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Autore: Aleena    15/05/2012    0 recensioni
Ci sono delle storie che vale la pena di raccontare. Fiabe che hanno il sapore della leggenda e che mutano a seconda della voce narrante; come la storia della Bambina nella Nebbia o di sua madre, la Strega che legge il futuro nel sangue.
O quella di Samuele, il ragazzo dalla gamba malata che nelle storie viveva e che partì per svelarle. Chi sono, ti chiedi? Se davvero non li conosci, allora seguimi: ti racconterò una storia...
Scritta per il contest “Urban Legends”, purtroppo naufragato.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LA STREGA BALLERINA

 
 
La piazzetta davanti all’abitazione del giudice era piccola e vuota, le luci spente in quasi tutte le case delle Mura; fra i vicoli quasi bui rilucevano lanterne tremolanti ed odori di sugo, carne e minestre; ogni viuzza aveva un suo effluvio, una sua luce, un suo rumore caratteristico che Samuele aveva imparato a riconoscere nella sua infanzia; dunque fu con sicurezza che scese le scale in pietra, una rampa e poi a sinistra, due scalini e dritto, a sinistra e su per altri cinque, a destra e poi fermo.
Le case delle vecchie città crescono le une ammassate alle altre come funghi, storti edifici di tre o quattro piani collegati fra loro da ponti ad arco sui quali c’è una stanza, talvolta addirittura un paio di piani; i resti delle vecchie latrine esterne fanno capolino, rompendo la dritta monotonia con le loro piccole finestre a feritoia, i loro tetti spioventi di tegole. Terrazzini si aprono a così breve distanza che i gatti saltano agilmente dall’uno all’altro, andando ad elemosinare cibo da più padroni, talvolta rischiando di far cadere un vaso in strada; fili e fili di corda attendono il bucato, tesi da una casa all’altra.
Era sotto uno di quegli archi che occhieggiava la porta verde, niente altro che un uscio incassato fra tre pareti, rientrato di due metri o poco più, completamente immerso nel buio. Nessuna luce, nessun odore. Samuele indugiò un attimo, ripensando alle sue motivazioni, quindi fece un passo ed un altro poi, finché la porta non gli fu davanti, solida e scrostata, gonfiata in più punti dall’umidità e colpita dai tarli. Un forte odore di urina di gatto proveniva dalla soglia, talmente intenso da far arricciare il naso del ragazzo.
Samuele sollevò la mano sinistra, bussò una volta.
Fu un lungo, interminabile minuto quello che il giovane attese prima che la porta ruotasse piano sui cardini; un minuto carico di silenzio e paura e dell’insano, naturale istinto di correre via. Poi la figura di una vecchia fece capolino dall’uscio, lo scrutò da capo a piedi e lo fece entrare senza una parola.
Era una signora di almeno sessant’anni dall’aspetto nobile nonostante la pelle ambrata, così esotica e selvaggia per Samuele, e i capelli candidi come le nubi stretti in uno chignon alla base della testa, un intrico di rughe più fitte delle viuzze che componevano i Buchi di Torre. Vene di un blu opaco si arrampicavano come radici sul collo grinzoso, arrivando a lambirle la mandibola sinistra prima di affossarsi nei rilievi del suo volto anziano. Indosso, una veste lunga dai colori accessi, tinte di ocra, arancio, giallo e rosso in veli sovrapposti stretti in vita da una fascia viola, terribilmente stonata; perle alle orecchie e una brillante, intricata collana di rame facevano di lei una creatura stravagante, forestiera forse ma di certo non pericolosa. Gli occhi della vecchia, di un celeste sporco venato dall’età, avevano qualcosa di talmente materno e rassicurante da mettere a tacere quella parte infantile della sua mente che gli sussurrava “corri, corri”; come si poteva aver paura di una creatura tanto fragile? Samuele aveva il sospetto che sarebbe occorsa una mano per piegarla come un giunco, talmente minuta e gracile appariva.
La vecchia signora gli sorrise, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi e talmente perfetti che Samuele si chiese se la donna portasse una dentiera: un pensiero stupido, che venne dissipato quando le labbra rugose si aprirono.
«Sei venuto per conoscere il futuro, ragazzo?» disse la vecchina. E quanto dolce era la sua voce! Bassa, confortante e leggera, simile al suono della pioggia o allo scoppiettare del fuoco nella stufa: suoni comuni, suoni familiari, appena arrochiti da qualcosa che poteva essere disabitudine. Samuele ne rimase talmente affascinato che non si rese conto della mano dell’anziana donna fin quando questa non si posò sul suo polso: dita fredde ma, si disse il giovane, i vecchi hanno il gelo della fine nella pelle, nelle ossa e talvolta nell’anima, quindi cosa c’è di stano?
