Ok Oplà eccoci. Capitolo importantissimo e centrale. Non è eccessivamente lungo ma bhe quel che serve diciamo. La parte finale non è scritta a caratteri più grossi a caso, è il pezzo a cui tengo di più che ho scritto con maggiore impegno, ci ho messo davvero l'anima. vorrei dunque che mi deste un bel parere anche su quello se vi soffermate a recensire. E anche per uno che legge e basta dovrebbe essere il pezzo più importante, per questo gli ho dato una dimensione di rilievo. E nulla tutto qui, grazie a chiunque spenderà anche solo un secondo a leggere ciò che ho scritto. E di nuovo un ringraziamento particolare a MadLizzie per le sue recensioni! :) buona lettura!
------------
La mattina seguente Emma si svegliò vagamente frastornata. Ci mise un bel po’ a carburare e a uscire dalla fase di totale rintontimento post-risveglio. Senza dare adito a nient’altro si alzò, e andò in bagno, a sciacquarsi il viso, cercando di lavare via con l’acqua anche il sonno residuo. Dopo le solite varie operazioni mattutine scese giù in cucina.
“Buongiorno!” la salutò subito la madre, con un accenno di sarcasmo nella voce. Emma rispose sorridendo e posò i suoi occhi chiari sull’orologio, in finto marmo, appeso alla parete. Era mezzogiorno circa….non era poi così tardi, considerata l’ora in cui era tornata. La bionda si sedette a tavola, mangiucchiando dei biscotti dalla scatola aperta, lasciata incustodita sul tavolo.
“Ma a che ora sei
tornata?” le domandò serenamente la madre. Ma
Emma, per un istante, non le
rispose. Si era sfilata il cellulare di tasca e, accendendolo, ci aveva
trovato
una chiamata persa, dal numero del tizio che teneva il suo
appartamento, in
comune con susan, in affitto.
“Le 6.30 più o meno” rispose infine,
distrattamente,
"Che c'è?" domandò la madre notando la sua
distrazione.
"il tipo dell’appartamento..mi stava chiamando”
rispose la ragazza, un
espressione fortemente dubbiosa sul viso.
“Richiamalo allora, e senti che
vuole” suggerì, semplicemente, la madre. Emma
storse appena la bocca, annuendo.
Prese il cellulare e chiamò.
Si scoprì che non era nulla di così grave, l’affittevole voleva solo sapere quando le due avrebbero versato la rata successiva, visto che la data, lui, l’aveva persa, e gli risultava solo il periodo. La ragazza però rispose che ne avrebbe dovuto parlare con la coinquilina, e dopo chiuse. Spiegò brevemente alla madre l’accaduto, poi, sospirando, compose il numero di Susan, per chiamarla e avvisarla del disguido.
Mentre il cellulare squillava, Emma sbuffò. Le scocciava immensamente disturbare l’amica così, di domenica, e, per altro, per una scemenza simile. La mascella le pulsò una sola volta, innervosita. Ma, dall’altra parte, il telefono continuava a squillare solerte, finchè non si inserì la segreteria telefonica. La ragazza chiuse la chiamata prima del “bip”, se possibile con un viso ancor più corruciato di quando si era ritrovata quell’altra chiamata sul telefono.
“Che succede?”
fece ancora la madre,
preoccupata dallo sguardo della
figlia.
“Non risponde” spiegò Emma, il telefono
ancora a mezz’aria davanti a lei, e lo
sguardo sempre più stupito e accigliato.
“Avrà da fare” rispose Elizabeth,
spiccia come suo solito. La figlia sollevò lo sguardo,
annuì appena ma non era
per nulla convinta. Cosa stava succedendo? Susan che non si faceva
sentire per
tutto quel tempo era già abbastanza inusuale, senza che ci
si mettesse anche
una chiamata senza risposta. Resistette a stento all’idea di
prendere la
macchina e andare a controllare che fosse tutto ok. Ma, da quel
momento, un
campanello d’allarme le squillò forte in testa, e
non taque più.
