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Autore: Beatrix Bonnie    08/05/2012    1 recensioni
Lei mi ascoltò in silenzio, ma alla fine mi fece un'unica domanda che mi tormentò per molti anni a venire: «Sei sicuro che ne valga la pena, Remus?»
Accettare quel posto per pagarmi il liceo avrebbe significato passare la giornata a scuola, per poi attraversare buona parte del centro e raggiungere il porto, dove avrei passato due ore a lavorare; e avrei dovuto ridurmi a studiare e fare i compiti la sera dopo cena, con un pessimo rendimento. Tutto questo, solo per riuscire a frequentare prima il liceo e poi l'università.
Ne valeva davvero la pena?
Era il mio sogno, dopotutto.
Valeva la pena, combattere per i propri sogni?
Sorrisi.
«Sì, mamma, ne vale la pena».

La storia di un giovane ragazzo sognatore che decide di combattere fino alla fine pur di veder realizzati i suoi obiettivi. Un esempio di virtù e costanza, sullo sfondo di un Irlanda che si affaccia faticosa alla modernità industriale.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ciclo di Faerie'
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Capitolo I
Le prime difficoltà




Dublino, 1977




I miei grandi sogni di gloria, tipici di un bambino che si immaginava chissà quale glorioso futuro, si infransero ben presto contro il muro della dura realtà. Se i miei coetanei sognavano di diventare giocatori di rugby, io dicevo sempre che avrei frequentato l'università per poi diventare docente. Una prospettiva francamente irrealizzabile, me ne resi conto. La strada era disseminata di ostacoli pressoché insormontabili.
Il primo di questi era la scelta della scuola superiore. Avevo dodici anni quando, mancando ormai pochi mesi al termine del sesto e ultimo anno della primary school, cercai di convincere mia madre ad iscrivermi al liceo.
Tornai a casa pieno di buoni propositi, con un volantino della James Joyce school, uno dei più importanti licei della città. A fare pubblicità alla scuola era venuta una coppia di ragazzi, entrambi belli e sorridenti, con indosso una divisa scolastica blu. Mi ammaliarono con i loro modi di fare accattivanti e le promesse di gloria per chiunque avesse frequentato la loro scuola.
Decisi, in modo irremovibile, che anche io mi sarei iscritto alla James Joyce school.
Quando tornammo a casa io e David, che frequentava il quarto anno della primary school, mamma non era ancora tornata dal lavoro. Mio fratello abbandonò senza ritegno i suoi libri sul divano e corse in camera a prendere i suoi giocattoli preferiti: due pistole da cowboy che erano appartenute a me.
Io, invece, rimisi in ordine il salotto, con l'obiettivo di far risaltare i volantini del liceo che avevo appositamente sistemato sul tavolino davanti al divano. Non volevo essere il primo ad intavolare il discorso, ma tramite questa astuta strategia, mamma avrebbe visto spiccare i volantini e mi avrebbe chiesto chiarimenti.
Aspettai in trepidante attesa il ritorno di mia mamma per tutto il pomeriggio, cercando di ignorare il baccano che faceva mio fratello.
«Sei una palla, Remus!» sbottò David, dopo l'ennesimo tentativo fallito di coinvolgermi nei suoi giochi.
«Sto aspettando ma', non rompere» risposi io, fingendo di concentrarmi sul tema che stavo svolgendo per inglese il quale, in realtà, non era andato avanti di una sola riga da parecchi minuti.
Mio fratello si allontanò sconsolato e andò a ritirarsi in camera nostra, facendo calare il silenzio in cucina, dove io mi ero appostato strategicamente: seduto al tavolo, fingendo di fare i compiti, potevo tenere d'occhio il tavolino del salotto.
Destino volle che quel giorno mamma tornò a casa tardi dal lavoro, distrutta dal massacrante turno in fabbrica. Lanciò il suo grembiule blu sul divano e nemmeno si accorse dei volantini che io avevo lasciato sul tavolo.
