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Autore: aylee    12/05/2012    5 recensioni
John ha preso una decisione, Sherlock è sempre in viaggio e due errori non fanno una soluzione. Forse.
Genere: Angst, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Seconda e ultima parte. Un altro po’ di angst, un po’ di fluff… perché nella vita serve a un certo 
punto bisogna tirarsi su!
 
Non posso dire di essere del tutto soddisfatta del risultato, ma essendo un po’ arrugginita non mi 
lamento. In ogni caso grazie a tutti quelli che hanno letto, e soprattutto a chi ha commentato.
 
Buon fine settimana!
 
*
 
 
 
È stato un errore. Del resto era una scelta illogica, e dalle scelte illogiche derivano errori. Lestrade è 
quanto di più vicino ci sia per me alla definizione di amico, ma passare alla sua festa di compleanno 
rimane comunque insensato – noioso, fastidioso, inutile.   

Se volessi essere sentimentale direi che sono venuto perché mi ha chiamato appositamente per 
invitarmi, mentre ero in Romania, dicendomi che “Cavoli, se continuiamo così finirò per 
dimenticarmi quanto sei insopportabile, pensi che i miei cinquant’anni possano essere una scusa 
sufficiente per concederci qualche ora della tua presenza?”   

Ma ho per fortuna un paio di valide ragioni essere qui, ovviamente – del resto non avrei mai fatto 
qualcosa di totalmente illogico. Innanzitutto una festa affollata di Yards è un’ottima occasione per 
avere un quadro completo dello stato delle loro indagini, e voglio essere sicuro di non perdermi 
nulla di importante. E poi... e poi ci saranno John e Mary, ed è necessario che io sappia se riesco 
a guardarli senza che lo stomaco mi finisca sotto le scarpe, perché se così fosse potrei pensare di 
smettere di girare come una trottola da un posto all’altro e ricominciare a passare un po’ di tempo a 
Londra, la mia Londra, da cui mi sono trovato costretto a scappare di nuovo. La prima volta 
scappavo per John, questa volta scappo da John.   

Mi sono arreso all’evidenza che Baker Street sia un problema irrisolvibile, non riesco a starci per più 
di qualche ora senza che mi manchi l’aria,  ma se il resto cominciasse ad andare a posto riuscirei 
senz’altro a venire a capo di un banale problema logistico quale è un appartamento. 
Potrebbe essere sufficiente trasferirmi al 221 C?   

Mi bastano alcuni attimi per capire che nulla è andato a posto e che quando sarò nuovamente 
su un aereo non sarà mai abbastanza presto. In pochi secondi individuo John tra la gente, 
sono ancora sulla porta e dopo quella che mi sembra una vita è a pochi metri da me, una birra 
in mano, il suo maglione, i suoi occhi, la sua risata, tutto vicino, tutto irraggiungibile.   

Una serie di reazione chimiche assolutamente inopportune si mettono in moto nel mio corpo e nel giro di un 
attimo mi ritrovo a lottare contro la gola chiusa, lo stomaco annodato, un’eccessiva sudorazione e le mani 
nascoste nelle tasche del cappotto che tremano leggermente. Il tutto sembra peggiorare quando, dopo pochi 
istanti, deduco che è qui da solo – il che a rigor di logica non cambia nulla, ma da qualche mese a questa 
parte ho scoperto che non sempre la logica e la chimica vanno d’accordo.   

La mia mente vince la sua battaglia quel tanto che basta per salvare le apparenze e per oltre un’ora riesco ad 
aggirarmi nel locale salutando quanti si aspettano di essere salutati, parlando il minimo possibile, ascoltando e 
registrando qualunque informazione utile sulle ultime attività dello Yard. Passo anche un appropriato periodo 
di tempo con il festeggiato -che mi saluta abbracciandomi davanti a tutti, e io sono quasi tentato di farlo pentire 
di tanta audacia con una battuta fulminante. Ma Lestrade è già piuttosto brillo, sembra davvero felice di rivedermi, 
è il suo compleanno e il mio sguardo ha appena incrociato quello di John e proprio non sono in grado di tirar fuori 
battute intelligenti in questo momento. 
 
