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Autore: Aleena    15/05/2012    1 recensioni
Ci sono delle storie che vale la pena di raccontare. Fiabe che hanno il sapore della leggenda e che mutano a seconda della voce narrante; come la storia della Bambina nella Nebbia o di sua madre, la Strega che legge il futuro nel sangue.
O quella di Samuele, il ragazzo dalla gamba malata che nelle storie viveva e che partì per svelarle. Chi sono, ti chiedi? Se davvero non li conosci, allora seguimi: ti racconterò una storia...
Scritta per il contest “Urban Legends”, purtroppo naufragato.
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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VECCHIE LEGGENDE

 
 

 Gratta la puntina sul piatto di un vecchio giradischi producendo una musica bassa, melodica, carica di violini ed archi.
 

La Torre è una cittadina singolare sotto molti aspetti, a cominciare dal nome: Torre Vento, in onore del grande rudere mezzo crollato che svetta sulla piazza principale, fiero e risoluto, proprio accanto alla chiesa.
Torre sorge all’ombra di una bassa collinetta e si sviluppa attorno alla piazza, un ovale piastrellato in mattoncini di un ocra sbiadito interrotti da innesti di marmo bianco, che formano un’aureola nella quale è contenuto un mosaico di piastrelline raffigurante, in colori ogni anno sempre meno vivaci, il dio dei venti intento a soffiare sulla torre sormontata da una croce metallica.
I vecchi ricordano ancora quando venne ultimata la pizza: il parroco, in cima alla scalinata d’accesso alla chiesa, pontificava soddisfatto, sorridendo di tanto in tanto al sindaco che, compresso nel suo elegante – e troppo stretto - abito da cerimonia, sudava sotto il sole di metà luglio lanciando di quando in quando occhiate furtive alla sua destra, dove la porta del municipio si apriva sulla piazza ed oltre la quale, tutti lo sapevano, li aspettava un lauto pasto gentilmente offerto dal Comune.
Erano i tempi precedenti la rivoluzione industriale, quando ancora l’incubo della grande guerra non incombeva su nessuno ed i giorni erano d’oro.
Ad anni di distanza nulla era cambiato nella cittadina: una strada  scendeva dolcemente dal declivio della collina sulla quale sorgevano, arroccate, case che divenivano via via più modeste all’approssimarsi del centro del Borgo: contrariamente alla norma il Colle era per i benestanti e più in alto avevi la casa, più il tuo status sociale era elevato, tanto che sulla cima della collina trovavano posto due sole ville, l’una dal lato opposto dell’altra, separate da una lunga strada che correva dritta di fianco ai giardini pubblici, abbelliti dalle statue del tanto compianto quanto sconosciuto scultore locale, suicida a trent’anni.
Sulla piazza regnavano ancora il comune - sebbene la facciata color panna necessitasse di una ridipinta - e la chiesa: le due principali istituzioni, affiancate ma non sempre in accordo, sebbene il potere temporale poco contasse per i cittadini rispetto a quello ecclesiastico. Erano quelle del sindaco ed il prete le uniche due cariche che non avessero bisogno della residenza in collina per stabilire il loro status sociale: nessuna titolo nella cittadina poteva essergli più alto e di fatto condividevano la centralità della piazza solo con la vecchia torre ed il fiume, la cui sponda est scorreva placida alla destra della chiesa, esattamente dall’altro lato della piazza rispetto al comune. Fra i due edifici correva una stradina che costeggiava le fonti, in cui lavandaie e massaie si davano appuntamento per spettegolare, fra una mutanda ed un calzino, di quanto la loro vita fosse monotona e stantia, del marito indolente, del figlio chiamato alle armi e delle notizie dal fronte, sempre più cupe; il tutto a voce alta, per sovrastare la corrente di acqua gelida che scendeva ininterrottamente nelle grandi vasche di pietra.