La giornata passò uggiosa e lenta, la ragazza pranzò, poi ci furono le visite di alcuni parenti, ma nulla servì a distrarla, a farle dimenticare quel dannato campanello, che squillava senza sosta, immotivato, tormentando la sua testa. Dopo cena riprovò la chiamata, ma il risultato non mutò. Andò a dormire presto, fremente per il ritorno in città. Come al solito mise in carica il telefono, che si illuminò, sgombro..com’era stato per tutto il week-end. Lo sguardo di Emma non fu più neutro, ma vagamente angosciato, mentre bloccava il cellulare e si girava dall’altra parte. –Sus, dove sei..- pensò, poco prima di addormentarsi.
Non ebbe un sonno tranquillo. Ogni mezz’ora, puntualmente, si svegliava, gli occhi chiari sgranati nel buio, imperlata di sudore dopo chissà quale incubo, che, ovviamente, scordava ogni volta che apriva gli occhi. Questo non potè che procurarle un pesante cerchio alla testa, che, al matino, quando la sveglia suonò, non tardò a farsi sentire.
Il braccio di Emma scatto su, fuori dalle lenzuola, più velocemente di quanto non le capitasse solitamente, e bloccò quel fastidiosissimo “bip-bip” acuto. Era presto ma lei si tirò su senza troppi problemi…si sentiva uno straccio. Le doleva la testa, e i muscoli erano intorpiditi, tesi com’erano stati, per tutta la notte, sotto il peso degli incubi. In più aveva una strana sensazione d’angoscia, che non la lasciava in pace, e, in tutto ciò, aveva dormito malissimo.
Quando si potè osservare meglio allo specchio constatò che tutto traspariva dal suo aspetto. I suoi occhi chiari erano contornati di occhiaie, di uno scuro talmente profondo da fare impressione. I nervi del collo erano tesi e visibilissimo attraverso la pelle tirata, insomma aveva proprio l’aria stravolta. Cercando di non far caso al suo aspetto prese a prepararsi il più velocemente possibile. Aveva fretta, per una volta, di tornare a casa in città. Così i preparativi furono veloci, i saluti anche, la madre la congedò affettuosamente dicendo che l’avrebbe aspettata la settimana dopo. Ed Emma partì.
A circa metà mattina la sua utilitaria sfrecciava in Autostrada, veloce come una formula uno, a una velocità assolutamente fuori dalla sua portata. Il volante vibrava forte, e Emma imprecò sottovoce, mentre si costringeva a far scendere di giri l’auto e a sollevare il piede dall’acceleratore. Allungò una mano e accese la radio. Ma ogni singola canzone le scivolò addosso, non meglio ascoltata, se non totalmente ignorata, dalla giovane. Arrivò molto prima del solito e parcheggiò alla bell’e meglio, sul ciglio del marciapiede. Scese dall’auto e la chiuse distrattamente senza neanche scaricare il trollei.
Invece si avviò alla
porta di casa, tentò di
abbassare la maniglia la prima volta, ma la porta risultò
chiusa. Emma sbirciò
l’orario…Susan non era ancora tornata? Possibile?
Senza farsi ulteriori
domande, anche solo per paura delle risposte che si sarebbe potuta
dare, prese
al volo le chiavi, aprì, ed entrò
nell’appartamento. Era tutto silenzioso. La
bionda aprì gli avvolgibili, facendo entrare un
po’ di luce.
“Sus?” chiamò,
infine, andando a sbirciare in alcune stanze…niente da
fare.
Deglutì sonoramente e la mascella prese a pulsarle nervosa. No, qualcosa non le tornava, qualcosa non andava. Stanca e preoccupata per quella situazione, afferrò il telefono, compose il numero di Susan e si attaccò l’apparecchio all’orecchia, con decisione. L’avrebbe chiamata e richiamata, fino allo sfinimento, se necessario, fino a che non avrebbe ottenuto una risposta…o una denuncia per stalking.
Non le importava se era impegnata, se
era tra le braccia di Daniel e
non si era ancora svegliata dopo una notte di passione. Se le avesse
risposto
con tono scocciato, magari, le avrebbe spiegato quanto era idiota, e le
avrebbe
comunicato la notizia dell’affitevole. Ma, in quel momento,
aveva bisogno di
sentirla, di sentire la sua voce, e farsi passare quella stupida
angoscia. In quella,
aveva già effettuato tre chiamate senza risposta.