Lui rimane a pochi metri da me tutta la serata, non ci scambiamo una parola ma lo sento, in ogni momento, e mentre 
proseguo nella mia missione – sopravvivere al compleanno di Lestrade, ma ci può essere un modo più stupido di 
perdere il tempo?-  è come se non riuscissi né ad avvicinarlo né ad allontanarlo.
 
Quand’è che questa situazione mi è completamente sfuggita di mano? Quando ho finalmente compreso con certezza che
 i miei sentimenti per John erano ormai fuori controllo?
 
Forse è stato qualche settimana dopo il suo trasloco, quando ho dovuto ammettere che non ero in grado, non ce la facevo 
a continuare come prima perché la mia vita senza di lui era noiosa, perfino il lavoro senza di lui era noioso ma la cosa peggiore 
era che non mi importava un accidenti di niente della noia perché l’unica cosa che riuscivo a sentire era un’assordante e 
monopolizzante nostalgia.
 
O forse è stato ancora prima, quando mi ha detto che pensava di andarsene, lasciare la nostra casa, la nostra vita, e io mi sono 
scoperto incapace di reagire, di spiegargli anche solo una delle decine di ragioni che rendevano la sua scelta sbagliata, stupida, 
dannosa, cattiva. Ho assistito alla realizzazione del suo progetto in silenzio, schiacciato da un peso di cui non avevo compreso 
bene le dimensioni ma che già mi spaventava. Orgoglio, imbarazzo, delusione, paura… quanti vocaboli ho dovuto imparare in 
pochi mesi.
 
Se volessi essere del tutto sincero, è probabile che le cose abbiano cominciato a degenerare lentamente ma inesorabilmente molto, 
molto tempo prima. Quando ho cominciato ad aspettare impaziente il suo ritorno dalla clinica, ad essere irritato quando non mi 
accompagnava per un caso, ad attendere quelle sere in cui ci ritrovavamo insieme sul divano per vedere un qualche stupidissimo 
programma televisivo e io commentavo, e lui rideva, e a volte mi addormentavo con la testa sulle sue gambe ed era piacevole. 
 
Quando ho cominciato a pensare che se John un giorno avesse voluto da me anche altro – ogni tanto mi sembrava che volesse 
altro, ma queste cose sono sempre così indefinite, incerte, imprevedibili…- io non mi sarei tirato indietro, perché in un certo senso 
lo meritava, il privilegio della sua presenza meritava di avere in cambio qualunque cosa e soprattutto perchèera John e al di là di 
ogni mia reticenza sapevo che sarebbe andato tutto bene.
 
Adesso, questa sera e come ogni volta che lo incrocio da quando se n’è andato, devo concentrarmi per non lasciare la mia mente 
vagare e perdersi in irrilevanti pensieri su tutto quello che avrebbe potuto essere – perché davvero non ha senso, quello che avrebbe 
potuto essere non è stato e non so nemmeno bene cosa sarebbe stato, questo senso di incompleto lasciato dall’assenza di John è 
puramente fittizio, non reale, immaginario…

Quando mi sembra di stare raggiungendo il punto in cui la vicinanza di John diventa insopportabile saluto e mi preparo a una lunga 
passeggiata per le strade di Londra, sperando che questa città a cui sono così profondamente legato mi aiuti a recuperare l’equilibrio, 
almeno per un po’.
 
Quando John mi blocca e mi dice che viene con me sono tentato di trovare una scusa, una qualunque, per evitare di passare anche 
solo qualche minuto in più con lui. E quindi gli rispondo che lo aspetto fuori, così potrò passare almeno qualche minuto in più con lui. 
Ecco, appunto: insensato, illogico, fuori controllo.

Una volta in strada per un attimo ho lo stupido desiderio di sgomberare la mente da ogni pensiero e far finta che sia una delle innumerevoli 
serate in cui tornavamo insieme verso casa e tra noi c’era solo un confortevole senso di familiarità.
 
