Sakura aveva chiamato altre volte.
Non così tante da essere noiosa o seccarlo in maniera particolare: c’erano
stati giorni in cui l’aveva liquidata con frasi scortesi riagganciando quasi
subito, altri invece in cui le loro chiacchierate erano durate un po’ di più.
Non che definirle “conversazioni” fosse poi così esatto, a dirla tutta: bastava
pensare al fatto che Toru era più tipo da sedersi e considerare un immenso
sforzo il solo tenere la cornetta vicina all’orecchio, e aggiungerci che Sakura
era una ragazza timida e senza un vero motivo per chiamare proprio lui, ed ecco
che si poteva immaginare quali livelli potessero raggiungere le loro
telefonate.
C’erano volte in cui, addirittura, erano più lunghi i silenzi che gli scambi di
parole; quando c’era qualche dialogo, poi, era quasi sempre solo Sakura a
raccontare davvero qualcosa di sé. Era una regola che Toru aveva imposto da
subito, la prima volta che – dopo il suo accettare di parlarle ancora – lei
aveva richiamato: “posso ascoltare, finché non mi secca, ma non sono tenuto a
parlare né a rispondere alle domande”.
Senza che avesse il minimo senso farlo, Sakura aveva accettato di buon grado.
Non riusciva a capirla: lui, al suo posto, avrebbe mandato al diavolo la
persona dall’altra parte del telefono. Non era nemmeno da escludere, in
effetti, che lo avesse detto anche per provocarla, sperando forse di finirla ancor
prima che iniziasse.
Invece lei aveva semplicemente detto un po’ tentennante: «Va bene.»
In quel modo, erano andati avanti per ben due mesi.
Sakura era praticamente una sua coetanea: Toru se ne
era vagamente stupito, perché aveva la voce da bambina.
In quei due mesi, Sakura aveva chiamato a casa sua più o meno ad intervalli
regolari di una volta alla settimana; solo in un caso aveva telefonato due volte,
ed era successo perché la prima lui aveva riattaccato sbraitandole contro. Non
era stata colpa sua: aveva semplicemente litigato con sua madre.
Sorprendentemente ma, dopotutto, come c’era da aspettarsi visti i precedenti,
la cosa non sembrava averla né turbata, né scoraggiata. Si era fatta sentire di
nuovo, come se per lei archiviare il tutto come “momento no” fosse una cosa
semplice da fare, quasi dovuta.
C’erano precisi argomenti che non avevano mai toccato nemmeno nelle poche
domande che si erano rivolti – o meglio, a cui Sakura aveva dato voce e che
Toru aveva raramente rigirato alla ragazza con un brusco e spesso roco “tu?” –
ed uno di questi era la scuola. Lei non aveva mai chiesto quale lui
frequentasse, e lui si era ben guardato dal prendere il discorso, specie
considerando che non gli interessava minimamente saperlo. L’unica cosa che
aveva chiesto di sua sponte era stata come mai una persona in ospedale decide
di fare, di punto in bianco, una chiamata casuale come quella di lei.
In una giornata in cui era particolarmente loquace, forse sorpresa dalla prima
vera domanda da parte del suo interlocutore, Sakura gli aveva spiegato che
girava ospedali più o meno frequentemente da quando era piccola. Aveva qualcosa
– Toru non aveva capito precisamente cosa – che rendeva il suo cuore un cuore
debole: avrebbe potuto conviverci anche restando a casa e risparmiandosi lunghe
degenze, certo, ma non sarebbe stata davvero
una vita normale. Avrebbe dovuto fare attenzione a troppe cose – ciò che
mangiava, che faceva – ed assumere medicine ogni giorno, senza mai potersene
dimenticare o poter sbagliare. E, anche così, sarebbe bastato un nulla per
agitarla e provocare l’irreparabile; o, pur vivendo in quel modo senza mai
commettere errori, la sua aspettativa di vita non sarebbe stata chissà quanto
lunga, non con certezza almeno.
Perciò, d’accordo con i suoi genitori, era stata messa in lista per un trapianto.
Aspettava e basta, ora, così diceva.
«L’idea di un trapianto» aveva detto una volta, con la voce timida e insicura
di cui Toru non si stupiva più, ma anche con una sfumatura di aspettativa quasi «fa un po’ paura. Ci
sono tante cose che possono andare bene, ma anche alcune che possono andare
male.» aveva ammesso. Non che non fosse ovvio e risaputo, se si parlava di
un’operazione tanto delicata come un trapianto. Di cuore, poi.
«Però sai, Toru-san» aveva aggiunto «poi penso alla prima cosa che vorrei fare
una volta guarita, e credo che ne valga la pena.» aveva confessato, e a quel
punto persino ad uno come Toru che la vita se la faceva scivolare addosso
proprio come faceva con le parole altrui, aveva avuto abbastanza curiosità da
chiedere cos’era che valesse tanto la pena.
Per la prima volta Sakura, dall’altra parte del telefono, aveva riso
sommessamente: una risata in qualche modo graziosa, un po’ impacciata forse.