Oltre questo spettacolo, case via via più simili a fattorie man mano che il centro s’allontanava, poi i campi e le stradine serpeggianti, viottoli in terra battuta per lo più.
Fra il fiume ed il comune sorgeva un arco, ultimo residuo delle vecchie mura cittadine ormai crollate da anni; oltre questo, nella zona chiamata da tutti “le Mura” una strada fiancheggiata da case tirava dritta verso l’abitazione del Giudice, davanti alla quale una piazzetta più modesta, lastricata a sampietrini, faceva da ingresso - o forse da punto di fuga, giacché una miriade di piccole stradine, vicoletti e rii si aprivano a ventaglio, serpeggiando tra case ammassate le une sulle altre, incuneandosi sotto archi bui e finendo bruscamente contro una parete di mattoni, a volte. Un vero e proprio labirinto, assai esteso data la densità di abitanti della cittadina, in cui i bambini giocavano a perdersi e ritrovarsi ed in cui incauti visitatori smarrivano la bussola, ritrovandosi sulla strada per il vecchio cimitero, totalmente incapaci di tornare indietro e costretti ad affidarsi alle indicazioni di questo o quel monello che, talvolta, li spingevano ancor più fuori strada per puro divertimento.
Samuele era stato uno di quei ragazzi, un tempo: correva su e giù per le scale strette, saltando da una stradina all’altra in immaginari combattimenti, scavalcando i muretti bassi e spaventando gatti addormentati al sole sui balconi.
Era un ragazzo vivace, Samuele: quando non imperversava per le strade con la sua combriccola di futuri pirati, esplorava il piccolo boschetto poco oltre il versante nord, dopo il colle e le brevi distese di campi; si arrampicava sui rami delle querce e dei pini più bassi, correva scalzo nel sottobosco ed ogni tanto, in autunno, accendeva con gli amici un fuocherello sul quale arrostivano i funghi e le castagne bottino del loro girovagare.
Poi, una mattina, l’età adulta aveva fatto capolino da sotto il foglio di carta che attestava il suo essersi diplomato: ed in un batter d’occhio Samuele si era trovato - con le scarpe ai piedi e la camicia da lavoro - nei cantieri oltre il fiume, a sudare sotto il sole. Nonostante il suo titolo lo qualificasse come geometra, aveva fatto da manovale per due anni e mezzo prima dell’incidente: ispezionava un solaio appena costruito quando un’area aveva ceduto, schiantando lui e Davide – un vecchio amico che aveva preferito correre che superare la quinta elementare - al suolo, due piani sotto. Davide era morto sul colpo, la spina dorsale distrutta; Samuele aveva resistito quel tanto che bastava perché i dottori, giù al piccolo ambulatorio nelle Mura, gli dicessero che la gamba era troppo grave per sostenerlo ma fortunatamente poco danneggiata perché dovessero amputargliela. A quel punto la mente di Samuele non aveva retto più e per una settimana furono la febbre e gli incubi a tenergli compagnia assieme ai genitori ed alla nonna, gli unici membri della sua famiglia: i primi carichi di lacrime, cibo e di promesse di salute, la seconda piena di pazienza e di storie, quello che Samuele aveva sempre apprezzato di più e di cui necessitava al momento.
Fin da bambino quelle storie l’avevano accompagnato, sussurrate nello stesso tono monotono e tremolante davanti al camino, al sole della veranda, sulla piazza: la storia dello spirito travestito da monello che spingeva i viaggiatori smarriti verso il mulino infestato, dove si diceva che il diavolo apparisse nottetempo per mietere vittime, o il preferito da Samuele, il racconto della vecchia strega che abitava nei Buchi – la parte più intricata, scura e remota della città, tutta viuzze strette e muri-, di suo marito partito per la guerra – c’era sempre una guerra, in quelle storie, anche se sua nonna non specificava mai quale- e della loro figlioletta, morta fra le fiamme per un errore.