Mentre ci avviamo scaccio la tentazione di intrappolarmi in questa illusione e valuto rapidamente la situazione: John sembra perso nei suoi 
pensieri ma ha voluto venire via con me, è chiaramente teso, probabilmente deluso dal mio comportamento. Ci siamo allontanati molto in 
questi ultimi mesi, so che dipende da me e so che lo sa anche lui, ma mi sembra improbabile che mi dica qualcosa a riguardo (per quel che 
ne so potrebbe non essersene nemmeno accorto, potrebbe non importargliene un gran che, potrebbe…) e sicuramente io non voglio 
parlarne. Si tratta percorrere insieme un breve tratto di strada, la cosa più ragionevole è far in modo che tutto sembri normale 
– ce la posso fare.
 
“Pare che ci sia un famoso serial killer di origini caucasiche che si nasconde da qualche parte nei dintorni di Istanbul, si preannuncia un 
caso interessante. Partirò domani sera, probabilmente, o al più tardi dopodomani mattina.” Ecco, ho fatto la mia parte, lascio la parola 
a John.
 
Ma John sembra quasi non avermi sentito, continua a camminare, lo sguardo fisso di fronte a sé, le mani nelle tasche, nella luce incerta 
della sera mi sembra stanco come non lo vedevo da tempo, come l’ho visto solo poche volte nel corso dei nostri casi più impegnativi.
 
È forse successo qualcosa di cui non sono a conoscenza? Harry? Problemi a lavoro? Non sta bene? Ho trascorso gli ultimi mesi ignorando
 qualunque informazione potesse riguardarlo e sforzandomi di non dedurre i segni che portava addosso nelle rare occasioni che ci 
incontravamo –troppo doloroso leggere le tracce della sua nuova vita di cui non faccio più parte.
 
Ma adesso mi rendo improvvisamente conto che l’ho realmente perso di vista, che non ho idea di cosa gli sia successo ultimamente, so solo 
che sembra stanco, scontento, diffidente… per la prima volta dopo non so quanto tempo sono quasi sopraffatto dall’urgenza di sapere come 
sta un’altra persona e quasi senza rendermene conto domando. Non deduco, non ragiono, non incalzo. Domando.
 
“Come vanno le cose?” 

Sono imbarazzato dalla mia stessa domanda, così poco da me, al punto che quasi non mi rendo conto che segue un’altra lunga pausa -troppo 
lunga- prima che John mi risponda con uno strano tono distaccato che non sono sicuro di avergli mai sentito utilizzare.
 
“Suppongo che sia una domanda di circostanza per avere una risposta di circostanza.”   Le sguardo è sempre fisso di fronte a sé, le spalle tese.   

“Tutto bene, grazie”, aggiunge, senza nemmeno tentare un sorriso.   

Ammetto che sono confuso.   

“E la risposta non di circostanza?”   

“La risposta non di circostanza sarebbe quella che darei al mio miglior amico, se ne avessi ancora uno.”   

Ah. Ci siamo. La tensione, l’incertezza, questa passeggiata nella notte: la mia ipotesi era sbagliata, vuole parlare. Di noi. 
 
Quindi il mio comportamento l’ha realmente ferito, e non mi fa onore fingere di scoprirlo solo adesso, so che John tiene a me e so che non 
si aspettava di vedermi sparire com’è poi successo – non me lo aspettavo nemmeno io. Ma lui ha una nuova vita, una nuova casa, una nuova
 relazione, mentre io ho un vuoto sconosciuto con cui fare i conti tutti i giorni e in questi mesi non mi sono potuto permette di fermarmi a riflettere 
su come potesse stare lui. Anche perché è una domanda che non dovrebbe avere senso – lui è felice, lui deve essere felice, la sua felicità può 
essere l’unica spiegazione accettabile per la fine di… la fine di tutto quello che eravamo noi.    

Cerco di recuperare il filo, gestire la conversazione, possibilmente chiuderla rapidamente, tenendo fuori tutta questa confusione di sentimenti 
che non mi permette di pensare lucidamente. 
 
“John, non essere melodrammatico, non è da te. Prendere sul personale il fatto che recentemente mi sia dedicato prevalentemente a casi che mi 
hanno portato all’estero è piuttosto infantile.”
 