«Vorrei andare al mare. Scendere dalla macchina, o dall’autobus, e correre più
veloce che posso fino a raggiungere la riva, fino a bagnarmi le scarpe. E poi
voglio inspirare l’aria e l’odore che si porta dietro, e a quel punto… a quel punto vorrei urlare con tutto il fiato che ho
in gola.» aveva detto.
«Te lo immagini come possa essere, Toru-san? Gridare finché non rimani senza
fiato e il cuore non rallenta, senza aver paura che si fermi del tutto?»
Si era sentito a disagio e profondamente inadeguato: Sakura aveva un desiderio
così infantile, semplice e bellissimo, desiderava vivere a tal punto e ne
parlava con lui che non faceva altro… che aspettare,
in una stanza, qualcosa. Scappava.
Il litigio con sua madre, a seguito del quale aveva risposto
bruscamente alla chiamata di Sakura, inizialmente non era stato tanto diverso
dalle solite brevi discussioni; in effetti, forse, non sarebbe stato da
considerare nemmeno un litigio.
Era cominciato con il solito tentativo di sua madre per convincerlo a prendere
un po’ d’aria. A dirla tutta Toru usciva, sebbene raramente: lo faceva ad orari
piuttosto strambi, o nei quali era certo di non incrociare i genitori. Solo
quando non poteva proprio evitarlo, poi, le sue mete erano solo due e sempre le
stesse: il combini(1) –
specialmente quando in notturna aveva fame e c’era poco nel frigo, che cercava
oltretutto di evitare dopo l’ultimo casino scatenato – e il videonoleggio, più
per videogiochi che per i film. Si parlava, comunque, di un’uscita al mese. Due,
se proprio non coincidevano la visita all’uno e all’altro posto nella stessa
occasione.
Poi, per il buon esito del loro “accordo” e per la credibilità del loro falso
quadretto di famigliola felice, una volta ogni tanto in modo tale che
sembrassero appuntamenti tutto sommato regolari visitava un medico: per tutto
il vicinato, era la visita di controllo per chissà qualche malattia suo padre
avesse usato per coprire le “vergognose condizioni” – testuali parole – di suo
figlio. In realtà era una visita di controllo sommaria di quelle che si facevano
ogni tanto. Non era nemmeno sempre dallo stesso medico: sia mai che,
altrimenti, inquadrassero inevitabilmente la sua situazione.
Per invogliarlo ad uscire sua madre aveva proposto varie cose nel corso del
tempo: passeggiate al parco, incontrare qualche amico quando ancora alcuni
compagni chiamavano a casa per sincerarsi delle sue condizioni, o addirittura
prendere un cane per avere la scusa di uscire ad accompagnarlo nei bisogni – il
tutto giustificato come presunto consiglio medico.
Anche quel giorno aveva proposto qualcosa di simile: «Potremmo fare insieme una
passeggiata.» aveva tentato, quasi speranzosa «Potremmo mangiare fuori. Stasera
tuo padre non ci sarà, perciò—» non aveva sentito il resto.
Nella sua testa era suonato un campanello d’allarme, e questo aveva distolto la
sua attenzione da tutto il resto del discorso. Suo padre non sarebbe stato a
casa. Era quasi certo che fosse per una cena di lavoro anche senza sentire sua
madre pronunciarlo.
Si era sentito soffocare, come se qualcuno nel sonno avesse premuto forte il
cuscino contro il suo viso tentando di ucciderlo: come le braccia avrebbero
potuto annaspare cercando di allontanare da sé il corpo che premeva su quel
cuscino invisibile, allo stesso modo le mani avevano vagato alla cieca,
incontrando oggetti e lanciandoli, buttandoli a terra, stracciandoli.
Incurante di cosa gli passasse per le mani – libri, vecchi modellini, vestiti,
porta penne – cercava di calmare il panico misto alla rabbia causando il caos
più totale e cercando di rompere più cose che riusciva o di danneggiarle al
massimo delle proprie possibilità.
Cercava di rompere gli oggetti, non
riuscendo a rompere se stesso.
Ad un certo punto aveva persino lanciato un libro contro sua madre,
gridandole di andarsene; colpendo nient’altro che lo stipite della porta. Poi,
incoerentemente - «Toru, Toru per favore, cerca di calmarti…»
– era uscito lui stesso, per non doverla vedere, per non doverla ascoltare.
Ed era squillato il telefono.
Incurante degli accordi che gli garantivano la “libertà”, aveva alzato in malo
modo la cornetta mentre sua madre – lo sentiva, il tono singhiozzante e
spaventato, lo sentiva – pronunciava un incerto: «Lascia stare, Toru, faccio i—»
«…Toru-san?»
«PERCHÉ NON LA SMETTI DI CHIAMARE, EH?!»
Aveva attaccato con quanta più forza aveva, come se tanto più forte fosse stato
il rumore della cornetta che cozzava contro l’apparecchio, tanto più violenta
sarebbe apparsa la sua rabbia, e più facile sarebbe stato raggiungere poi uno
stato di completa apatia come dopo ogni crisi.
