Quinto capitolo: Il Dono
Sei. Sei
contendenti erano rimasti e l’equilibrio era perfetto, tre uomini dei Villaggi
e tre dei Clan. Il Capo sorteggiò gli incontri, gli Spiriti desideravano
sangue, tutti e tre gli incontri videro l’opposizione tra Clan e Villaggi, ma
ancora una volta Rysa non avrebbe incrociato le spade
con Orsoi.
Salì la collina,
ma non entrò nel cerchio di pietra. Sapeva cosa desiderava, sapeva che quando
sarebbe rientrata nell’arena avrebbe ucciso o sarebbe stata uccisa, non avrebbe
permesso all’avversario di arrendersi, no, non più. Le sue mani si erano
sporcate di sangue, si era detta che era un Sacrificio: un dono sacro agli
Spiriti. Quello che aveva fatto, però, era stato uccidere un padre, un figlio,
un marito. Ucciso a sangue freddo.
La rabbia che
l’aveva colta nel vedere Orsoi uccidere il suo
avversario ancora una volta, si era trasformata dentro di lei, non era più una
massa rovente, ma una gelida punta. L’avrebbe usata contro il suo avversario e
per questo, malgrado i suoi passi l’avevano portata fino alla collina, lei non
vi entrò. Stava per fare quello che le era stato insegnato di non fare mai,
avrebbe usato il suo dono per uccidere.
“Dinal, cosa mi
succede?” Il suo cuore batteva veloce, per un istante aveva corso insieme alla
lepre che stava cacciando. L’uomo sorrise.
“Il tuo dono è apparso. In tua madre era
molto forte, ma in genere salta una generazione.” Sorrise ancora ed era strano
vederlo così contento, soprattutto visto che la lepre era sfuggita.
“Dono, Dinal?”
“Sì, tua madre sapeva…” Cercò la parola.
“Sentire…” Le tese la mano facendola alzare, “Neanche lei sapeva spiegare, ma
l’anziana che le aveva insegnato vive ancora, andremo da lei non appena saremo
al villaggio.” Si incamminarono poi Dinal si fermò,
come se avesse dimenticato qualcosa, si voltò e si mise in ginocchio di fronte
a lei di modo che i loro occhi fossero allo stesso livello.
“Non devi raccontarlo a nessuno.”
“Perché?” Dinal
scosse la testa, era strano che avesse parlato così tanto.
“Perché il Dono può essere usato per il
male, non voglio che le persone sbagliate tentino di corromperti.” Rysa che aveva sette anni, non comprese le parole del
maestro, ma la serietà con cui lo disse fu sufficiente.
“Sì, Dinal.”
Disse, mentre già pensava a quando lo avrebbe raccontato a Aria, perché a lei
non nascondeva nulla.
Tre incontri. Orsoi uccise il suo avversario nel primo. Rysa non vi assistette, lo stesso valse per il secondo.
Quando udì i tamburi suonare la terza volta era pronta.
L’uomo di fronte
a lei era alto, possente, aveva combattuto con abilità i suoi incontri e ora la
guardava con un ghigno di divertimento: era chiaro che sapeva di vincere. Però
anche Rysa sapeva chi avrebbe vinto tra loro due e
non sarebbe stato lui.
I tamburi
cessarono di battere e il guerriero si avventò su di lei. Come sempre Rysa non cercò di opporsi a quei colpi violenti, ma iniziò
a schivare, puntando su agilità e velocità. La sua mente era vuota, libera da
ogni pensiero. Sentiva il cuore del suo avversario, sentiva tutti i cuori degli
uomini nell’arena, ma solo quello gli importava. Permise all’uomo di colpirla,
un taglio superficiale che bruciò come fuoco, ma la sua mente non udì il
dolore, il sangue scorse rapido e l’uomo sogghignò. Rysa
schivò ancora poi, sorprendendolo, si allontanò da lui e piantò la spada nel
terreno, alzò la mano sulla sua ferita e si sporcò del suo stesso sangue che
gettò a terra. L’uomo le corse incontro pregustando l’uccisione. E Rysa strinse.
Il guerriero dei
Clan spalancò la bocca mentre gli cadeva la spada e si portava la mano al
cuore.
Rysa si avvicinò a lui e gli prese la spada poi alzò
l’arma. Aveva già ucciso un uomo a terra, lo avrebbe rifatto.
Improvvisamente
non era più lei a controllare il suo corpo e la sua mente, qualcosa di così
vasto che solo pensarci l’avrebbe resa pazza si era impossessata di lei, o
forse era lei che si era riversata in qualcosa di troppo grande. Ora non
sentiva più solo i cuori degli uomini attorno a lei, ora sentiva tutto, era
tutto, e comprese, l’armonia, la forza, la vita stessa.
Quando aprì gli
occhi la spada era ancora nelle sue mani e l’uomo era ancora a terra.
“Pace! Io invoco
Pace!” Nel silenzio della Radura Rysa rabbrividì, non
sapeva cosa le era successo, sapeva solo che qualcosa le aveva strappato via la
rabbia, l’aveva svuotata riempiendola invece di vita. Quello che la Natura voleva
era la vita. Natura: questo era l’unico termine che riuscisse a trovare per
definire quello che l’aveva invasa.
Tese la mano
all’uomo dei Clan che, nel gesto a lui comune, la prese, era frastornato, con
l’altra mano si stringeva ancora il petto, ma nei suoi occhi ora c’era
sollievo.
Orsoi entrò nell’arena, guardò l’uomo dei Clan che abbassò
lo sguardo ed uscì, poi fissò lo sguardo su di lei. Il suo volto era marchiato
da tre linee.
“Ho fatto patto
con gli Spiriti. Quattro anime.” Indicò il numero con le mani. Lei faticava a
comprendere le sue parole, la sua testa era ancora frastornata, i colori erano
più vivi, i rumori più forti.
“Pace.” Rispose
scuotendo la testa e cercando di liberarsi dalla strana sensazione che la
pervadeva. L’uomo la guardò a lungo poi indicò qualcuno tra la folla, Rysa non riusciva a vedere distintamente chi indicasse, i
colori si mescolavano davanti ai suoi occhi, eppure percepì con altri sensi chi
stesse indicando.
“Lei, mia?” Rysa scosse la testa.
“No.” La lingua
sembrava cercare di disobbedirle. Vita, suggeriva una voce, un pensiero. Ma non
a quel prezzo, rispose lei, non in cambio di Aria.
“Allora io
ucciderò te.” Rysa sentì la testa farsi leggera e
cadde al suolo, il buio che la sommergeva.
“Ricorda siamo solo un canale, chi possiede
il dono è un veicolo più facile, niente di più, solo un mezzo.” Rysa annuì, la sua insegnate era a letto, era vecchia e
stanca, eppure l’aveva guidata nel dono insegnandole tutto quello che sapeva. “Rysa, bambina mia, onora il tuo dono, non abusarne mai.”