Sto ancora finendo di parlare e già so che ho detto la cosa sbagliata, e la reazione di John è talmente rapida che non ho nemmeno tempo di pentirmene. 

Cerca di controllarsi ma finisce quasi con l’alzare la voce: “Hai ragione, perché mai dovrei perdere sul personale che il mio miglior amico, 
quello con cui ho vissuto per anni, per cui ho ucciso e che si è buttato da un palazzo per me non ha più tempo di mandarmi nemmeno 
un messaggio? Un cavolo di messaggio, Sherlock! Sono mesi che non ti fai sentire, che non mi racconti nulla, che… Dio, lo so che tutta 
questa cosa della convivenza e di Mary per te è incomprensibile, ma davvero improvvisamente non merito più nemmeno il tempo di un messaggio?!”
 
Mi sforzo di non voltarmi a guardarlo e mantenere la concentrazione, eliminare il superfluo (emozioni, sentimenti) e cogliere l’essenziale: 
John ritiene che il mio comportamento derivi dalla mediocrità della sua scelta, che l’ha automaticamente relegato nell’ambito delle cose 
che non mi interessano. John, John...! Come al solito vedi ma non osservi.
 
In genere la mancanza di osservazione in John non suscita in me il fastidio pungente che rivolgo al resto del mondo. No, quando si tratta di 
lui mi limito a correggerlo – riprendendolo, ovviamente, ma non c’è mai vero astio nelle mie parole. Ma questa volta, in questa situazione in 
cui non posso guidarlo verso la verità e in cui la verità è così dolorosa (da quando questa parola è diventata così frequente nei miei pensieri?), 
improvvisamente non sono infastidito, sono… arrabbiato?

Sì, sento montare la rabbia, un’emozione non del tutto gradita ma tutto sommato tra le più innocue, un’emozione conosciuta che so come gestire, 
che ho quasi atteso in tutti questi mesi. Non c’è una spiegazione logica – per questa come per tante altre cose in questa situazione- ma ho 
sempre avuto la confusa certezza che, se avessi potuto arrabbiarmi almeno un po’ con John per avermi lasciato, tutto questo peso che quasi 
mi schiaccia si sarebbe alleggerito. E adesso finalmente è arrivata e mi sento meglio – no, forse non meglio ma almeno più forte, i pensieri 
tornano a fluire chiari, le parole ricominciano a formarsi taglienti nella loro usuale velocità.

“John, mi sfugge di cosa ti lamenti esattamente. Hai preso una decisione perché volevi cose diverse, nuove, normali. Se hai pensato che fosse 
possibile semplicemente aggiungere un pezzo in più a quello che avevi senza perdere nulla lungo la strada, mi spiace informarti che non funziona 
così. Pensavo che anche una mente mediocre come la tua ci arrivasse, ma evidentemente sbagliavo.”
 
Mi fermo un attimo – la rabbia è improvvisamente diventata troppa, la mia voce quasi trema, non va bene. Ordine, logica. Respiro.
 
Riprendo, il tono nuovamente neutro:  “Devo ammettere che non mi sono interessato di come stia andando la tua nuova vita, ma sono comunque 
sicuro che, se qualcosa della scelta che hai fatto non ti soddisfa, sono la persona meno indicata con cui prendersela.”   

Le mie stesse parole mi colpiscono nel momento in cui le pronuncio. John non è soddisfatto? Non è sicuro della sua scelta? Non è contento di 
Mary? ...potrebbe tornare da me?   

Vorrei fermarmi, afferrarlo, fargli queste domande e altre ancora che adesso mi sembrano importanti ma sono improvvisamente agitato, riesco 
solo a osservarlo con la coda dell’occhio mentre continuiamo a camminare e sul suo viso leggo che alla rabbia si sono uniti dubbio e sensi di colpa.   