«Una madre sa che suo figlio è un tesoro. Una madre sola, lo sa doppiamente» iniziava sua nonna, dondolando su una grande sedia, gli occhi fissi alla brace morente «eppure, quella mattina la strega – che ancora non lo era, ma lo sarebbe diventata presto- aveva un’audizione al teatro della città vicina, e non poteva saltarla. Vedi, Samuele, lei era una ballerina, e si guadagnava da vivere così. E il marito, povera anima, era in guerra da sette lunghi anni, e non prometteva di far ritorno. Era il suo compositore, sai? Scriveva le musiche che lei ballava. Lui era di buona famiglia, un bel giovanotto con le spalle piene e due occhi come la corrente del fiume, sempre ben vestito e galante» e qui le gote della nonna si arrossavano un poco, mentre con gli occhi riandava alla foto del nonno, poggiata sulla mensola del caminetto, al posto d’onore «mentre lei era una donna senza passato, arrivata in città da chissà dove con una valigia di vestiti ed il suo bel visino. Era una ragazza bionda, e tu che sei un ometto sai l’effetto che le ragazze bionde col cielo negli occhi hanno sugli uomini di una piccola città» e gli lanciava un sorriso malizioso, al quale Samuele aveva imparavo, via via che l’età avanzava, ad associare sottintesi «insomma, l’aveva prima stregato poi incastrato, facendosi mettere incita e costringendolo a sposarla. I genitori l’avevano cacciato di casa, ma il ragazzo guadagnava così bene da mantenere la famiglia, che era andata avanti coi suoi risparmi per ben sei anni e mezzo. Ora però, allo scadere del settimo, l’inverno si avvicinava e serviva da mangiare, così la strega-che-ancora-non-era-una-strega prende a nolo un calessino e saluta la bimba con un bacio, dicendole “fai la brava e stai lontana dal fuoco, la mamma torna qui questa sera”. Sai, il compositore aveva comprato questa bella casetta lontano, fuori dalle mura, con una piccola corte ed un grande focolare, più grande del nostro, ma non avevano cameriere o servi perché già allora nessuno voleva lavorare per la strega, soprattutto così distante dalla città. Non si sa mai cosa possa succedere, no?
«Insomma, la bambina non aveva paura di stare sola e anzi, appena il calessino parte si fionda in cucina, prende una sedia e si arrampica fino al vasetto di marmellata, che comincia a mangiare, tutta contenta» Samuele, a questo punto, storceva sempre il naso: odiava la marmellata come la maggior parte delle cose dolci, lo nauseava «Ometto mio, a lei piaceva: era dolce, di fragole, e soprattutto sua madre gliela vietava, dandogliene solo un cucchiaino ogni Giorno del Signore. Per cui, era un doppio piacere, per la piccola.
«Succede però che un po’ di marmellata le cola sul vestito, e la bambina si spaventa: cosa farà sua madre, se lo vede? La sgriderà, teme, quindi corre alla piccola fonte nel giardino e comincia a strusciare e insaponare fin quando la macchia non si vede più, e soddisfatta tira un sospiro di sollievo. È allora che si rende contro di non poter indossare la veste bagnata, e che se sua mamma la vedrà con un vestito diverso le chiederà perché, ed allora cosa si inventerà la piccola? Vedi piccolo Samuele, era quasi inverno e non poteva metterlo sul filo, si sarebbe solo ghiacciato di più.
«Poi, le viene un’idea: il fuoco! Se sua mamma lo vedrà acceso, rientrando dal viaggio, saprà che lei può cavarsela anche da sola, e magari la ringrazierà. Ed il suo vestitino si asciugherà in un attimo!