Staccò per l’ennesima volta
il telefono dall’orecchia, ma, questa volta, prima di
richiamare, scrisse al
volo un messaggio:
“Sus, dove sei finita? Rispondi sono io”. Non aveva
quasi
fatto a tempo a inviarlo che già stava richiamando. Quattro,
cinque
chiamate…Nulla. Emma imprecò, insultando quella
dannata voce registrata che si
inseriva dopo un tot di squilli.
Mentre abbassava il cellulare la
milionesima
volta, però, successe qualcosa. Prima che potesse riaprire
la rubrica, il
telefono prese a squillare e, sul display, apparve l’avviso
di chiamata da un
numero sconosciuto. Corruciata,
rispose.
“Pronto?” fece, mentre, dalla voce, traspariva il
suo essere
dubbiosa.
“Pronto, Emma..sono Daniel” la voce del ragazzo
risuonò
nella testa di Emma, tutt’altro che gioiosa..ma neanche
scocciata, solo
vagamente triste e forse stanca. Emma si fece ancor più
corruciata.
“Oh, Daniel, ciao..Scusa se, ehm, disturbo..solo..sono
tornata in città e Susan ancora non
c’è, sai per caso dov’è? Non
risponde al
telefono e avrei anche bisogno di comunicarle una notizia
dall’affitevole”
disse, mantenendo un tono amichevole e tranquillo. Daniel la
lasciò parlare
silente.
“Emma, Susan è ricoverata
all’ospedale” Rispose solamente il
ragazzo, la voce leggermente roca. Inutile dire che, a Emma,
cascò il mondo
addosso.
“Che cosa?” fece, atona, mentre raggelava e si
irrigidiva di
botto.
“E’ così, purtroppo…si
è sentita male sabato notte,
l’abbiamo portata subito all’ospedale, ma nessuno
è riuscito a produrre una
diagnosi. Ora è nel reparto dei casi più
gravi..ogni secondo che passa le sue
condizioni peggiorano e i medici non sanno che fare. E’
già in coma” la voce
del ragazzo si spezzò, e lui taque. Aveva preferito riferire
tutto difilato alla
ragazza, senza interruzioni, così da evitare
domande su domande, alle quali lo avrebbe distrutto ancor
più
rispondere. E, invece, sapeva che così non ne avrebbe
ricevuto, conosceva quel
minimo Emma da capirlo, in alcune cose si somigliavano. La ragazza, dal
canto
suo, taque. Per un po’ non disse nulla. Semplicemente rimase
li, in piedi, in
mezzo al salotto, rigida come un manico di scopa, immobile come una statua di cera,
come un pezzo
d’arredamento di dubbio gusto. Ogni cosa, in lei, si
fermò.
“Dove siete?” chiese solo, più atona che
mai.
“All’ospedale più vicino, appena fuori
dal paese” le
rispose, altrettando semplice, Daniel.
“Sto arrivando” e, dopo questa scarna risposta, la
ragazza
abbassò il cellulare e chiuse la chiamata.
Non si fermò, scattò fuori dall’appartamento, volò in macchina e partì. Non uno dei suoi neuroni osava alzare il capo da quel silenzio glaciale, che si era creato dentro di lei. Tutto era immobile in Emma, non fosse per i deboli battiti del cuore che pareva comunque cercare di far meno rumore possibile. Era in una situazione di totale sospensione, e, quella volta, mentre volava verso l’ospedale, non ascoltò minimamente i gemiti del motore, tirato decisamente sopra le sue possibilità. In pochissimo, infatti, raggiunse il luogo. Parcheggiò la macchina, tirando il freno a mano quasi prima di fermarsi, e spegnendo il motore di botto. Neanche si preoccupò di chiudere l’auto e, invece, stringendosi nella giacca in pelle nera, si diresse verso l’entrata a vetri scorrevole della struttura.
Una grossa croce rossa, in plastica, troneggiava sull’edificio dalle pareti bianche e, per un momento, prima che le porte si aprissero davanti a lei, dal vetro, le risposero gli occhi di una ragazza dall’aria tirata, lo sguardo truce, scuro più della sua giacca e l’aspetto di un’omicida seriale, il tutto vagamente reso verde dalla piccola luce al neon presente accanto all’entrata. Era il suo riflesso. Non si riconobbe quasi ma non se ne curò oltre.