«Il.. futuro? Che futuro dici, nonnina?» domandò Samuele, lasciandosi guidare verso una poltrona davanti ad un caminetto di braci quasi morte; si sedette pesantemente, lasciandosi crollare con soddisfazione quando l’anziana donna lo lasciò andare per dedicarsi al fuoco, sul quale aggiunse un paio di ciocchi di legno.
«Si figlio mio, il futuro. Vengono in tanti qui, sai? Vengono per la sfera di cristallo e le carte e le ossa di galline ed uccelli. Alcuni vengono per i filtri e gli infusi, spesso per gli incensi; ed io li accolgo, come mia madre prima di me e la sua prima di lei» disse la nonnina, voltandosi e sorridendo mentre indicava pian piano dapprima un tavolo dall’altro lato della stanza, coperto di pizzo e quasi interamente occupato da una struttura metallica sorreggente una sfera lattea, poi uno scaffale con impilati volumi su volumi di testi dalla rilegatura cadente, pergamene ed almeno una mezza dozzina di mazzi di carte legati da fascette di colori vivaci, quindi una panca di mogano mezza tarlata proprio accanto all’ingresso ed infine una porta ad arco coperta da una tendina di veli nelle tinte calde. Fu così che Samuele poté guardarsi intorno: l’ambiente era angusto, il soffitto basso e le pareti bianche ricoperte da macchie di umidità e scurite dal fumo di camini e piccoli fuochi d’erbe. Le poltroncine sulle quali sedeva con la sua ospite erano a meno di cinque passi dall’uscio, ai lati di un camino che aveva visto giorni migliori; dietro alla vecchina, il tavolo della sfera ed oltre un paio di usci, l’uno di fronte all’altro: la cucina e la camera da letto, ipotizzò, giacché la porta ad arco dietro di lui aveva più l’aria di un piccolo ripostiglio, o di una cameretta abbandonata – s’intravvedevano bauli, scaffali, erbe appese alle pareti ed un cuscino sul quale un grasso, pigro gatto maculato faceva le fusa, beato. Nell’aria aleggiava l’odore delle spezie e dei fiori, rosa e rosmarino, lavanda ed aghi di pino triturati mischiato al fumo stagnante del camino. Non c’era più traccia dello sgradevole effluvio di urina di gatto.
«Ti piace la mia casa?»
«Oh io… scusatemi signora, è solo che.. mi dispiace. Immagino di essere stato scortese» la voce era simile a un pigolio, come di un pulcino che venga strappato alla chioccia per essere preso in braccio da un ragazzino troppo irruento.
«Non è ciò che guardavi ma come lo guardavi. Ma non preoccuparti, figliolo, so quello che la gente di Torre dice di me» Samuele arrossì, incapace di trovare alcunché da risponderle. La vecchina, dal canto sui, non parve scoraggiata: stirò le labbra in un sorriso che pareva dire “ che vuoi farci, è la natura delle cose” e riprese «Quando mi incontrano per strada, i più fingono che sia solo un cane randagio. I ragazzini mi sputano addosso, le vecchie come me si segnano la fronte. Eppure, una volta o l’altra tutti vengono qui a chiedere un favore, un filtro, un incantesimo. A volte è curiosità, a volte è brama, spesso è desiderio e quasi sempre è invidia, ma ciò che tutti hanno in comune è la vergogna e la sfrontatezza. Io lo so, li vedo»
«Io…» cominciò Samuele, come sentendosi in dovere di difendere i suoi concittadini dall’accusa, ma venne interrotto prima che altre parole potessero lasciare le sue labbra. La vecchina sorrideva ancora.  
«Tua nonna è stata qui, da giovane. Immagino tu non lo sappia, e dovresti vederti, figlio mio! Hai una faccia così sorpresa… è stata qui, dicevo: voleva qualcosa che la aiutasse a concepire, giacché erano anni che provava senza successo. Le diedi un infuso e nove mesi esatti dopo c’era tua madre fra le sue braccia, sana e rosea e piena di vigore. Mentre tuo padre» le ossa della vecchina scricchiolarono un po’, facendole contrarre il viso mentre si tirava dritta, poggiando la schiena alla stoffa ingiallita della poltrona «si, tuo padre venne qui per un filtro d’amore. Non per tua madre, sai, ma per sua cugina, la bella Chiara che ora è sposata col mugnaio»
«I vostri filtri non funzionano, dunque?»