Respira profondamente e sembra più tranquillo quando, dopo qualche attimo, risponde: “Hai ragione, i miei problemi sono miei e non è giusto che 
te li scarichi addosso. Ma non cercare di fregarmi, Sherlock. Non ti sei comportato bene in questi mesi, lo sai benissimo e anche se non te ne frega 
nulla potresti almeno per una volta evitare di trattarmi come un idiota e semplicemente ammetterlo.  Mi spiace essere così stupidamente umano 
rispetto a te” -si sta di nuovo alterando- “ma mi manchi, mi manchi molto e a volte penso che se non avessi l’impressione che gli ultimi anni della 
mia vita si sono misteriosamente volatilizzati forse anche tutto il resto sarebbe più facile.”
 
Non so bene cosa rispondere. Mai successo di dover sostenere un amico in crisi sentimentale – se di questo si tratta. Mai successo di dovermi 
trattenere dal leggere altro nella crisi sentimentale di un amico. A questo punto devo sapere.  
“Se vuoi… se vuoi parlare ti ascolto, John”, rispondo e la mia voce suona esitante, non mi piace. “Sai bene che le emozioni non sono il campo 
in cui le mie capacità intellettive producono i migliori risultati, ma se vuoi raccontarmi cosa sta succedendo sarò felice di darti un’opinione sensata.”
 
Lo sento sbuffare, mi giro a guardarlo e vedo che sorride, la rabbia sembra svanita e mi sta guardando con un’espressione di innegabile… 
tenerezza. Mi agito – di nuovo- quasi mi perdo nel suo sorriso, penso in pochi secondi a mille altre cose da dire per non rompere questa 
ùatmosfera di calore e complicità che per un attimo è di nuovo fra noi, e alla fine, senza quasi rendermene conto, involontariamente dico la verità.
 
“Al di là di qualunque preoccupazione tu abbia, spero ti sia chiaro che non è successo nulla di irreversibile e se dovessi aver cambiato idea puoi 
sempre tornare indietro. La tua vecchia stanza a Baker Street è ancora a disposizione, ovviamente.”
 
No, non è proprio la verità, non è quel ti prego torna a casa che per un attimo ha invaso la mia mente ma è quanto di meglio sono riuscito a 
fare e spero che John sia abbastanza bravo da leggere tutte le emozioni che ho cercato di fargli arrivare con quella frase, e… e improvvisamente 
mi rendo conto di aver fatto qualcosa di decisamente non buono perché sto camminando da solo, John è fermo qualche passo dietro di me, gli 
occhi chiusi, la mascella serrata, le mani strette a pugno nelle tasche.   

“Sherlock, no.”   

…cosa ho detto di sbagliato? È quello che avrebbe detto qualunque buon amico- se hai un problema la porta di casa mia è sempre aperta- no? 
Forse no, forse non così, forse date le  circostanze avrei dovuto dire altro. Ma a questo punto non mi è del tutto chiaro quali siano le circostanze, 
non capisco, sono confuso, non sopporto essere confuso e non ero preparato a una cosa del genere, di qualunque cosa si tratti.   

Si passa una mano sul viso, raddrizza le spalle, ed espira lentamente.   “Sherlock, mi spiace. È stata una giornata lunga – una settimana lunga,
 un periodo… Non importa, davvero, ma io sono stanco, tu sei… be, tu sei tu e questa chiacchierata può solo finire male. Ci sentiamo 
la prossima volta che sei a Londra, ci sentiamo più in là, non so, a questo punto non credo che faccia molta differenza. Scusami, davvero, 
ma devo andare a casa.”   

Sto ancora elaborando quello che mi ha detto (da quando sono così lento?) che lui già si è voltato e si sta allontanando. Sono senza parole, 
sta… sta scappando! Sta scappando da me. E non perché l’ho deluso, non perché sono sempre in viaggio, non perché è arrabbiato, ma 
perché... perché?   

Lo seguo, lo afferro per un braccio, non posso lasciarlo andare, ho delle domande ma siamo inaspettatamente troppo vicini e la mia mente sembra 
paralizzarsi mentre rimango così, come un idiota (io, un idiota...?!) in mezzo alla strada, la mano che ancora lo stringe e -temo- un’espressione di pura 
confusione in faccia.   