«Così, tutta speranzosa sistema la legna, e dopo un’ora di fumo e scintille finalmente la fiamma avvampa. E quale meraviglia! La ragazzina contempla soddisfatta il suo lavoro, povera piccina, poi prende l’abito e lo mette davanti al camino. Non sa che i vecchi tronchi di ulivo hanno l’aria dentro, e che scoppiettano, facendo volare le scintille dappertutto. E d’improvviso il suo vestito avvampa, e poi la casa e il solaio e la piccola corte, perfino un poco del giardino brucia prima che dal villaggio arrivino i soccorsi» Samuele tratteneva sempre il fiato qui, allontanandosi un poco dal camino se c’era vicino, lanciando al focolare occhiate furtive cariche di sospetto e paura.
La nonna restava in silenzio, allungando un dito ammonitore verso il nipote con fare bonario e perentorio nello stesso tempo, e sentenziava:
«È per questo che i bambini piccoli non devono maneggiare il fuoco finché non ne hanno l’età. Obbedisci sempre alla mamma, quando ti dice di non fare qualcosa» e Samuele, colto sul vivo, si faceva rosso e borbottava che la storia non era finita, facendo sorridere sua nonna «No, hai ragione tesoro mio. Fin qui è una favola, ma la vera leggenda inizia dopo» e si chinava in avanti, protendendo il vecchio, gentile viso cosparso di rughe verso il nipote, in un gesto di segretezza che permetteva a Samuele di ammirare da vicino l’occhiata complice. Aveva due bellissimi occhi marroni carichi di vita, sua nonna «quando la strega torna a casa e vede tutto bruciato e la gente le punta il dito contro, dicendole che è colpa sua se la figlia e morta, e che non doveva costringere il marito a comprare una casa così lontano. Le raccontano di quanto fossero alte le fiamme e del piccolo corpicino della bimba, e la lasciano sola a piangere.
«Poi, quando si fanno i funerali, la strega non c’è. Non si presenta in teatro, né si fa vedere più in piazza; però la casetta con la porta verde, quella nascosta giù nel più profondo dei Buchi, quella più in ombra, sembra di nuovo abitata. Si sente piangere e sospirare, e la gente evita di passarci perché, poche settimane dopo, si sentono anche le urla. Vedi, il compositore, il padre della bambina, è finalmente tornato dalla guerra, desideroso di sedersi sulla sua poltrona preferita a guardare la moglie e ascoltare la figlia, invece trova solo cenere e una tomba muta. Và nella vecchia casa della moglie –quella con la porta verde- e la trova sfatta e con gli occhi rossi, e in un primo momento si consolano l’un l’altra. Ma dopo due mesi il soldato ha delle esigenze e dalla moglie riceve solo lacrime, così una sera beve un bicchiere di troppo e le urla contro “Tu, maledetta, tu hai ucciso nostra figlia e vuoi affogare me nelle lacrime” e lei si ritrae, supplica e poi prende un coltello. Lo colpisce almeno una dozzina di volte prima di rendersi conto che è morto, quindi lo brucia nel camino e raccoglie le sue ceneri. Sul colle c’è una vecchia fonte, l’hai vista?» chiedeva sua nonna, retorica. Samuele annuiva sempre, troppo preso dalla storia «è sotto una collinetta, ora, ma un tempo era più bassa, e la porticina era a livello dei piedi, non ad altezza delle ginocchia come ora. Insomma, la strega corre e corre e corre nella notte scura, il vento che le ulula intorno e la paura nel cuore, e poi apre il barattolo e butta le ceneri nella fonte, richiudendo lo sportellino di metallo. Poi se ne torna a casa e non esce più per giorni e giorni, perché ha paura del vento.
«Infatti nel villaggio il vento ha cambiato suono: sembra una melodia, un suono lontano di archi e di violini e… quegli strumenti a corde, oh la mia memoria… di arpe, ecco, le arpe. C’è quel suono nel vento e pian piano la gente smette di andare alla fonte, perché sembra che venga da lì. Và avanti per una settimana, poi tace, ma sulla porta di metallo qualcuno ha inciso le note di una melodia sconosciuta. Vengono musicisti dai villaggi vicini per vederla, ma quando provano a suonarla si scoprono incapaci di leggere le note. E più ci provano, più non ci riescono. E per un anno è un viavai di compositori e strumentisti e virtuosisti, finché non scatta la mezzanotte dell’anniversario della morte del compositore – perché ormai tutti nel villaggio sanno la storia, in un modo o nell’altro. Insomma, le campane suonano la mezzanotte ed ecco che il vento su alza – ed era una notte limpida e ferma - e nel vento c’è quella melodia, che corre per le strade del paese per un giorno intero. La gente, spaventata, si rintana nelle case e prega il Signore per quell’anima dolente, tirando un sospiro di sollievo quando il vento cala.