Passai tutta la cena a sbirciare di sottecchi il salotto, chiedendomi se fosse il caso di tirare in ballo la questione del liceo, ma non riuscii a decidermi, almeno finché non ci alzammo da tavola e David se ne sparì in camera. Allora, finalmente, presi il coraggio: recuperai i volantini dalla sala e mi avvicinai alla mamma, che stava lavando i piatti con l'aria piuttosto stanca.
«Ehi ma', ci hanno dato questi, oggi a scuola» buttai lì, tanto per iniziare il discorso.
Ma la mamma si voltò verso di me con un sorriso tirato. «Ne parliamo domani, eh, tesoro? Sono un po' stanca stasera» mi disse, scompigliandomi i capelli con la mano ancora bagnata e insaponata.
Io mugugnai qualcosa in risposta, ma fui costretto ad obbedire. Mi ritirai in camera, dove David mi porse entusiasta una delle due pistole da cowboy.
«Io sono lo sceriffo!» esclamò, picchiettando il dito sulla stella di carta che si era appuntato al pigiama con del nastro adesivo. «Tu puoi fare il bandito!»
«Non ho voglia di giocare, Dave» borbottai, lanciando gli inutili volantini sulla scrivania e lasciandomi cadere sul materasso inferiore del nostro letto a castello.
«Sei noioso!» mi insultò David, dandomi una botta in testa con il calcio della pistola giocattolo.
Io nemmeno risposi alla provocazione: avevo il morale decisamente a terra. Non potevo sfuggire al mio destino: il giorno successivo avrei affrontato l'argomento del liceo con la mamma e mi sarei impuntato per ottenere quello che volevo.
Ce l'avrei fatta. Ad ogni costo.
Il giorno dopo, durante la scuola, cercai di non pensare a quello che mi attendeva a casa, concentrandomi su ciò che dicevano le maestre. Sapevo, però, che il peggio sarebbe stato sopportare il pomeriggio a casa insieme a David, così finsi di aver qualcosa da fare con un mio amico e me la svignai, piantando mio fratello da solo. Presi la mia vecchia bicicletta, anche se sapevo che aveva una gomma bucata, e cominciai a vagare a caso per Dublino.
Senza nemmeno accorgermene, raggiunsi il St. Stephen's Green, il grande parco in centro, a sud del fiume Liffey. C'era sempre un sacco di gente, mamme con passeggini, bambini che giocavano, anziani seduti sulle panchine. Io adoravo osservare tutti quelli che passavano per supporre come fossero le loro vite solo guardando il modo in cui camminavano, oppure per immaginarli protagonisti di pazze avventure.
«Allora, giovanotto» esclamò un vecchietto, sedendosi sulla panchina al mio fianco. «Cos'è quell'aria preoccupata?»
Io gli rivolsi un sorrisetto tirato. «È per via della scelta della scuola» spiegai con una scrollata di spalle.
«Problemi con i genitori?» mi chiese gentile il nonno.
Mi rannicchiai sulla panchina, abbracciando le ginocchia in una posizione fetale. «No, è che vorrei andare al liceo, ma non possiamo permettercelo» risposi, con un sospiro.
«Ci sono le borse di studio» mi disse il vecchio, come se mi stesse rivelando un segreto statale.
Io scossi la testa affranto. «Non sarebbe comunque a sufficienza» spiegai, ben sapendo che i miseri contributi scolastici non potevano bastare per pagare la retta e il materiale scolastico.
«Senti, giovanotto» sbottò allora il nonno, in tono ampolloso e solenne. «Tu ci tieni ad andare al liceo?»
Io annuii debolmente con la testa.
«Allora trovati un lavoro e usa quello che guadagni per pagarti la scuola» mi rispose con enfasi.
«Ma sono troppo piccolo» mugugnai in risposta, sapendo che l'obbligo scolastico era fino ai quindici anni.