Penso che non possa andare peggio di così, quando all’improvviso va molto peggio di così perché la mano di John è sulla mia sciarpa, io sto 
precipitando verso il basso e la mia bocca si scontra con la sua. Una sorta di confuso senso di panico mi avvolge per un attimo, cerco inutilmente 
di pensare, vedere, capire, ma così come è cominciato tutto finisce e l’attimo dopo gli occhi spalancati di John mi fissano, prima di chiudersi su 
un’espressione di sconforto e frustrazione.  

 “Merda”, lo sento mormorare.  

 “Merda, merda, merda!”   

Si allontana di qualche passo, le mani nelle tasche, la postura rigida e gli occhi ancora chiusi.   

Rimaniamo così, in silenzio, e io cerco disperatamente di capire cosa è appena successo – John mi ha baciato.   

Non pensare ovvietà!, mi grida una parte del mio cervello.   

Mi sforzo di riflettere, di mettere i pensieri in ordine, di dedurre – il compleanno di Greg, la tensione, l’aggressività- John mi ha baciato.   

No, no, no! Concentrazione!   

Non è la festa, non è stasera, devo tornare ancora più indietro, devo capire – John che mi dice che se ne va, John che lascia Backer 
Street, John che mi cerca insistentemente, John che un po’ per volta si arrende...-John mi ha baciato.   

“Se mai avessi avuto bisogno di una prova del fatto che sono un idiota, sicuramente da oggi puoi stare tranquillo.”   

Torno al presente, John ora non è più teso, le sue spalle sono rilassate, quasi abbandonate e fissa un punto in lontananza con aria rassegnata.   

“Ho...”, sento l’imbarazzo nella sua voce, “ho preso una decisione mesi fa convinto che fosse quella giusta, che qualunque altra decisione 
non avrebbe avuto senso. Non so cosa sia successo nel frattempo, non so nemmeno bene quand’è che ho cominciato ad essere confuso, 
non sono un maledetto genio ma so che ho sbagliato, e di parecchio. Perché non sono felice, non ha funzionato, e tutta questa distanza fra 
noi per me è ingestibile e mi fa fare… cazzate.”   

Distanza... fra noi... ingestibile… 

Deglutisco, annaspo, suona tutto terribilmente familiare, ma non può essere, non può!   

“Immagino che questa situazione sia tremendamente imbarazzante per te”, prosegue John, “e io… io non sono nemmeno sicuro di sapere cosa… 
In ogni caso mi dispiace, scusa. Immagino anche che sia inutile chiederti di dimenticare, ma potresti almeno essere così gentile da... non so, 
far finta di nulla?”   

Si ferma un momento riflettere, si sta guardando le scarpe adesso.   

“Uff, ma di che mi preoccupo. Ci siamo già persi comunque in questi mesi, non è vero? Hai cominciato ad eliminarmi un po’ per volta dal giorno 
in cui me ne sono andato – non te ne faccio una colpa Sherlock, davvero. So che sei fatto così, va... va bene, non c’è problema. Oddio, ci 

sarebbe un problema enorme in realtà, ma è un problema tutto mio e... Ok, quello che voglio dire è che mi dispiace, davvero, e ti chiedo scusa, 
ma a questo punto in realtà non c’era più molto da perdere... no?”   

Finalmente mi guarda, ed è uno sguardo fermo ma di una tale tristezza che mi toglie il fiato. Capisco che forse si aspetta di sentirmi dire qualcosa, 
ma io al momento non sono in grado di mettere insieme una frase di senso compiuto.   

Lo vedo chiudere un attimo gli occhi, stringere i denti, e poi guardarmi di nuovo: “Ok, credo che... credo sia ora di salutarci. Ci si vede in giro 
immagino. Per i sessant’anni di Greg, magari.”   

Si gira per andarsene e finalmente mi rendo conto che devo fare qualcosa, qui, adesso, perché tra un momento non ci sarà più e sarà tutto finito 
così e non importa se non ho tutte le variabili, non importa se mi sembra tutto stupidamente confuso, io devo fare qualcosa.   