Era rimasto a lungo davanti al telefono messo a tacere, osservandolo come in
trance, riacquisendo la sua naturale insofferenza verso tutto e tutti e
calmando il respiro fino a regolarizzarlo. Di nuovo in quella desiderata
condizione di spossatezza in cui si sentiva vuoto. L’unica sensazione rilassante
che gli era rimasta.
Tornando in camera, aveva sentito sua madre piangere nell’altra stanza.
Sakura aveva richiamato il giorno dopo, in mattinata, a
quello che avrebbero potuto definire “il solito orario”. Suo padre era in
“viaggio di lavoro”, sua madre uscita da poco per lo stesso motivo. Era solo.
Se non per identificarsi, nei primi cinque minuti buoni della chiamata Sakura
non aveva parlato, e Toru di certo non si era sprecato a rompere il silenzio;
lei probabilmente non sapeva come iniziare dopo il breve e brusco contatto del
giorno precedente. Forse cercava ancora di capire se dovesse o meno fare
riferimento all’unica frase che doveva aver colto mentre lui alzava la cornetta
per rispondere. Magari, si disse, avrebbe optato per far finta di nulla,
dimostrando una certa delicatezza oltretutto; eppure, a quel pensiero, si sentì
in qualche modo irritato. Non ai livelli raggiunti il giorno prima, certo, ma più… come un insopportabile fastidio.
«Era mia madre.» lo disse all’improvviso, senza un vero motivo, il tono quasi
stanco. Sakura non rispose subito e Toru pensò, per un attimo, che tutto
sommato dirlo fosse stato inutile: «Non vuoi che tua madre sappia che ti
chiamo, Toru-san?» domandò poi con calma, comprensione quasi. Lo sorprese.
«No.» replicò quasi bruscamente «…troppe
complicazioni.» aggiunse, anche se non era una vera e propria spiegazione.
«…Non andate d’accordo?» le sentì chiedere con voce
titubante, incerta; era logico domandarlo in effetti, e la risposta non era di
certo difficile né necessitava chissà quale riflessione. Tuttavia non parlò
subito, anzi, ci rimuginò su per diverso tempo durante il quale Sakura attese
pazientemente e in silenzio.
Per dirla in maniera semplice, Toru non aveva cercato mai la comprensione di
nessuno da quando aveva smesso di avere contatti con il resto del mondo: certo,
aveva cercato svogliatamente qualche community sul web e pensato per un breve
istante di parlarne con qualcuno – magari uno psicologo, magari quello della
scuola – ma ci aveva rinunciato quasi subito. Non era la pietà che cercava, né
una falsa e costruita comprensione, men che meno
stupidi consigli riciclati da situazioni analoghe. Il problema principale era
che nemmeno lui sapeva cosa volesse e da chi; perciò spiegarlo era divenuto
impossibile.
Specialmente farlo sperando di non legarsi al proprio confidente, seppur in
maniera superficiale.
«Facciamo un patto.» decise «Te lo dico se prometti di dimenticartene.»
Un istante di silenzio: «Se prometto di farlo, posso chiederti qualcosa in
cambio, Toru-san?» chiese.
Non ci diede troppo peso: considerando le richieste di quella ragazza fino a
quel momento, immaginò che la cosa più difficile che potesse chiedergli fosse
di dargli la sua e-mail o qualcosa di simile. Poco male, lui il cellulare non
lo usava quasi mai.(2)
«Va bene. Che vuoi?»
«Ci devo pensare bene, visto che posso chiederti una cosa soltanto.» ammise
lei.
Sembravano due bambini.
«Come ti pare.» minimizzò quasi bruscamente.
Poi, iniziò.
Non ricordava nemmeno l’ultima volta che aveva parlato così a lungo, mentre
aveva fin troppo chiare in testa tutte quelle in cui qualcuno aveva cercato di
farlo parlare.
Forse molte delle cose che le raccontò quel giorno le sembrarono confuse,
perché più di tanto non riuscì a metterle in ordine cronologico; la sua mente
era come un cassetto in disordine, continuamente riempito e svuotato di troppe
cose tutte insieme. Era impossibile sperare che riuscisse a tirarle fuori una
alla volta, così come sarebbe stato quasi impossibile tirar fuori da un vero
cassetto un foglio senza che altri scappassero fuori per errore.
Le raccontò che all’inizio era solo normalissimo stress: le scuole superiori,
con la loro mole di studio e l’angoscia di dover iniziare a pensare al proprio
futuro, ti mettevano addosso un sacco di “responsabilità” a cui non eri
abituato e lui non aveva fatto eccezione.
I risultati erano calati un poco rispetto alle scuole medie, ma non in tutte le
materie e non in maniera così drastica da essere subito senza speranza.
Suo padre, le disse, era un uomo severo quasi per “vocazione”: era stato
cresciuto da una famiglia molto tradizionalista e suo nonno era stato a sua
volta un uomo rigido. Forse per quello, il padre di Toru non conosceva altro
modo di fare il genitore.
Lui invece era sospettoso di natura, aggiunse ad un certo punto; era di quelli
che nei rapporti personali impiegano più degli altri. Non al punto da essere
asociali o scorbutici: solo, non era nemmeno di indole espansiva e non era
certo di “come” si dovessero fare certe cose con le persone. Ci pensava più a
lungo di altri e questo a volte non era un vantaggio.