Allora il vecchietto si guardò in giro con aria circospetta, poi si chinò verso il mio orecchio. «C'è un tizio, giù al porto, che prende anche ragazzini che non hanno proprio raggiunto l'età per lavorare» mi rivelò in un sussurro.
Io mi feci attento: sapevo che si trattava di un'informazione preziosa per i miei piani. Per il momento non mi preoccupai minimamente del fatto che lavorare e frequentare la scuola insieme mi avrebbe richiesto un'enorme fatica. Lì per lì, mi sembrava la geniale soluzione che stavo aspettando per risolvere il mio problema.
«Chiedi di Bob Kelpe, ma non dire che te l'ho detto io» sussurrò infine il vecchio.
Io annuii. Bob Kelpe, tutto chiaro. Lavoro, stavo arrivando!
Raggiungere il porto dal parco di St. Stephen's fu un'impresa notevole, soprattutto considerando che la mia bicicletta aveva una ruota buca. Per fortuna, non mi ci volle molto a individuare il luogo dove avrei potuto trovare Bob Kelpe: l'insegna “KELPE CANTIERI NAVALI” troneggiava su uno stabile grigio piuttosto imponente. Mi feci avanti titubante e dissi all'operaio di guardia alla sbarra che dovevo incontrare il signor Bob Kelpe. Il tizio mi squadrò con occhio critico, ma alla fine decise che non ero una minaccia per l'azienda e mi permise di passare.
Mi immaginavo di incontrare il signor Kelpe in uno di quegli uffici da manager, vestito in giacca e cravatta, e con un raffinato accento britannico. Quello che trovai, invece, fu un uomo piuttosto basso, di una stazza considerevole, con le gambe tozze infilate in stivali da lavoro sporchi di fango. Indossava uno di quegli elmetti gialli da cantiere, una terribile camicia a scacchi rossa e bianca e un gilet di jeans con numerose tasche e taschine riempite di ogni possibile cianfrusaglia. Il suo viso rotondo completava il quadro: con un leggero strabismo all'occhio sinistro e quei due enormi baffoni rossicci, pareva più che altro lo schizzo mal riuscito di un artista ubriaco.
Era stato un operaio ad indicarmelo, altrimenti non avrei mai immaginato che quello fosse il capo del cantiere. Stava sbraitando contro un lavoratore che aveva combinato non so cosa, e mi stupii di quanta autorità potesse scaturire dalla voce di un omino così insignificante.
Io me la sarei defilata volentieri, vista l'aria che tirava, ma proprio prima che potessi svignarmela, lui mi apostrofò: «Tu che vuoi?»
«Io... ehm, buongiorno, signor Kelpe» farfugliai, cercando di essere un minimo educato.
«Salta pure i convenevoli» mi rispose con un tono burbero.
Io farfugliai come un pesce rimbambito, ma alla fine riuscii a dire: «Mi chiamo Remus Alborgeth e cercavo un posto di lavoro».
«Benedetto san Patrizio, ma quanti anni hai? Dieci?» esclamò l'uomo, osservandomi con occhio critico.
«Dodici, signor Kelpe» risposi prontamente, cercando di dimostrare la mia età, anche se sapevo di essere talmente mingherlino da sembrare più piccolo di quanto non fossi.
«Mah, chiamami Bob» sbottò lui, quasi per riflesso automatico.
«Sì, signor Bob».
«Che sai fare, ragazzo?» mi chiese Bob, accarezzandosi i baffoni con aria pensierosa.
«Imparo alla svelta, qualsiasi cosa vogliate farmi fare, signor Bob» risposi solerte, anche se ero perfettamente cosciente di non poter offrire grandi qualità professionali. D'un tratto pensai che, se io fossi stato il datore di lavoro, non mi sarei mai assunto. «La prego, signore!» esclamai allora, accorato. «Questo posto mi serve per pagarmi il liceo!»
