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Autore: Iwuvyoubearymuch    13/05/2012    11 recensioni
Ho provato a mettere nero su bianco ciò che può essere accaduto dopo gli eventi dell'ultimo libro.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo Terzo
Nell'ultima settimana gli incubi sono diventati più frequenti. Al punto che mi è impossibile dormire tutta la notte, senza continui risvegli madida di sudore e col fiato corto. I protagonisti di base sono sempre gli stessi e solo qualche volta c'è un cambiamento. Agli ultimi, per esempio, hanno partecipato anche gli ibridi dell'arena. Una volta i lupi, subito dopo gli aghi inseguitori, le scimmie e poi di nuovo tutto da capo. Ho rivisto così tante volte Cato, il tributo del Distretto 2 che era con me nella prima arena, cadere dalla Cornucopia e finire alla mercé dei lupi in una stessa notte, che a un certo punto ho rinunciato a riaddormentarmi e sperare che non l'avrei più sognato. Sembra egoistico da parte mia, ma quello in confronto alle altre notti, era il più piacevole degli incubi. Spesso, anche troppo, lentamente i capelli biondi di Cato si allungavano e iniziavano a ricadergli lungo le spalle. Per quanto cercassi di aguzzare la vista per riconoscere chi fosse, il sangue che ricopriva il viso lo rendeva dannatamente difficile. I lupi lanciati sul malcapitato non lasciavano intravederne le fattezze. Non riuscivo a dire con sicurezza nemmeno se fosse una donna o una bambina. Tutto ciò che sapevo, a giudicare dai capelli lunghi, era che doveva essere un tributo femmina. Forse, era Glimmer del Distretto 1. Allo sparo del cannone, quando i lupi si allontanavano, era difficile dire anche se fosse un essere umano. Somigliava più alla carcassa di un animale morto. Un animale però non indossa gonne e tantomeno camicie. Era difficile individuare il colore degli abiti. Il rosso cremisi del sangue non lo permetteva. Comunque, non davano l'impressione di essere neri come la tuta che dovevamo indossare noi tributi. E allora mi rendevo conto che non era un tributo. Non era Glimmer. A quel punto, accadeva sempre che in quel lago di sangue, qualcosa attirava la mia attenzione. Soltanto in un sogno poteva accadere, perché con la paura, il disgusto per la scena a cui avevo appena assistito, e il moto di compassione per la persona che giaceva inerme ai miei piedi dall'alto della Cornucopia, nessuno potrebbe scorgere un oggetto piccolo come una spilla da balia. Assicurandomi che nessun lupo fosse nei dintorni, scivolavo giù. Afferravo la spilla e sembrava quasi che la punta mi trafiggesse il cuore, lo attraversasse da parte a parte. Era fin troppo familiare per non riconoscerla. Allungavo una mano sul viso della ragazza, che doveva essere minuta prima di essere maciullata dai denti dei lupi. Non poteva avere più di dodici o tredici anni. Cercavo di togliere quanto più sangue possibile da quel viso torturato, che era pallido e freddo al di sotto. Non ho mai avuto la possibilità di scoprire chi fosse la ragazzina. Ma mi svegliavo con il terribile presentimento che fosse Prim.