Stava bene in classe, fino ad un certo punto. Pur sapendo di non essere
simpatico a tutti non ne aveva fatta una tragedia. Si era detto che non si
poteva piacere a chiunque si incontrasse, in fondo, come non tutti piacevano a
lui d’altra parte.
Ad un certo punto aveva capito che qualcosa non andava. Un sospetto, così lo
aveva descritto; ma in quello stesso periodo era troppo occupato a discutere
con suo padre per la scuola – quando si degnava di non essere in giro per
lavoro – per avere voglia di parlarci con calma anche quando non era obbligato
a farlo dall’ennesima, ipocrita ramanzina.
Pensava spesso cose come “ma che ne sai tu, se a casa non ci sei mai?!” oppure
“smetti di fare il padre se non ne sei in grado!”, ma non le pronunciava. Le
disse che a quel tempo, durante i loro litigi vedeva sua madre dispiacersi
mentre cercava di mettere pace fra loro due; la vedeva sorridere forzatamente
quando era sola perché suo padre non era a casa.
«Cercavo di bastarle.» aveva detto ad un certo punto al telefono, dopo essere
stato costretto a prendere dell’acqua e fare una breve pausa: «Almeno finché
eravamo solo noi due.»
Pensava che se anziché rispondere a tono avesse solo annuito avrebbe evitato
dei litigi e che lei avrebbe sorriso un po’ di più. Si impegnava al massimo
delle proprie possibilità anche a scuola, e sebbene la risposta di suo padre ad
un buon voto non fosse che un banale «Vedi che se ti impegni riesci?» – come se
normalmente passasse il suo tempo a bighellonare in giro – almeno non seguivano
discussioni.
Era sotto stress, ma era meglio di niente.
Poi, le raccontò, una notte si era svegliato per andare al bagno: scendendo
silenziosamente e un po’ alla cieca le scale, aveva visto la luce accesa in
soggiorno. Attutite dalla porta socchiusa, arrivavano le voci dei suoi
genitori: suo padre doveva essere appena rientrato dal viaggio di lavoro. Sua
madre aveva nel tono una disperazione mista al panico che gli gelò il sangue
nelle vene e lo sveglio del tutto di botto. Nel timore di essere scoperto non
sbirciò dentro, ma nella sua testa si era formata un’immagine molto da film,
con suo padre a qualche passo di distanza da sua madre e che le dava le spalle.
Lei stava chiedendo dove fosse stato: diceva di aver chiamato la ditta, che
aveva assicurato che negli ultimi tempi non avessero registrato alcun viaggio
di lavoro da parte dei dipendenti.
Sentì suo padre rispondere che non erano cose di cui una moglie dovesse
curarsi.
Che, piuttosto, avrebbe dovuto preoccuparsi di quel figlio svogliato che al
proprio ritorno, nonostante fosse stanco, doveva sempre raddrizzare lui.
Che, se non le andava bene il modo in cui lui si occupava della famiglia,
poteva tornarsene dai suoi genitori: e già che c’era, che si prendesse la
responsabilità di aver messo al mondo un figlio portandolo con sé, nel caso.
«Viaggi di lavoro un corno!» aveva sibilato con odio mentre raccontava,
battendo il pugno chiuso contro il muro: «Quello si divertiva tra le gambe
aperte di chissà chi!» aveva aggiunto, trascinato dalla rabbia e dimentico del
fatto che dall’altra parte del ricevitore ci fosse una ragazza.
O forse dimentico del fatto che qualcuno stesse anche solo ascoltando.
Arrabbiato, con la voce che tremava un po’ per quello e un po’ per lo sforzo a
cui non era ormai più abituato, aveva continuato ostinatamente a raccontare;
come se, una volta cominciato, non potesse più fermarsi prima della fine.
Sakura, da parte sua, non aveva contribuito con alcuna domanda ma aveva
lasciato che Toru decidesse da solo ciò che voleva davvero dire, nell’ordine
che preferiva. Forse ne aveva intuito le difficoltà, non soltanto quelle
fisiche del parlare tanto, ma – soprattutto – quelle emotive.
Lui le raccontò di essersi preparato all’inevitabile, quella notte: dopo essere
praticamente fuggito nella sua stanza rifiutandosi di ascoltare oltre, aveva
passato il resto del tempo fino al suono della sveglia fissando il soffitto, e
ripetendosi l’unica eventualità possibile. Per facilitare a se stesso il
processo di accettazione, probabilmente.
Io e mia madre andremo via da qui.,
si ripeteva, Ma va bene così.
Ci aveva creduto davvero, le disse. Perciò la mattina seguente, scendendo in
cucina, la divisa indossata come ogni altro giorno, si era detto pronto. Ma sua
madre, sorridendo, gli aveva dato il buongiorno come sempre e non aveva
aggiunto altro.
Sua madre pronta non lo era stata mai; Toru l’aveva capito solo quando, a
distanza di due settimane dall’accaduto, sua madre aveva lasciato intuire di
non avere intenzione di fare nulla di quello per cui, quella notte, si era
preparato: né parlargliene, né andarsene portandolo con sé, né lasciare suo
padre. Né biasimarlo. Fingeva semplicemente di non sapere.