«Gli lessi la mano e vidi che non era destinato a lei, ma a tua madre. Così gli detti acqua di rose e lo rispedì a casa. immagino che pianse le sue lacrime quando donna Chiara lo lasciò, ma furono proprio quelle a fargli conoscere tua madre. Ed ora lui è felice e tu sei qui, ed io sono anziana, certo, e come tutte le nonnine amo le storie. Perciò, permettimi di leggere la tua»
«La mia?» confuso, Samuele guardò la vecchia signora ammiccare in maniera gentile e complice ad un tempo, quindi fargli cenno di stendere la mano; ma il ragazzo era riluttante, e quando l’anziana lo vide continuare a reggersi il polso della destra con la mancina gli sorrise ancora, affabile.
«Se non sei qui per le mie arti, cosa sei venuto a fare figliolo? L’inverno è rigido anche per un giovanotto come te»
«Mi spiace di averla disturbata a quest’ora tarda, nonnina» disse Samuele, chinando il capo e mordicchiandosi il labbro inferiore.
«Ti fa male la gamba, ragazzo?»
«Come lo sa?»
«Tua madre è venuta a chiedermi una predizione, quando cadesti. E tua moglie verrà presto, per sapere con certezza il sesso del bambino, come la maggior parte delle spose vergini»
«E le altre?» domandò Samuele, smorzando l’inquietudine con un tono leggero.
«Le altre vengono per sapere come liberarsi dai figli. Non è bello, ma una vecchia deve pur vivere» disse la nonnina, stringendo le labbra con contrizione ed abbassando lo sguardo. Non approvava o non capiva, o così almeno parve a Samuele.
«E come fanno?»
«Con una lacrima, figlio mio. Con una lacrima sul viso ed una sul collo» disse lei con un’espressione triste e compassionevole tra le rughe. Samuele non chiese, né permise alla sua testa di approfondire quest’ultima frase; dal canto suo, la vecchina si limitò a fissare le braci per un lungo minuto, e Samuele fece lo stesso, il silenzio che si allargava fra loro, carico di tensione.
«Mi farai vedere le mani, ragazzo?» disse la vecchina, senza girare lo sguardo.
«Si, ma a patto che ci leggiate cosa voglio, e me lo diate» rispose Samuele e d’istinto si alzò, avvicinò la poltrona e tese la mano sinistra, il palmo rivolto verso l’alto.
Mentre la vecchia la studiava, passando le sue vecchie, ossute dita rugose sulle mani forti di Samuele, il ragazzo ebbe un brivido: il tocco freddo pareva diffondersi dal palmo lungo il braccio e più su, fino alla testa e al cuore, seguendo la corrente del sangue. Senza chiederlo Samuele seppe cosa l’anziana signora – la strega! - stesse sondando.
«È questo che vuoi, allora? Una storia che sia vera» disse senza esitazione, staccandosi da lui con un tremito. Samuele annuì, senza meravigliarsi più di tanto delle parole dell’anziana.
«Ed una storia avrai, per cominciare. Un racconto che inizia tanti anni fa, quando una gitana lasciò la sua compagnia per seguire un uomo grasso in un teatro. Sua madre, da ragazza, le diceva di non fidarsi degli uomini grassi che indossano parrucche per nascondere l’assenza di capelli e pancere per sembrare più snelli, ma la ragazza non l’ascoltava. Si era votata all’arte da bambina e tutto ciò che voleva era ballare fino a quando la terra non le vorticava incontro e le gambe le cedevano; e stanca e felice si sarebbe distesa supina ed avrebbe riso e riso e riso.
«Solo che la vita non è solo risate e danza, e quando vide il piccolo teatro il cuore le si strinse in una morsa. Lei, che aveva ballato nelle pianure innevate e nei prati infiniti, sotto la pioggia e baciata dal sole, ora era costretta fra quelle piccole mura, con la menzogna dipinta attorno. Eppure ballava, e quanto era felice della sua piccola casetta, degli applausi e dei bei vestiti! Piccola sciocca, barattare il vento con le sete, la terra sotto i piedi con le pietre al collo.
«Era famosa al tempo, tanto che il piccolo teatro crebbe in fama con lei: era bella, giovane e nubile e gli imprenditori facevano la fila alla sua porta regalandole fiori e lettere cariche d’amore. Lei civettava e rideva e danzava, finché non venne il compositore.