Lo seguo, lo fermo, le mie mani sulle sue spalle, sostengo il suo sguardo, apro la bocca e... non esce nulla. Respiro, riprovo. Nulla. Scuoto la testa, 
cerco di fargli capire – aiutami John, io non sono so come si fanno queste cose, non so nemmeno bene cosa vorrei fare, cosa vorrei dire, non...  

“Sherlock…?”

Gli occhi di John passano dalla sorpresa al dubbio, per poi essere attraversati da un lampo di comprensione che lo lascia completamente sconvolto. 
Fissandomi come se fossi un fantasma solleva una mano fino a poggiarla sul mio viso, sento un pollice che mi sfiora leggermente uno zigomo e 
chiudo gli occhi spingendo verso la sua mano. Mi manchi. Torna da me. Riprendimi con te. Mi manchi.   

Vorrei dire tutto questo ma l’unica cosa che riesco a fare è far scivolare le mani sulla sua schiena avvicinandomi ancora di più fino a quando siamo 
uno contro l’altro, uno dentro l’altro e ci stiamo- abbracciando.   

Le dita di John passano incerte sulla mia nuca, il suo respiro contro l’orecchio, il suo odore dappertutto. Passa qualche momento e sento che prova 
ad allontanarsi, stringo di più, sicuramente più di quanto sia appropriato, opportuno, corretto...   

“Sherlock?”   

Continuo a stringere, cerco di riprendere il controllo e di pensare a un modo di pregarlo-non so nemmeno bene io di cosa- senza risultare del tutto 
supplichevole. Ma poi sento la sua mano più sicura alla base del mio collo e di nuovo la sua voce nell’orecchio.   

“Sherlock... è tutto a posto.”   

Sono poche parole e non significano nulla di preciso, ma il peso di un anno di solitudine e di nostalgia comincia a scivolare via dal mio corpo, 
mi sembra di sgonfiarmi, sciogliermi letteralmente su John in un modo che non credevo possibile. Non sto piangendo – ovviamente non sto piangendo, 
non sono in cima a un palazzo e non sto per buttarmi e a parte situazioni assolutamente eccezionali io non piango mai- ma premo con più forza il 
viso nel suo collo e rimango incastrato lì, giusto per sicurezza.   

Rimaniamo così minuti interi, che sembrano insieme molto lunghi e molto corti, fino a quando John si stacca da me con delicata decisione – e io 
vorrei trattenerlo ma c’è un limite all’insensatezza di tutto quello che sto facendo stasera, quindi lo lascio andare.  

 Ci ritroviamo così, uno di fronte all’altro, e io non ricordo di essere mai stato così… confuso? Spaventato? Emozionato? John fissa un punto 
al di sopra della mia spalla e la sua concentrazione sembra vacillare, mentre per un momento un’espressione di dolore profondo gli attraversa 
gli occhi – John, che sta succedendo?   

Infine torna a guardare me -continua a guardarmi, John, ti prego- e serra la mascella, raddrizza le spalle e sembra prendere una decisione. 
C’è ancora tristezza nel suo sguardo, ma c’è soprattutto una determinazione profondamente sua, la stessa che ha quando impugna la pistola o 
quando è chino su un malato.   

“Ok”, dice, e non c’è esitazione nella sua voce.   
Continuo a fissarlo – ok?  

 “Quanto tempo starai in Turchia?”   

La domanda mi coglie così di sorpresa ed è così fuori contesto che rispondo automaticamente: “Dieci giorni.”   

Ma potrebbero essere meno, sto per aggiungere, potrei non partire affatto.  
Mi precede: “Dieci giorni”, ripete, sembra nuovamente pensieroso, nuovamente triste – John, che sta succedendo?   

“Dieci giorni può andar bene. Devo… devo chiederti di non sentirci in questi dieci giorni. Cioè, se per te va bene ti cercherò io, se ne avessi bisogno,
 ma vorrei che tu non mi cercassi perché nessun momento sarebbe probabilmente il momento adatto e io ho bisogno di questo tempo, capisci?”   