Suo padre si era ben guardato dal fare qualche accenno alla cosa, naturalmente.
Toru, guardando sua madre, non era più stato in grado di capire quale dei suoi
sorrisi fosse davvero felice e quale fosse solo forzato per le apparenze. Forse
suo padre aveva davvero avuto viaggi di lavoro, una volta ogni tanto, da quel
giorno; Toru tuttavia si era riscoperto inevitabilmente sospettoso quando ne
annunciava uno a lui e sua madre come se niente fosse.
Seduti a tavola non faceva che guardarli e chiedersi cose come “Perché fingi di
non saperlo?”, “Non ti fai schifo a mentire così?” o ancora “Perché non lo
cacci fuori di casa? Perché non ti arrabbi?” senza trovare risposta. Sentiva
soltanto una crescente, insostenibile ansia farsi strada dentro di lui. Era
arrivato persino al punto di avere la nausea ancor prima di toccare cibo.
Prese a chiudersi in camera, le spiegò, ma andava ancora a scuola. Tutto era
meglio dell’unico posto in cui fosse costretto a vederli insieme.
Poi un giorno successe un fatto che, razionalmente, non era stato così grave in
sé – anche se questo lui, a Sakura, non lo disse.
Durante un compito qualcuno aveva commesso una scorrettezza che era stata
scoperta: non si era capito se uno scambio di fogli, un semplice copiare o una
mancata consegna, ma ci aveva rimesso tutta la classe. Alla prospettiva di
conseguenze sul proprio rendimento o la propria valutazione, diverse persone ne
avevano accusate altre: tra quelle, anche Toru. Il compagno che sedeva avanti a
lui sosteneva di averlo visto fare qualche movimento strano durante il compito;
Toru non se l’era presa più di tanto, non più di una normale reazione ad un’accusa
tanto debole – come poteva vederlo se, sedendogli davanti, gli dava le spalle?
Erano stati dei discorsi in corridoio sentiti per caso, il problema.
«Non mi aspettavo che accusassi
Kobayashi.» «Scherzi? Non lo reggo quello.»
E
ancor più le parole rivolte in classe.
«Kobayashi, vuoi unirti a noi? Dai, siamo
fra amici tanto!»
Nella sua mente si era chiesto: quanto le persone potevano mentire? Fino a
che punto si riusciva a farlo? Non c’era proprio modo di capire cosa fosse o
meno sola apparenza?
All’improvviso, le disse – lo ammise per la prima volta con qualcuno – gli era
semplicemente scattato qualcosa nella testa: come un corto circuito, aveva provocato
una scintilla di insana consapevolezza e subito dopo aveva fatto precipitare
tutto, anche la considerazione più razionale, nel buio.
Forse era lui. Doveva essere lui e lui solo a non capire, a non saper
distinguere.
Doveva essere lui, a rappresentare la “preda” perfetta per cose simili. Chissà
quanti ridevano di lui, quanti si prendevano gioco di lui.
Chissà quanti faticavano a non scoppiare a ridergli in faccia quando lui cadeva
inconsapevolmente ai piedi delle frasi di circostanza. Forse tutta la sua
classe. Forse anche i professori lo guardavano come un povero, sciocco
bamboccio credulone.
Forse, se lui se ne fosse reso conto prima, sua padre e sua madre…
Le spiegò, con tono stanco, che a quel punto andare a scuola si era lentamente
fatto sempre più difficile; circondato di menzogne a casa fuggiva fuori, ma lì
trovava solo altre menzogne. Alla fine, non era stato più in grado di distinguere
le persone in buona fede dalle altre; aveva risolto chiudendosi in se stesso e dicendosi
che se doveva finire così, tanto valeva non iniziare proprio. L’idea iniziale
era stata, probabilmente, di lasciarsi scivolare addosso tutto: le parole, i
sentimenti, le persone.
Ma più si sforzava più, giorno dopo giorno, diventava difficile.
«Ovunque fossi» disse piano, sempre più stanco, sempre più vuoto «diventava
difficile persino respirare.»
E alla fine, si era chiuso nell’unico posto in cui non dovesse confrontarsi con
nessuno o rendere conto di qualcosa a qualcuno; nella sua stanza, non doveva
affrontare nemmeno se stesso finché faceva finta di nulla o si teneva occupato.
Non era più uscito, e aveva fatto sparire tutto quel che del suo carattere gli
aveva impedito – fino a quel momento – di sfogarsi; chiuso nella sua stanza, si
sentiva in diritto di provare o fare quel che voleva: arrabbiarsi, gridare,
insultare, distruggere, respirare, darsi pace, far soffrire, ignorare… aspettare.
Di morire, anche. Ma a Sakura non disse neppure questo.
Non per riguardo. Solo perché lei lo interruppe per la prima volta dopo quell’inarrestabile
fiume di parole, proprio quando con un respiro fin troppo profondo cercava un
modo di finire di raccontare.