«Intento, la strega è di un anno più vecchia e sola. La sua bellezza è consumata dal dolore e dal rimpianto, ed ha paura di uscire di casa, paura di incontrare lo spirito del marito nel vento. Così, se ne resta chiusa, e passano gli anni e le rughe diventano più profonde, la pelle cade ed i capelli sono bianchi e lunghi fino al terreno. Non vuole morire, però: la sua vita non l’ha vissuta e nelle ossute membra c’è ancora la voglia di ballare ed essere ammirata. Così una sera, quando alla porta le bussa un demonio, lo lascia entrare e firma il suo contratto: una lacrima di pietra in cambio della vita, per l’eterna giovinezza.
«Così, la ballerina scende di mattina al paese e và dove le bambine si radunano a parlare, e con un sorriso dà loro delle collanine con attaccata una chiave di violino in metallo – la chiave di violino, sai, quel simbolo sugli spartiti - con incastonata una pietruzza che somiglia ad una perla trasparente, e le bambine sono tutte felici, ringraziano e se lo mettono al polso, al collo e sulle caviglie.
«Passa una settimana e le bambine deperiscono e muoiono. Il villaggio le piange, ma non nota i piccoli ciondoli fino a quando, due anni dopo, altre bambine muoiono. Allora le madri capiscono, ma la chiesa ormai non brucia più le streghe da secoli, e quando aprono la casa non c’è nessuno lì dentro tranne un gatto nero. Così mettono in guardia le figlie, e nonostante si senta ancora il pianto provenire dalla casa con la porta verde, nessuno si affaccia più. Neppure adesso lo fanno, come non vanno mai dentro le vecchie sorgenti» concludeva la nonna, sfumando la voce in maniera molto teatrale e strappando un gridolino ad un giovanissimo Samuele dagli occhi spalancati e la bocca ridicolmente aperta. Sua madre disapprovava questa vecchia leggenda, temendo che lo avrebbe spaventato al punto da fargli venire gli incubi, ma Samuele era forte: solo una volta aveva sognato lo spirito della bambina, ma non ne aveva fatta parola con nessuno; per il resto del tempo, rimaneva solo la sua curiosità, che spesso lo induceva a sostare davanti all’antro buio in fondo al quale c’era l’uscio verde o davanti alla porticina di metallo.
Perfino in ospedale questa storia l’aveva tirato su di morale: gli piaceva fantasticare su come avrebbe affrontata la vecchina strega, se l’avesse incontrata, o di entrare nelle sorgenti a farsi insegnare la melodia dallo spirito del compositore. Delle volte aveva perfino pensato di bussare alla vecchia porta verde e chissà, se gli amici non l’avessero dissuaso forse si sarebbe fatto offrire il the dal gatto nero, chiedendogli di trasformarsi nella strega dalle lacrime di pietra.
«Sei troppo grande per le favole, Sammi, non trovi? Hai ventun’anni ormai, un ragazzo da ammogliare» disse sua madre anche quella volta, seduta accanto a lui sul letto d’ospedale, una ciotola di zuppa di farro fra le mani.
«Ho ventuno anni e una gamba che sembra un tronco abbattuto da un fulmine. Con chi dovrei sposarmi, mamma?» rispose Samuele, cercando di non far trasparire troppa amarezza dalle sue parole: sua madre desiderava un nipote – e perché no? Una bella nipotina da viziare - da quando lui aveva avuto la sua prima fidanzata, a diciassette anni.