Sogni del genere si ripetevano anche due o tre volte nel corso di una notte. A volte, invece dei lupi, c'erano le scimmie. Oppure era il veleno delle vespe a uccidere mia sorella. Perché ero certa, al risveglio, che fosse lei. Lo potevo dire da come il suo nome mi arrivava alle labbra. Magari, urlavo anche in preda alla disperazione. L'assenza d'aria mi rendeva difficile respirare. Boccheggiavo e la puntura della spilla sembrava reale. Dopo aver sciacquato la fronte, ritornavo a letto, seduta a gambe incrociate. Cercavo di mettere da parte ogni traccia del sogno, ogni fotogramma che cercava di ritornare a galla. Dal momento che lo trovavo terribilmente difficile, concentravo la mente quanto più ero capace per cercare un modo di non avere più incubi. Era tempo perso. Lo sapevo perfettamente perché in più di due anni avrei già dovuto trovarlo. L'unico momento in cui gli incubi erano meno spaventosi o mancavano del tutto era soltanto uno. In più di una occasione, infatti, avevo pensato di sgattaiolare via da casa e chiedere a Peeta di ospitarmi nel suo letto. Tra le sue braccia. Una notte, contrassegnata dalla particolare ferocia degli ibridi, mi sono ritrovata davanti alla porta di casa sua, la mano a pugno bloccata a mezz'aria. Poi, consapevole di non poter fare una cosa del genere, ho girato i tacchi e ho fatto ritorno nella solitudine della mia casa. Da quel momento in poi, l'attesa della notte è diventata uno strazio. Durante il giorno, vado a caccia. Non tanto per pura voglia di andarci, piuttosto per tenermi impegnata. Mettersi in ascolto della preda, mirare e centrare il bersaglio sono cose che richiedono una certa concentrazione. Arrampicarsi sugli alberi, nuotare nel lago, correre a destra e a manca ti finiscono dopo un paio d'ore. E' così che mi preparo all'arrivo della sera, al momento in cui dovrò andare a dormire, con la speranza che la fatica e la stanchezza mi impediscano di sognare. Mi sbaglio di grosso. Hanno come unico effetto il fatto che mi appisoli ovunque capiti.
"Katniss. Katniss!" Sento qualcuno scuotermi per le spalle. Non voglio aprire gli occhi. Non ora che sto dormendo e non c'è niente a disturbarmi. "Svegliati". La voce - maschile - sembra spaventata. Forse, ho qualcosa che non va così sollevo po' le palpebre. Mi colpisce una luce arancione, che rende impossibile capire a chi appartenga il viso di chiunque sia davanti a me. Però, ne riconosco i lineamenti. E man mano che gli occhi si abituano alla nuova luce, riesco a cogliere anche altri aspetti. I capelli biondi. Gli occhi azzurri, che ricordano tanto quelli di Prim. In realtà, gli occhi di Peeta e Prim non hanno nulla in comune se non il colore. Ma suppongo che ogni volta che incontrerò qualcuno con gli occhi azzurri, mi verrà in mente lei.
"Mettiti a sedere lentamente" dice la voce di Peeta. Adesso sembra più calmo. Lascio che mi aiuti. Una fitta di dolore percorre tutto il braccio destro. "Sei svenuta".
Sono svenuta? Possibile che non me ne sia accorta?Mi guardo attorno. Strizzando gli occhi per via degli ultimi raggi di sole della giornata, riconosco immediatamente la vista. Alcune belle case mi fanno capire che sono al Villaggio dei Vincitori. Sotto la finestra di casa mia. Per terra. "Non sono svenuta" dico, per tranquillizzare Peeta. Mi fissa come se potessi avere un mancamento davanti ai suoi occhi, tra le sue braccia, da un momento all’altro. Solo adesso mi accorgo della presa salda ma gentile sulle mie braccia. "Mi sono addormentata e sono caduta". Ero seduta sul davanzale della finestra a impedire che Ranuncolo agguantasse il cerchio di luce gialla che emanavo con la torcia, lottando contemporaneamente contro il sonno. Quello però deve aver avuto la meglio e sono finita per terra. Ecco, la spiegazione per il dolore al braccio. Non mi sorprende nemmeno che non mi sia svegliata al contatto col suolo. Sono soltanto pochi centimetri e la stanchezza deve aver giocato un ruolo fondamentale.
Sento qualcuno ridere. E' la stessa risata che ho sentito dalla casa di Haymitch il giorno in cui Peeta è tornato. Lo guardo, confusa. Era lui, quindi, che rideva. Ha una bella risata, penso. Poi, l'idea che stia ridendo di me mi fa arrossire. E mi infastidisce, anche. Cerco di allentare la presa sulle braccia. Lui se ne accorge e, smettendo di ridere all'istante, toglie le mani immediatamente. "Non sarebbe più comodo dormire in un letto?" domanda, per nulla retorico.