«Deve… essere stato difficile. E faticoso. Tanto, tanto… faticoso.» aveva detto.
Così banale, così minimizzante. Così esatto.
«Però… ci hai provato, Toru-san. Tu ci hai davvero
provato con tutte le tue forze.»
Aveva avuto l’istinto di chiudere la chiamata; ma più che la rabbia era stato
un improvviso, irrazionale moto di paura, che durò non più di un istante.
La conclusione di tutta quella rabbia che aveva in corpo, di quel desiderio
insano di rivolgere volutamente parole crudeli a sua madre…
la soluzione non poteva essere così semplice.
Si era impegnato? Forse. E allora?
Non cambiava niente.
Anche se glielo riconoscevano… con quel
riconoscimento, che diamine avrebbe dovuto farci?
Che accidenti si aspettavano da lui?!
«Lascia perdere.» le disse «Anche se ci provi, tu non lo puoi capire. Lascia
perdere.»
Fu un modo frettoloso di ripristinare la distanza fra loro.
E in quello parole dure e brusche, c’era anche l’ombra del disprezzo – o della
totale noncuranza – per i sentimenti altrui che Toru aveva sviluppato.
Le disse di richiamare, quando avesse deciso cosa chiedere per sé.
Di richiamare fingendo che quella conversazione non ci fosse mai stata.
Poi, chiuse la chiamata senza attendere la risposta.
Quando a distanza di due o tre giorni il telefono squillò in mattinata ad un
orario in cui i suoi – naturalmente – non erano in casa, Toru rispose con la
certezza che si trattasse di Sakura, finalmente decisa su come “riscuotere” il
proprio “premio”.
La voce che risuonò dall’altra parte del ricevitore, però, era fortemente
nasale e Toru impiegò diversi attimi a fare mente locale e, infine, a
riconoscerla.
«Che
voce orrenda.» fu il suo primo commento, il tono appena rauco.
«Kobayashi, la tua felicità nel sentirmi mi commuove. So di esserti mancata.»
fu la risposta; se anche avesse avuto il dubbio circa la sua identità, c’era
solo una persona che gli si rivolgesse a quel modo, a metà fra il cameratismo
da confraternita americana e l’ironia del tuo compagno di risse prediletto.
Quella persona era Ichikawa Kaoru.
In quei mesi passati dal primo incontro, al quale erano seguite altre visite,
la ragazza aveva impiegato un tempo sorprendentemente breve per passare dalla
formale educazione di capoclasse – e ragazza – alla ben più informale abitudine
di parlargli come se fossero stati compagni di merende fin dall’asilo.
E sì che Toru non era esattamente tipo da incoraggiare l’indole amichevole
altrui, tutt’altro; ma a Kaoru non sembrava servisse l’incoraggiamento.
«Per niente.» commentò appunto riguardo la presunta nostalgia.
«Che tristezza, Kobayashi.» osservò lei, scherzosamente afflitta; la sentì
tossire un paio di volte: «Comunque non è per le tue parole lusinghiere che ho
chiamato.» riprese «Forse il tuo fuso orario non ha colto, ma è mattina e ti
sto chiamando da casa.» gli fece notare.
In effetti – soppesò solo in quel momento – era orario scolastico quello.
«Non posso passare per un paio di giorni.» proseguì «Pare che l’influenza ci
metterà ancora un po’ a passarmi.» spiegò, senza aspettarsi che lui le
rispondesse: non faceva mai pause così lunghe da lasciar cadere un silenzio
innaturale, ma al tempo stesso non erano troppo brevi o sbrigative. Come a
lasciargli il tempo di interromperla, se avesse voluto.
Era un modo di fare molto diverso da quello di Sakura, pensò distrattamente ad
un certo punto.
«Intanto, comunque, ho chiesto all’altro rappresentante di passarmi gli appunti
che perderò. Così ti porterò tutto insieme.» concluse quella specie di
resoconto al quale Toru, non visto naturalmente, storse il naso infastidito.
«Ti ho già detto che con gli appunti non ci faccio nulla.» la interruppe.
Glielo aveva detto altre volte, ma Kaoru non aveva fatto altro che minimizzare
con risposte come “Sì, sì”, “come vuoi” o “lo so, lo so”. Però era sempre tornata
con appunti nuovi e perfettamente ordinati.
«Ho chiamato perché» la sua voce lo riportò alla realtà «se la mattina sono a
scuola, posso passare o chiamare solo di pomeriggio.» una pausa che a Toru
sembrò suggerire una sorta di “sai cosa intendo, no?”: «Sono costretta a fare
un’improvvisata e – non ti chiederò perché – non mi sembri molto propenso a
visite o telefonate quando non sei solo in casa. Non che normalmente tu faccia
le feste come un cagnolino, ma—»
«E quindi?» la interruppe lui. Se seccato dalle troppe chiacchiere o dalla
acuta osservazione dell’altra, non era chiaro.
«Dammi il tuo numero di cellulare.» concluse Kaoru con tutta la tranquillità
che si può avere nel dar voce ad una deduzione logica che non si può
contestare.
«No, grazie.»