Bob sgranò gli occhi, facendo velocemente due conti. «Vuoi dirmi che dovrei assumerti per non più di due ore al giorno, senza che tu sappia fare nulla?» chiese in tono burbero, non riuscendo a credere che qualcuno potesse davvero fargli una proposta tanto assurda.
Realizzai immediatamente che non avevo nessuna carta da giocare a mio favore, se non quella di tentare di muovere a pietà il signor Kelpe. «Io voglio studiare, signore, ma non posso permettermelo. Se lei mi dà un lavoro, ho qualche speranza di frequentare il liceo. Solo lei può aiutarmi...» mormorai, con un tono studiatamente supplice e piagnucoloso.
«Di', ti sembro un filantropo? Questa è un'azienda, per Giove!» sbottò Bob, ma il suo tono era meno burbero di quanto avrebbe dovuto, a sentire il contenuto delle sue parole. Infatti, poco dopo, non riuscì più a sopportare il mio sguardo supplichevole e sbuffò. «Cominci la settimana prossima, dalle 17.00 alle 19.00» borbottò con un grugnito. «Ti do 30 sterline a settimana, non un centesimo di più».
«Grazie, grazie, signore!» esclamai, mentre un sorriso spontaneo mi saliva alle labbra. Ce l'avevo fatta! Abbracciai Bob d'istinto, troppo entusiasta per pensare che non fosse affatto conveniente abbracciare il proprio datore di lavoro.
«Sì, sì» borbottò lui, liberandosi con imbarazzo dalla mia stretta improvvisa. «Ora smamma, Remus».
Io gli rivolsi un gran sorriso, prima di affrettarmi a recuperare la mia bicicletta per correre a casa ad avvertire la mamma del mio successo.
Tornai al nostro appartamento di periferia decisamente più sollevato, convinto che nulla potesse ormai intralciare il mio piano. I volantini della James Joyce school non mi servivano nemmeno più.
Entrai in appartamento che mamma era già tornata dal lavoro e stava preparando la cena.
«Mamma!» esclamai pieno di entusiasmo. «L'anno prossimo voglio andare al liceo!»
«Non possiamo permettercelo, tesoro» mi rispose la mamma, in tono affranto.
«Lo so, lo so, ma io ho trovato il modo» spiegai, levando il giubbotto e lanciandolo sul divano. «Parte delle spese saranno coperte dalla borsa di studio, per il resto, ho trovato un lavoro al porto».
«Un lavoro?» mi fece eco la mamma, sorpresa.
Annuii e le raccontai del mio colloquio con Bob Kelpe e di come avessi trovato un porto nel suo cantiere navale.
Lei mi ascoltò in silenzio, ma alla fine mi fece un'unica domanda che mi tormentò per molti anni a venire: «Sei sicuro che ne valga la pena, Remus?»
Accettare quel posto per pagarmi il liceo avrebbe significato passare la giornata a scuola, per poi attraversare buona parte del centro e raggiungere il porto, dove avrei passato due ore a lavorare; e avrei dovuto ridurmi a studiare e fare i compiti la sera dopo cena, con un pessimo rendimento. Tutto questo, solo per riuscire a frequentare prima il liceo e poi l'università.
Ne valeva davvero la pena?
Era il mio sogno, dopotutto.
Valeva la pena, combattere per i propri sogni?
Sorrisi.
«Sì, mamma, ne vale la pena».




Ecco il nuovo capitolo!
Povero Remus! Non è tanto caro e tanto dolce con la sua testardaggine nel voler fare il liceo a tutti i costi? Una costanza ammirevole per un marmocchio di dodici anni!
Bob è il classico orso grezzo che invece si rivela un tenerone: alla fine assume Remus contro ogni sana logica perché gli fa un po' pena. QUI un'immagine del burbero Bob.
Nel prossimo capitolo, arriveremo al liceo!
Grazie a tutti,
Beatrix

   
 
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