Oltre l'evidente sarcasmo nella voce, non faccio fatica a cogliere la vera domanda che le parole di Peeta celano. Forse, sto solo diventando pazza o la caduta ha intaccato la mia capacità di giudizio, ma ho la sensazione che mi stia chiedendo come me la passo da quando sono tornata al Distretto 12. Da quando, almeno sulla carta, tutto è finito. Sospiro. "Dormirei sui carboni ardenti pur dormire realmente"
Peeta abbassa lo sguardo. "Ancora incubi?" domanda, e dal modo in cui lo dice avverto che qualcosa non va. E' accovacciato davanti a me a guardarsi la punta delle scarpe e i capelli sulla fronte nascondono qualsiasi sua espressione, ma nonostante questo so per certo che qualcosa lo tormenta. Il problema è che non riesco a capire cosa. Forse, anche lui sta avendo gli stessi problemi. Oppure, ci sono ancora volte in cui non sa la verità riguardo una determinata situazione. I flashback saranno diminuiti certamente se il Dr. Aurelius ha ritenuto giusto e sicuro permettergli di tornare. Adesso che ci penso, non so perché abbia voluto ritornare. Avrebbe potuto vivere in qualsiasi posto volesse e invece è tornato qui.
"Non ricordo nemmeno l'ultima volta che ne non ne ho avuti" ammetto con facilità. Forse, con fin troppa facilità. Nell'ultima settimana, ci siamo comportati come due estranei. Uno dei motivi per cui ho ricominciato a cacciare è proprio Peeta. Volevo evitarlo. Sapevo che nei boschi non avrei mai corso il pericolo di incontrarlo. Sebbene nell'arena se la sia cavata egregiamente, non è difficile intuire che i boschi o le foreste non rappresentano il suo habitat naturale. E se per caso fosse venuto a cercarmi, le prede in fuga mi avrebbero avvertito. Non sarebbe stato in grado di essere tanto silenzioso da ritrovarmelo davanti improvvisamente. Comunque, lui non è mai venuto a cercarmi. Sembrava che nutrisse il mio stesso desiderio di non incontrarmi. Peccato che trovarmi stesa per terra gli abbia rovinato i piani. 
Dopo qualche istante di silenzio, si raddrizza. Mi porge una mano, che accetto volentieri per rimettermi in piedi. "Devo andare prima che il sole cali del tutto" mi dice con uno strano sorriso. Più che un sorriso, in effetti, somiglia a un smorfia di dolore. 
"Dove?" gli chiedo, prima di rendermi conto quanto possa sembrare inopportuna la mia domanda. Ma ormai è fatta. 
Peeta si guarda attorno. E' in difficoltà. Oppure non vuole dirmelo. "Alla panetteria" ammette a fatica. Ecco il perché dell'espressione addolorata. Da quando è arrivato, sono stata così presa dai sogni e dai tentativi di evitarlo, che ho completamente dimenticato che della sua famiglia non è rimasto più nulla. Haymitch me l'ha ricordato il giorno del suo arrivo e mi sono sentita in colpa lì per lì, ma non ci ho dato molto peso. Non mi ha neanche sfiorato l'idea di dirgli che mi dispiace. "Non ci sono ancora stato" dice, la voce rotta.
"Vuoi che venga con te?" domando in fretta, per impedire che i ripensamenti mi facciano cambiare idea.
Peeta ci pensa per qualche istante. Poi scuote la testa. "Meglio di no" dice. "Ma ti ringrazio"
Sospiro. Posso capirlo. Nella stessa situazione, probabilmente avrei fatto lo stesso. Eppure, ci sono rimasta male. Almeno questa verità me la concedo subito. Tanto mi sarei ritrovata ad ammetterlo più tardi, appena mi sarei messa a letto.
Peeta gira sui tacchi e va via, mentre io fisso la sua schiena allontanarsi a passi veloci. Qualcuno chiama suo nome. Quando lui si volta nella mia direzione, mi accorgo di essere stata io. Perché l'ho chiamato? Istintivamente, mi viene in mente di dirgli di fare attenzione. Ma a cosa? Non può trovare nulla di pericoloso tra ciò che rimane del negozio della sua famiglia. Mi preoccupa, però, l'idea che sia lì tutto solo. Anche se lo sa, vederlo coi propri occhi sarà terribile. Sei sicuro che non vuoi che ti faccia compagnia?, è questo che voglio domandargli ancora. La paura di un nuovo rifiuto mi fa dire soltanto: "Mi dispiace".