La hall era spaziosa e illuminata, con alcune macchinette per distribuire cibo e bevande, alcune sedie e un paio di addette dietro alla zona tiket. Emma le guardò per un secondo, prima di voltarsi e andare verso le sedie. Non per sedersi, più che altro per voltare le spalle alle infermiere e scoraggiare ogni possibilità di conversazione. Sapeva che, per avere informazioni su dove fosse Susan, avrebbe dovuto chiedere a loro, ma detestava domandare o parlare in generale con estranei, soprattutto in quelle condizioni. Si sarebbe girata tutto l’ospedale alla cieca piuttosto.
Stava giusto prendendo la decisione
di dirigersi alla porta
che dava sulle scale e cominciare la ricerca, quando il telefono le
vibrò in
tasca. Si fermò di botto, prendendo l’oggetto in
mano e leggendo un SMS.
Riconobbe lo stesso numero che l’aveva chiamata
prima..Daniel. Il messaggio era
scarno, essenziale, ma decisamente al momento giusto
“Susan è al quarto piano,
stanza 252”. Il ragazzo doveva essersi ricordato di aver
glissato
quell’importante informazione, e, conoscendo Emma, aveva
immaginato che lei
avrebbe preferito saperlo, invece di chiederlo.
In quella, la ragazza era già scattata a passo lesto verso la porta bianca che dava su un corridoio, con le scale a sinistra e gli ascensori sulla destra. Non avrebbe avuto sinceramente voglia di attendere i due mezzi, dunque, fece per incamminarsi alle scale, quando notò che una portiera dei due ascensori era aperta. Scartò in fretta, ed entrò, schiacciando il pulsante “4” e voltandosi poi in tempo per vedere le porte in metallo chiudersi, senza far entrare nessun altro.
Emma fece qualche passo indietro, posando la schiena allo specchio e al corrimano, entrambi presenti anche nelle altre pareti di quella piccola gabbia metallica, eccezion fatta per il pannello dei pulsanti e per le porte, ora saldamente chiuse. Aveva uno sguardo indecifrabile. Sembrava quasi ghiacciato, immobile, e impassibile. Forse era in un procinto di stato di shock, si sentiva immersa in un silenzio totale e attonito, le si era quasi fermato il sangue nelle vene. Fino a quel momento, nessun pensiero aveva osato attraversare la sua mente bloccata.
Finchè, in un flash, la voce di Daniel le esplose in testa “..è già in coma”. Il suo sguardo mutò in un istante, serrò la mascella e strinse le mani sul ferro del corrimano, mentre quello che poteva essere quasi un ringhio cupo le fuoriusciva dal petto. Il classico rumore dell’ascensore che arriva a destinazione preannunciò l’apertura delle porte, e lei si lasciò distrarre volentieri da quei pensieri, mentre usciva a passi lunghi e felpati dal mezzo, incamminandosi per il corridoio. Nella sua testa, tutto era tornato a tacere.
Le porte scorrevano alla sua sinistra, tutte squallidamente uguali, colme di persone nelle peggiori condizioni. “251”, all’interno, un vecchio sopito giaceva disteso, attorno, due donne piangevano silenziosamente, mentre un uomo, dall’aria contrita, usciva guidando fuori una bambina piccola, dall’aria dispiaciuta e perplessa. Emma non ci buttò che uno sguardo veloce, prima di giungere alla stanza desiderata.
“252”. La porta era aperta, e fu lentamente che fece spuntare la sua figura sulla soglia, sbirciando dentro. La vista di Susan che ebbe subito, le diede un vago senso di vertigine alla quale cercò di resistere. L’amica stava su un lettino, gli occhi chiusi, tubetti che le sbucavano da quasi ogni vena, collegati a delle flebo, un respiratore alla base delle narici, tenuto su da qualche pezzo di nastro adesivo, di quello apposito per per uso infermieristico. E tanti, troppi monitor, che controllavano i vari valori. Sulla destra, posato al muro, stava il padre di Sus, i baffi, lo sguardo serio e le braccia conserte, pareva una statua imponente accigliato così com’era, burbero come sempre. Neanche si accorse del suo arrivo, che, invece, fu notato dalla madre che, con un impercettibile sorriso tirato, le fece cenno di entrare, lei stava seduta, sulla destra, come il marito, però era vicino al capezzale della figlia. Emma entrò, dunque, in quella stanza dalle pareti blu pallido e il soffitto bianco.