«Non te lo stavo chiedendo.» specificò lei, divertita quasi «Qualche nostro
compagno lo ha. Solo che mi sembrava più carino chiederlo a te.» spiegò,
lasciando palesemente intendere che se non glielo avesse dato lui, l’avrebbe
rintracciato comunque.
«Che diamine sei, una stalker?» sbottò; per assurdo, la sentì ridere: «Uno
stalker di solito è ossessionato dalla sua vittima. Io provo solo simpatia,
diciamo che a pelle mi piaci. In senso buono, per carità.» aggiunse subito,
anche se Toru non avrebbe comunque mai pensato ad una qualsiasi sfumatura
romantica della frase.
«Simpatia?» quasi lo disse schifato «Ma che gusti hai?» aggiunse.
Era quella una delle (tante?) cose che non gli piacevano di lei: diceva tutto
con – apparente – sincerità, ma soprattutto nessun argomento sembrava che le
risultasse difficile. Era come se nulla la imbarazzasse o la mettesse a
disagio, come se nulla dei normali rapporti interpersonali – formalità, regole
sociali o anche il semplice carattere delle persone – le fosse di ostacolo o la
influenzasse minimamente.
Era atipica, nel suo piccolo, e questo non gli piaceva perché non lo capiva.
«Beh, ti dirò» riprese lei, e quasi se la figurava nel fare spallucce «a tutti
viene voglia di fare come te almeno una volta. Chiudersi da qualche parte e non
uscirne più. Ma non tutti ne hanno il coraggio. O non hanno abbastanza forza
per essere “codardi”, in un certo senso. Io non ce l’ho avuta.» pronunciò come
se non fosse importante, per poi incalzarlo nuovamente: «Allora, questo numero?»
Avrebbe potuto farle domande su cosa intendesse con la certezza che lei avrebbe
risposto, ma non le fece.
Aveva avuto la sensazione di non voler affatto sapere quel che la risposta
avrebbe rivelato.
«Guarda che sta spento anche per una settimana intera…»
pronunciò quasi rassegnato.
«Vorrà dire che chiamerò per due settimane di fila, se servirà!»
Non le diede il numero, quasi sfidandola a dimostrare che aveva davvero il
coraggio di chiederlo ad altri – come a voler dimostrare con la resa di lei
che, tutto sommato, nemmeno a Kaoru importava davvero a tal punto.
Quella sera stessa, lei gli scrisse un messaggio perché lui potesse memorizzare
il suo numero.
Da non crederci.
Quando era toccato davvero a Sakura chiamare, nemmeno ci fossero dei turni ben
stabiliti per le chiamate di quelle due, Toru era di un umore passabile.
Sua madre era dovuta tornare al paese in cui viveva la nonna di Toru per dare
una mano: i nonni, dopotutto, cominciavano ad avere un’età. Lui, nemmeno a
dirlo, non aveva avuto intenzione di spostarsi fin dall’inizio, perciò quando
sua madre non insistette più di tanto non se ne ebbe a male, anzi.
Suo padre rientrava comunque tardi anche quando non era in “viaggio”, perciò la
prospettiva di un’intera giornata da poter passare libero di girare in casa era
il massimo della sua aspettativa. A quello si doveva il suo umore.
Ma nonostante questo, la richiesta che fece Sakura lo lasciò interdetto; aveva
intuito – dal sospiro che aveva preceduto quella che per lui era stata come una
bomba sganciata – che doveva anche aver cercato la determinazione adatta a pronunciare
quella richiesta. Proprio per la sfaccettatura del suo carattere che aveva
potuto cogliere dalle loro conversazioni al telefono, però, essa suonava ancor
più assurda, incredibile.
Terrificante.
«Voglio che ci incontriamo, Toru-san.»
L’aveva detto così dal nulla, senza una preparazione, senza nemmeno
tergiversare un po’.
Così, con la voce che faceva trasparire l’imbarazzo di quel “voglio” forzatamente
usato al posto di un più consono “vorrei” o “mi piacerebbe”.
Di una cosa fu sicuro non appena Sakura pronunciò quella frase: doveva aver
davvero finto con tutte le sue forze di aver dimenticato la loro ultima
conversazione; altrimenti non avrebbe mai chiesto proprio a lui di uscire per
andarla a trovare.
Uscire.
«Stai scherzando?» domandò, incapace di tenerselo per sé.
«Presto potrò operarmi, Toru-san.» riprese lei «Se l’operazione andrà bene,
torneremo nel paese di mio padre. C’è aria fresca, e molto verde. Dicono che mi
farebbe bene.» spiegò, nel tono un misto tra la preoccupazione, l’entusiasmo
all’eventualità di una vita sana e l’aspettativa.
«Se succederà» continuò «magari non ti vedrò mai, Toru-san, e io invece vorrei
dirti grazie, dirtelo parlandoti almeno una volta di persona. So che non hai
nessun obbligo, ma vorrei vederti prima dell’operazione. Una volta sola
andrebbe bene. Pensi di…» indugiò per qualche
istante: «di potercela fare?» concluse, come se tutto il coraggio accumulato si
fosse d’improvviso esaurito.