Lui accenna un mezzo sorriso con un solo lato della bocca e poi riprende a camminare. Lo osservo mentre fa una breve pausa in cui saluta Sae la Zozza, senza intrattenersi parecchio. Qualche secondo dopo, non riesco più a vederlo.
"L'ho invitato a cena, è un problema?" domanda Sae. Scuoto la testa.
Rientro in casa con Sae per darle una mano a cucinare ciò che preso questa mattina. Sebbene cerchi di impegnarmi a ripulire le fragole, l'unica cosa che mi viene in mente è Peeta. Meglio di no. Queste parole continuano a risuonarmi nelle orecchie come un mantra. Non ha voluto che andassi con lui, quando tutto ciò che volevo offrigli era supporto morale. Non è la prova evidente che ha cercato di evitarmi tutta la settimana? Comunque, non me la sento di biasimarlo. Direttamente o indirettamente, è colpa mia se adesso si trova davanti ai resti di casa sua, sotto ai quali potrebbe esserci uno dei suoi fratelli o sua madre e suo padre. Deve prendersela esclusivamente con me se si ritrova improvvisamente senza famiglia. E' più che normale che mi odi. Anche io odierei me stessa. Magari prima poteva anche essere innamorato di me e capace di morire pur di far rimanere in vita me, ma adesso non c'è più nulla di quei sentimenti. Il periodo di tempo a Capitol City, la prigionia e le torture gli hanno permesso di vedere la vera me. Di capire che la sua era soltanto una cotta da ragazzino che andava soppressa del tutto. Non si rende conto dell'effetto che fa, aveva detto una volta rivolto a Haymitch. Adesso ha finalmente capito che dopotutto non ho un effetto positivo sulle persone. Ognuno dovrebbe tenersi alla larga da una persona come me.
Il fatto che Peeta non si presenti a casa mia a ora di cena conferma i miei dubbi. Il cibo è già tutto pronto in tavola, posizionato con una meticolosità sorprendente. Dopo mezz'ora di attesa, lo stomaco di Emil prende a brontolare. A questo punto, conveniamo che Peeta non verrà e iniziamo a mangiare.
"Gli serve solo un po' di tempo" dice, improvvisamente, Sae. "E tutto l'aiuto possibile"
Non c'è bisogno di chiederle a chi si sta riferendo. "Ci ho provato prima, ma non ha voluto" le spiego. Dirlo ad alta voce, per una strana ragione, mi fa stare anche più male. Allo stesso tempo, però, mi infastidisce. Volevo solo essergli d'aiuto.
Sae poggia il cucchiaio nel piatto. "Quando Peeta aveva bisogno della medicina per la febbre, cosa ti ha detto?" chiede, con fare comprensivo. Sembra quasi di essere ritornata a parlare con il Dr. Aurelius.
Ricordo con estrema chiarezza il momento a cui sta alludendo Sae. Peeta ed io eravamo ai nostri primi Hunger Games, all'interno della grotta che avevamo scelto come rifugio dai Favoriti. Peeta era messo malissimo e la febbre non accennava a scendere. Dal momento che tutti noi tributi avevano bisogno di qualcosa disperatamente, fummo invitati a un banchetto. Banchetto era, però, sinonimo di morte. C'erano elevate possibilità che qualcuno morisse, perché gli Strateghi puntavano a questo. "Mi disse che ci saremmo andati insieme o non ci saremmo andati affatto".
Sae annuisce. "Tu gli hai dato lo sciroppo per dormire e ci sei andata lo stesso" afferma, senza alcuna nota di rimprovero o di elogio. Emil segue il nostro scambio di battute, volgendo la testa da me alla nonna.
"Dovevo aiutarlo" dico, asciutta. Sono poche le cose di cui non mi pentirò mai nella vita, guardandomi indietro, e andare al banchetto degli Strateghi per salvare la vita di Peeta rientra tra queste.
Sae annuisce ancora, ma non aggiunge più nulla. Probabilmente alla conclusione devo arrivarci da sola. Non afferro subito, poi capisco cosa vuole dirmi. Devo aiutarlo anche se non vuole. Ma come?

  
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