Lo fisso. No, non sono del tutto sicuro di capire – vuole del tempo per riflettere? Al momento non sono in grado di reagire e dirò di sì a qualunque 
cosa se questo significa una possibilità di riaverlo, una possibilità di riavere quello che avevamo prima... o forse qualcosa di completamente diverso 
– John mi ha baciato- non lo so, non so nulla ma per una volta non importa, nulla importa, basta che...   

“E in fondo dieci giorni non sono tanti, no?”, mi sta sorridendo, incerto, incoraggiante, non sa come interpretare il mio silenzio, non lo so nemmeno io.  

 “Quindi...”, prosegue, ormai rassegnato al fatto che non risponderò, “ci vediamo tra dieci giorni a casa.”   

...eh?   

Il tono è fermo, lo sguardo sicuro, io non capisco se sto respirando, se sono davvero qui, se...   

“Sherlock?”   

C’è una traccia di preoccupazione adesso nella voce, mentre di nuovo le sua mani sono sul mio viso e di nuovo siamo a pochi centimetri 
di distanza.   

“Ho detto che ci vediamo a casa. Fra dieci giorni. Hai capito? Va bene?”   

Apro la bocca una, due volte, mi arrendo all’evidenza, appoggio la fronte sulla sua e lo stringo di nuovo, concedendomi un altro momento di tutta 
questa insensatezza che ho tanto l’impressione che sia una delle cose più belle che mi siano successe in vita mia. John poggia per un momento le labbra 
sulla mia tempia, mi passa leggermente una mano fra i capelli, e quando scioglie l’abbraccio vedo che sta sorridendo.  

 “Adesso devo andare”, dice a voce bassa.   


Inspiro profondamente, travolto dall’illogica sensazione di respirare per la prima volta dopo mesi, lo guardo dalla testa ai piedi, vorrei poterlo inglobare,
 assorbire- e mi rendo conto confusamente che sto sorridendo a mia volta. Forse non proprio sorridendo, perché i muscoli del mio viso sono distesi in 
un’espressione che non ricordo di aver mai avuto prima, un’espressione che evidentemente a John piace perché mi guarda un attimo, spalanca gli occhi 
e poi li alza leggermente al cielo con una breve risata.   

“O mio Dio...!”, mormora scuotendo leggermente la testa, sembra felice e... imbarazzato   

Un ultimo sbuffo divertito, un ultimo cenno della testa e John si gira e si allontana – dieci giorni, solo dieci giorni, il pensiero che si ripete nella mia testa.   

Mentre lo guardo camminare senza voltarsi indietro finalmente vedo – no, non vedo, vedevo anche prima, ma non osavo osservare. Osservo un insieme 
di mille piccole cose che... che... Quasi mi manca il fiato, mentre un po’ per volta i pezzi di questo enorme, incredibile, meraviglioso puzzle che non sapevo 
di avere fra le mani cominciano ad andare a posto.   

Non so quanto rimango fermo per strada, nel primo freddo delle notti di ottobre, a ripercorrere e reinterpretare anni di amicizia. A un certo punto 
comincia a cadere qualche goccia di pioggia, appena un accenno e io quasi non me ne accorgo, la mia mente un caos di dati, informazioni, osservazioni, deduzioni. 
John, John, John, John…   

Un messaggio mi risveglia, il battito accelera, le mani quasi tremano mentre afferro il cellulare – John ha detto niente contatti, ma forse...   

“Ti prenderai un’influenza. MH”   

Sbuffo infastidito, alzo gli occhi al cielo, mi giro verso la telecamera che mi guarda dall’angolo della strada e alzo la mano in un gesto che credo di aver
 fatto solo due o tre volte in vita mia, intorno ai quindici anni – prima di capire che le menti superiori non hanno bisogno di basse volgarità per trasmettere
 messaggi ben più potenti.   

E poi, mentre la mia mano è ancora nell’aria, involontariamente sorrido- sorrido davvero, senza secondi fini, senza pensieri. 
Mentre mi giro per avviarmi verso casa penso che potrei essere imbarazzato, se non sapessi che dall’altra parte della telecamera c’è un sorriso simile al mio.
 
 
  
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