«Aveva la musica nel cuore, lui, e le rose nell’anima. Mai vi fu uomo più virtuoso, o più amabile: e quando lei lo vide quelle catene attorno al cuore si trasformarono in radici e sbocciarono, ed entrambi seppero di essere legati. Sai cosa vuol dire, ragazzo mio?
«Passavano insieme ogni momento, ai limiti dell’ammissibile: era un’altra epoca, ed un ragazzo poteva scortare una ragazza a casa, ma non muovere un passo più in là del suo cancello. La gente li guardava, Torre li ammirava e loro erano due giovani di principio. Per cui, passeggiavano nei giardini la mattina, scortati dai genitori di lui, sedevano in riva al lago conversando di danza e musica e poi, dopo le prove, col suo calessino lui la scortava davanti casa, baciandole una manina ambrata. Così continuarono per un anno, finché lui non le chiese di sposarlo e lei disse il si. Era il periodo in cui le giornate erano sole e rose, e la gitana sapeva che quel periodo è breve; lo sapeva, ma come sempre non voleva sentirlo, né ricordarlo.  
«Si fidanzarono e per qualche mese furono felici. Lui le fece costruire una villetta in campagna e la inviò li, mantenendola nel lusso per quanto poteva; ed a lei non dispiaceva perché poteva ballare accanto al fuoco e sotto la pioggia, col vento nei capelli e la terra sotto i piedi.
«Poi arrivò la lettera, ed il compositore mise gli spartiti in una scatola di cartone e baciò la promessa sposa, stringendola a se e promettendole che sarebbe tornato, che l’avrebbe sposata. Quella notte, fra il gorgogliare dell’acqua ed il buio delle sorgenti, i due promessi sposi si amarono nel modo in cui si amano una donna ed un uomo. Ed un giorno la pancia della bella gitana crebbe ed il teatro la rispedì a casa. Non c’erano ammiratori né pretendenti né amici, adesso: pioveva e mentre l’autunno volgeva all’inverno la gitana si trovò sola in una grande casa, disprezzata dalle donne della cittadina.  
«La figlia nacque prematura, eppure sopravvisse ai primi cinque anni, diventando forte e bella più della madre, con quegli occhi blu e quei capelli neri, la pelle appena ambrata e la bocca rossa rossa. Oh, quant’era bella, la più bella bambina del mondo. A Torre non c’era madre che la invidiasse la domenica, alla funzione, né padre che non desiderasse la gitana. Perfino il teatro le aveva riaperto le porte e, dal fronte, le notizie parlavano della fine imminente della guerra.
«Il compositore aveva scritto quasi ogni giorno alla moglie ed alla figlia, ma solo una decina di lettere, spalmante negli ultimi sei anni, erano giunte a Torre. La gitana e sua figlia erano fiduciose ed ogni settimana facevano lavare le camicie ed i panciotti del compositore, così che quando fosse tornato li avrebbe trovati freschi ed inamidati, profumati e pronti da indossare.
«Ma fu una lettera a tornare, assieme ad un’anonima cassa di legno. Il soldato, diceva la missiva, era defunto negli ospedali da campo a causa di una ferita infetta. Gli inservienti dello stato deposero le casse nella piazza con solennità, coperti dal tricolore, e fra inni all’eroismo e discorsi il prete diede la benedizione ed ordinò che i caduti – perfino quelli che erano solo un feretro vuoto - fossero seppelliti.
«La gitana però aveva letto la missiva, e sapeva cosa l’uomo che doveva essere suo marito aveva desiderato, così affrontò il prete. Gli disse “mio marito desiderò essere bruciato dal fuoco e disperso nell’acqua, dove concepimmo nostra figlia” ed il vecchio, grasso prelato scosse i doppi menti e le disse che bruciare un cristiano è negargli la resurrezione, che è immorale e barbaro e inumano. Le disse che una donna di malcostume come lei non aveva di che infangare il nome di un uomo retto ed onesto, men che meno la sua anima. Poi la mandò via in lacrime.
«Così, nottetempo la ballerina scavalcò il muretto basso del cimitero e scavò fino a trovare la cassa, che caricò sul carretto usato dai suoi lavoranti. La mattina successiva una pila di fascine e tronchetti bruciava allegra nel grande spiazzo sulla cima del colle, producendo un fumo denso carico d’umori, e per il pomeriggio la cenere era stata raccolta in un grande vaso. Quella notte, la ballerina si immerse nuda nelle sorgenti, e consegnò lo spirito del marito alle acque pure nelle quali avrebbe vissuto. Poi, respirando vento, sporca di cenere, coi capelli bagnati ed i piedi nudi, lasciò che lo spirito del compositore l’invadesse – come sua madre le aveva insegnato, da bambina - e l’usasse per incidere il suo requiem sulla piccola porticina metallica. Una melodia fatta d’acqua e ferro, che il vento avrebbe suonato per ricordare l’anniversario della sua morte. Un incisione che il tempo o gli elementi non avrebbero corrotto.