Davanti a lei stava una sedia, alla sinistra della testata del letto. Con circospezione e senza una parola, ci si sedette, lo sguardo dritto davanti a se verso la porta aperta. Daniel era seduto vicino al muro, accanto all’uscio, le fece un breve cenno di saluto, al quale lei rispose altrettanto brevemente. Il povero ragazzo aveva l’aspetto di un annegato, era pallido con pesanti occhiaie, gli occhi bassi, i capelli scarmigliati e lo sguardo spento, la posizione era quella rigida di una persona che ha passato la notte in bianco nella stessa medesima posa, ma nulla in più di ciò traspariva, nulla di quello che doveva essere il suo già enorme dolore. Stettero così, nel silenzio più assoluto, a lungo, mentre, ogni tanto, un’infermiera si affacciava preoccupata.
Passarono secondi, minuti, ore..a passarli da li si potevano dire addirittura anni, tutto si fece confuso il tempo pareva fermo, immobile. Emma pregò, in silenzio, nonostante non fosse da lei. Solo una volta si rivolse al cielo con la mente, indirizzando un pensiero a chi, si dice, lassù possa aiutarti. Poi tutto tornò a tacere nella stanza come dentro di lei. L’unico rumore che si poteva dire interrompesse quel silenzio era il rumore dell’eletrocardiogramma che segnava i battiti. E il tempo si disperse confondendosi.
Tic-tic”. E lì, seduta su quella fredda sedia rigida, con una mano su quella gelida di Susan, Emma capì. In quel momento, quel preciso istante seppe…che era finita, seppe che poteva smettere di pregare, almeno riguardo la salvezza della sua amica. Sollevò la testa e guardò Susan, dunque decise che non aveva più nulla da fare lì, in quella fredda stanza d’ospedale.
“Tic-tic”. Si alzò in piedi e si chinò subito sull’amica, con delicatezza le posò un bacio sulla fronte senza allontanarsi dopo. Rimase lì, a pochi centimetri, ad occhi chiusi –Ti voglio bene Sus- pensò solo, mentre una lacrima si ammassava nel suo occhio senza scivolare giù.
“Tic-tic”. Emma si sollevò, tenendo il capo basso e, senza dire una parola, voltò le spalle a quel letto d’ospedale e si incamminò verso l’uscita.
“Tic-tic”. Un piede di Emma fu oltre la soglia. La donna voltò l’angolo e scivolò fuori dalla stanza. L’elettrocardiogramma si fece piatto.
E mentre medici e infermieri vari correvano veloci verso la stanza che aveva appena lasciato, lei fuggiva via, scura come un ombra, controcorrente, con il viso basso e una mano a coprirle gli occhi, non per nascondere le lacrime ma per occultare la freddezza concava del suo sguardo. La lacrima di prima ruzzolò giù solitaria ma si fermò sulla sua guancia, non era pronta a cadere, neanche quella piccola lacrima trovò le forze di completare la sua strada, trovò il coraggio di muoversi ancora, e morì lì…si asciugò sulla sua guancia, sola. Sola come il cuore della donna, che tante volte aveva battuto all’unisono con quello di Susan mentre scherzavano, ridevano, parlavano o qualunque altra cosa, e che ora batteva furioso, all’impazzata, quasi a cercare di sostituire anche l’altro, di riempire il silenzio lasciato e, magari, incoraggiandolo a riniziare a battere anche lui e non lasciarlo più solo nel silenzio. Quel povero cuore non sapeva che non avrebbe più sentito l’altro familiare compagno, e si sarebbe dovuto rassegnare a quell’assordante silenzio. Ma ancora era presto e lui continuava invano a battere follemente, disperato e ingenuo.