Non lo disse, Toru, ma aveva notato che Sakura aveva accennato direttamente
solo all’eventualità di un esito positivo e non al negativo; non sapeva se
fosse semplicemente per ottimismo, se avesse delle solide basi mediche per
crederlo o se cercasse di farsi coraggio e basta.
Tuttavia pensò che non sarebbe stato male se una volta tanto, in quella
schifezza di mondo, qualcosa fosse andata per il verso giusto. Almeno per una
cosa come quella.
«Quando sarebbe l’operazione?»
Ascoltò la risposta, tacque. Ci stava pensando.
«Non lo so. Potrei venire, e potrei non farlo. E se lo farò non so che giorno.
Forse domani, o magari mai.» chiarì, burbero.
Parlarono di poco altro.
Ci aveva impiegato quattro tentativi.
La cosa era stata persino più complicata del previsto: una volta era arrivato
all’angolo della via di casa sua – non molto lontano quindi – prima di darsi
del mentecatto e tornare indietro. La seconda, scendendo le scale di casa si
era ritrovato a sorpresa suo padre in salotto: con ogni probabilità era un
giorno di riposo. Non lo chiese, ovviamente, ma fu chiaro che non fosse affatto
una grande idea uscire con lui presente.
La terza volta, dimentico di avere un fuso orario tutto suo, non si era reso
conto di essere uscito a ridosso dell’ora in cui, chi a scuola non frequentava
club, tornava a casa: in procinto di salire sul treno, aveva colto per puro
caso voci giovani, di studenti come lui. E, quando si era voltato si era
bloccato lì sul posto: non sapeva nemmeno se con il cambio delle classi lui
fosse ancora nella sua, ma si trattava – tra i tre presenti – di un compagno
del primo anno.
La velocità con cui aveva sentito montargli il panico lo aveva paralizzato lì
sul posto e poi, prima ancora di rendersene conto, stava fuggendo via. Poggiato
ad una colonna, il respiro veloce come se avesse corso fin lì, non era riuscito
a calmarsi finché non aveva varcato la soglia di casa.
E solo quel giorno, al suo quarto tentativo, aveva miracolosamente raggiunto l’ospedale.
Era stato tutto piuttosto difficile, in un certo senso: anche chiedere all’ingresso
di Hayaka Sakura, ritrovandosi a guardare il tavolo piuttosto che l’infermiera,
aveva contribuito a confermare a Toru quanto ormai fosse incapace di avere una
conversazione decente – fosse anche solo superficiale – con le persone.
Fortunatamente la donna in questione sembrava occupata abbastanza da non avere
voglia di una chiacchierata, e si limitò ad indicargli il numero della stanza.
Una volta davanti alla porta aveva bussato, e al “avanti” leggermente attutito
che arrivò dall’interno scosse la testa: si sentiva un imbecille, né gli era
particolarmente chiaro perché diamine
fosse lì, ma si sarebbe incazzato ancora di più a tornare a casa ora. Perciò
entrò.
Fu strano: lui rimase sulla soglia, come se avesse bisogno di un ulteriore
permesso per entrare e richiudersi la porta alle spalle. Lei invece lo guardò
per un attimo confusa ma, come se fosse stata la cosa più ovvia e sorprendente
del mondo, lasciò il libro che aveva fra le mani e – quasi incredula –
pronunciò un «…Toru-san?»
Senza la minima idea di come avrebbe dovuto rispondere, mise su un’aria
seccata, affondando entrambe le mani nelle tasche e prendendosi del tempo per
osservare – assolutamente non interessato – la stanza.
«Se non ti sta bene» esordì poi «lamentati delle tue richieste assurde.» disse
poco cortese e, proprio per questo, confermando i sospetti di Sakura che in
tutta risposta sorrise, l’aria forse leggermente imbarazza dal primo incontro
con quella che fino a qualche istante prima era stata solo una voce dall’altra
parte del telefono, ma indubbiamente felice.
Gli fece cenno di accomodarsi, indicandogli lo sgabello poco distante dal suo
letto; mentre lui si sedeva, la porta si aprì nuovamente, senza che ci fosse
stato alcun bussare a preannunciare la cosa. Si voltò, un po’ per istinto e un
po’ perché supponeva fosse necessario, nell’eventualità che si trattasse dei
genitori di lei soprattutto.
Di certo non avrebbe mai potuto immaginare quello. Tutto, ma non una
coincidenza – lo era, vero? – così assurda.
«…Kobayashi?»
Dalla soglia, stupita quanto lui e soprattutto in maniera molto più visibile di
quanto non fosse sul viso di Toru, Kaoru lo guardava.
Note
Combini: detti
anche “Convenience Store”
sono dei mini market tipicamente giapponesi, che forniscono ai clienti tutti i
beni di prima necessità (alcuni persino medicinali). Non è raro che siano
aperti anche 24 su 24.
Mail: in Giappone è di uso
assolutamente comune ricevere non solo sms, ma anche email
sul proprio cellulare. Non a caso infatti, al momento di uno scambio di numeri
tra due persone si richiede anche l’indirizzo mail, o l’uno per l’altro, avendo
fondamentalmente la stessa funzione.