«Oh, troverai una brava ragazza, ne sono sicura. Sei di buona famiglia, hai studiato e presto troverai lavoro col diploma. Ad un geometra non servono tutte e due le gambe, devi solo disegnare e far di calcolo, come tuo padre» nella gerarchia sociale del villaggio, la famiglia di Samuele era in una buona posizione: una casa sulla collina con un bel terrazzo panoramico ed una cantina, all’incirca a due terzi della salita. Era un buon partito, o meglio, lo era stato. Ora era uno storpio.
Qualche mese dopo l’incidente Samuele aveva ricevuto un’offerta di lavoro nella sua vecchia scuola, come insegnante di materie tecniche; e, seppure non avesse ancora trovata una ragazza, in compenso si era sentito sollevato quando la lettera di leva obbligatoria era arrivata, recante un “non idoneo” stampato a lettere nere e grandi sul fondo. Samuele aveva prestato servizio militare a diciassette anni per un intero, interminabile anno e mezzo fatto di addestramento, sveglia all’alba e pattugliamento: aveva usufruito di tutti i permessi speciali che aveva potuto e, quando finalmente aveva riconsegnata la divisa, s’era ripromesso di non finirci mai più. Ora che la guerra era alle porte, non si sentiva un codardo a rimanere a casa, tanto più che la gamba gli dava un’ottima scusa.
La mattina, in classe, inneggiava al patriottismo e levava con gli studenti una breve preghiera per i soldati al fronte, come da direttiva comunale, e spesso si lamentava con le colleghe del suo handicap, suscitando più di una volta occhiate di tenerezza e desiderio. Due anni dopo l’inizio della guerra era uno dei pochi ragazzi rimasti in città e di gran lunga il più affascinante: occhi castani brillanti, lunghe ciglia ed un fisico asciutto, retaggio delle sue corse e dell’anno di lavoro al cantiere, una lingua sciolta e la promessa di una casa in mattoni rossi sulla collina bastavano ed avanzavano a far sciogliere il cuore delle giovani del posto. Delle volte, cinicamente pensava che la guerra fosse la cosa migliore che gli fosse potuta capitare, e che avrebbe dovuto ammogliarsi prima che finisse, quando le ragazze sarebbero state tutte burro e coccole per i veterani, legate a loro da vincoli precedenti la guerra o dal fascino delle loro divise.
Così, a ventiquattro anni Samuele sposò Liliana Alberni, una ragazzina diciannovenne dolce come una giornata di sole in primavera, dai capelli rossicci e le guance piene di lentiggini. Sua vicina di casa - abitava poco sopra all’abitazione della sua famiglia - gli aveva fatto il filo, da bambina, ma Samuele non aveva avuto occhi per lei, più amante del giocare che dei bei visini; e nonostante il fatto che si fossero persi di vista crescendo, Liliana aveva continuato ad osservarlo dalla finestra ed a sospirare perfino quando lui aveva avuto l’incidente. Che fosse stato un sospiro troppo forte, o un’occhiata troppo carica d’amore attraverso le tendine della cucina, alla fine Samuele l’aveva notata e, dopo un breve corteggiamento, le aveva detto “si” nella chiesa,  trasferendosi con lei nella piccola dependance dall’altro lato della strada -una casetta modesta ma rispettabile- dono di nozze dei loro padri.
Per due anni furono sereni, finché una mattina Samuele sentì sua nonna raccontare a Liliana la stessa storia che l’aveva tanto affascinato: vide la sua piccola, incinta moglie rabbrividire e spaventarsi, tanto che la nonna dovette farle un infuso alla camomilla. Quella sera Samuele guardò il calendario prima e la sua sposa distesa sul letto, placidamente addormentata, poi; quindi afferrò una borsa di tela, qualche monete e un rosario di legno e scese la collina nell’immobilità della notte.

  
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