po’ la risata di Ariana coinvolse anche Aberforth, e presto anche Albus si lasciò coinvolgere dalla generale allegria. Per qualche minuto in quella casa grande e triste altro non si udì che le risa dei tre fratelli Dumbledore. Abe levò lo sguardo sul maggiore, sorridendogli come nei suoi confronti non faceva da anni.

 

 

 

****

 

 

 

Quando Albus tornò nella propria stanza, trovò un gufo sconosciuto appollaiato sulla colonnina del suo letto. Era un allocco dal piumaggio bruno, con due occhi color ambra che lo scrutavarono al suo avvicinarsi.

 

Albus slegò il pezzo di pergamena che era stato arrotolato strettamente e legato alla zampa dell’animale, per poi dirigersi alla finestra e aprire le ante, permettendo alla creatura di uscire e riflettendo che con ogni probabilità era entrata dai vetri spalancati in camera di Aberforth. Osservò il gufo compiere ampi cerchi nel cielo prima di scomparire nella notte – probabilmente per andare a caccia chissà dove. A quel punto, si dedicò al biglietto. Lo spiegò con calma: vi erano state vergate poche frasi striminzite, in una grafia frettolosa e tagliente.

 

 

Albus,

 

zia Bathilda gradirebbe oltremodo se ci intrattenessimo al più presto in un’altra viva conversazione fra grandi menti. Ne sarebbe deliziata. Stessa ora, all’aperto. Niente tè.

 

G.

 

 

Il biglietto era firmato solo con l’iniziale, ma Albus non aveva alcun dubbio sull’identità del mittente. Si ritrovò a sorridere fra sé. Poggiò quindi la pergamena in bella vista sulla scrivania, prima di tornare al davanzale per serrare le imposte... giusto in tempo per vedere una figura oltre i vetri della finestra a dirimpetto della sua.

 

Rimase per qualche istante immobile nella brezza notturna, prima di andarsene a letto lasciando le imposte spalancate.

 

 

 

 

 

Note dell’Autrice

 

Posto con un paio di giorni di ritardo, perdonatemi! Anche se il capitolo è di una lunghezza decente, stavolta. Fra non molto dovrei aver finito le interrogazioni, e salvo prove di danza extra dovrei (e dico dovrei) riuscire a postare anche ogni settimana.

 

Spero che vi sia piaciuto questo capitolo (e i precedenti, ovvio XD) e mando un bacio grande grande grande grandissimo a Giulia

 

Bisous,

 

Daphne

   
 
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