«Ma la magia ha un prezzo, e questo la gitana doveva saperlo. Mentre il corpo del marito bruciava, anche quello della bambina loro figlia subiva la medesima sorte a causa di una fatalità. Quando la ballerina tornò a casa trovò solo cenere ed ossa annerite, ed allora pianse come il cielo, gridando il suo dolore per un giorno intero.
«Si trasferì al villaggio, nella piccola casina dalla porta verde che era sua dai tempi in cui, giovane ed ingenua, aveva lasciato la sua gente. Gli abitanti del villaggio l’additavano come strega e le facevano segni di scongiuro, e qualche uomo, conscio che la legge non difende le streghe, si prese con lei una libertà di troppo prima che la ballerina, sfiancata dal dolore, dal disprezzo e dalle violenze, si chiudesse in casa.
«Poi arrivò la peste, che devastò il villaggio. Qualcuno diede la colpa alla piccola gitana, la maggior parte corse da lei a farsi preparare medicamenti ed amuleti. La ballerina aveva ancora magia, ma era pregna del suo odio e della sua disperazione; vennero madri con le loro belle bambine coperte di fiocchi, e la strega donò alle prime sacchetti di erbe ed alle seconde ciondoli a forma di chiave di violino. Le madri deperirono e morirono, le figlie crebbero sane e tornarono, solo per trovare la strega sempre uguale, ed ancora ed ancora negli anni. Non poteva morire, non voleva.» concluse la vecchina con un sorriso triste, abbassando lo sguardo e portandosi un fazzoletto agli occhi. Samuele non aveva avuto la forza di rispondere od interrompere, tantomeno di ritrarre la mano. Passarono lunghi secondi, scanditi dal crocchiare sordo dei ciocchi fra le fiamme.
«Era tutto vero?» domandò infine Samuele, trovando il coraggio di rompere il silenzio solo a costo di una notevole forza di volontà. La vecchina non rispose, limitandosi ad allungare la mano che reggeva il fazzoletto verso quella del ragazzo, dal palmo ancora rivolto al soffitto, e vi lasciò cadere una perla opalescente prima di lasciarla andare.
«È..» chiese il ragazzo, ma già la vecchina aveva preso un filo di rame e lo intrecciava con mani esperte.
«Un portafortuna. Non credo tu ne abbia avuta abbastanza, e ti servirà. Hai tutto ma vuoi rovinarti la vita e lo farai, temo. Rinuncia. Lui è buono, ma lei no, ha paura ed è sola da troppo» disse la vecchina, infilando un sottile nastrino rosso nell’intreccio di metallo e stringendo poi il bracciale al polso di Samuele.
«Voi.. volete vendetta?»
«Io voglio vivere per sentire mio marito suonare ancora ed ancora»
«Uccidendo donne con le vostre erbe?»
«Mi nutro di vita, si, ma sono le donne stesse a donarmela. Quella dei figli che non vogliono, o la loro, attraverso la goccia di sangue che mi offrono come sacrificio per i miei servigi. Io non sono malvagia, figlio mio, ma neanche misericordiosa. Non mi è concesso»
Samuele chinò il capo, annuendo un paio di volte. Capiva.
«Grazie» disse lui, ma la vecchina non lo ascoltava. Chiuse gli occhi e parve come assaporare il rumore delle campane della chiesa che scandivano la mezzanotte. Sospirò e si alzò di colpo, trascinando Samuele con sé.
«Non devi. Il mondo sarà diverso stanotte, e ti smarrirai. Il vento e la terra ed il fuoco e l’acqua sono eccitati, vibrano ad un ritmo diverso, vibrano sulle note di lui. Ti smarrirai. Ma io devo andare. Resta qui, figlio mio, resta e dormi e domattina sarai un uomo libero e felice, con la fortuna dalla tua, e abbraccerai tua figlia»
«Lasciami, vecchia. Conosco Torre come nessun altro, è la mia casa. Non potrai impedirmi di essere più di uno storpio» disse Samuele, sforzandosi di controllare la paura. La vecchina scosse la testa e un attimo dopo non c’era più. 

  
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