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Autore: _Velvet_    15/05/2012    1 recensioni
180 non sono nemmeno mezzo chilo. Non è una cifra facile da ricordare, non è un bel numero da pronunciare. Non te lo tatueresti su un braccio. Non lo scriveresti sul tuo diario. Questa cifra ha senso solo se collezioni vinili.
Non è questa una storia facile, vi avverto. E' la storia di Faith e dei suoi fantasmi, delle sue paure, dei suoi errori. Ma è anche la storia del suo grande amore per Michael.
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO DICIOTTO: Bisogni speciali
 
Avevo passato ore a fissare la vita sfuocata fuori dalla finestra in piedi nel centro della stanza. Ora il sole stava tramontando, era sera. Ero stanco, stanchissimo. Appoggiai la testa al muro, chiusi gli occhi e respirai. Il mondo mi si sgretolava dietro, davanti, sotto. Sopra non c’era nulla in cui valesse la pena sperare.
Riaprii gli occhi. Fissavo la porta, quella porta grigia da cui avevo permesso che se ne andasse senza dire una parola, senza nemmeno cambiare espressione. I muscoli delle braccia si contraevano in maniera appena impercettibile, indipendentemente dalla mia volontà. Avrei voluto tornare indietro nel tempo, non permettere che tutto ciò accadesse. Mi lasciai scivolare contro il muro, fino a sedermi sul pavimento freddo. Era così fragile, così spaventata mentre mi guardava. Sembrava che avesse paura che le facessi male, male davvero, più di quanto non gliene avessi mai fatto. E io invece avrei solo voluto calmarla, stringerla a me per sentire di nuovo quel niente di cui era fatta, la sua consistenza diafana.
L’amavo davvero. Non penso che nessuno fosse umanamente capace di amare qualcuno così come facevo io.
Se glielo avessi detto, però, tutto questo non sarebbe successo. Se non l’avessi lasciata sola con se stessa così spesso, se quando la sapevo chiusa in bagno a fissare il pavimento sperando che tutto passasse fossi entrato, tutto questo non sarebbe successo.
Ma erano rimpianti che non mi avrebbero portato da nessuna parte. Erano solo ipotesi, nient’altro che ipotesi sulla realtà. Magari non sarebbe cambiato nulla.
Avevo tanto, troppo freddo. Per la prima volta sperimentavo quella sensazione di cui lei mi parlava così spesso, quel freddo che ti attagliava il cuore e si propagava a tutto il corpo, facendoti tremare. Era il freddo che provavi quando la mamma non veniva a rimboccarti le coperte la notte, ed ora era diventato il freddo di sapere che sei da solo e anche la persona che ami non c’è. E forse non ci sarebbe più stata.
Strinsi tra loro le nocche fino a graffiarle. Continuavo a vederla come un fantasma, con la mano sulla maniglia, un urlo nella bocca ma un non lasciare che lo faccia negli occhi. Ed era quella l’unica cosa che avrei dovuto fare. Prenderla, che mi insultasse pure, ma non lasciare che si chiudesse la porta alle spalle. E invece non avevo fatto nulla, ero rimasto immobile a vedere se avesse avuto davvero il coraggio di farlo. Quando capii che lo aveva, era decisamente troppo tardi.
Mi accesi una sigaretta. Era quasi estate, ma tremavo. Era così bella, così eterea, così fragile che avevo paura che se l’avessi stretta troppo forte le avrei fatto male. Era una rosa bianca, non un’erbaccia tenace. Era cambiata così tanto, così spaventosamente tanto. O forse aveva solo smesso una maschera che non le apparteneva più. La prima volta che la vidi, lo ricordo bene, aveva i capelli neri, sembrava una di quelle ragazze sboccate e violente che picchiano duro. Ed ora invece era un’anima, nemmeno più un corpo, chiara e spaventata, troppo debole quasi per parlare.
Che cosa le avevo fatto? Signore, che le avevo fatto per ridurla così?
Si era sciolta come neve al sole di marzo, era sbiadita come una fotografia troppo vecchia. Lentamente si era chiusa in un mutismo triste e carico di rimproveri, si era nascosta in una maschera di lacrime e insonnia. Era bellissima, bellissima.
Forse era colpa mia –anzi, sicuramente lo era- e lei lo sapeva. Le avevo mandato in frantumi l’armatura che si era costruita in tanti anni in poche settimane. E sotto c’era questo corpicino sottile e pronto a disintegrarsi sotto un alito di vento troppo forte, un corpo che lei odiava mostrare perché non si trattava altro che della sua vera natura. Era orgogliosa, Faith. Ed era a causa del suo strenuo orgoglio che non sarebbe tornata.
Spensi la sigaretta contro il pavimento. Se solo avesse potuto sentire l’urlo che mi lacerava il cervello, implorando il suo perdono e null’altro. Se avesse potuto ascoltare i miei pensieri sarebbe stata già al mio fianco, il suo corpo incatenato al mio come una solida morsa, la sua mano che mi accarezzava i capelli mentre mi sussurrava “non è nulla, non è nulla, sai bene che non è così”.
Di nuovo freddo, freddo che mi bloccava le emozioni cristallizzandole in tanti fiocchi neri. Mi alzai, afferrai dal mobile difronte a me una bottiglia mezza piena di un liquido ambrato. Ne bevvi finché le mie fantasticherie non mi sembrarono reali, finché lei non mi sembrò lì, spaventata con le lacrime agli occhi. Mi sembrò quasi di sentirla chiamarmi per nome prima di scivolare nel buco nero dell’oblio.
 
Avrei chiuso con lui. Era una frase normalmente priva di senso, ma io lo amavo troppo. Ci saremmo continuati a fare solo del male stando insieme. Avrei cercato di  non guardarlo negli occhi, avrei cercato di nascondermi nell’ombra, non gli avrei mostrato il dolore che mi straziava il petto.
Più mi avvicinavo alla porta, più il cuore mi batteva veloce e gli occhi mi facevano male. Non mi ero fatta un discorso da provare allo specchio, non mi sarei portata via nulla. Glielo avrei detto, poi mi sarei chiusa la porta alle spalle un’altra volta, l’ultima. Avrei cercato di dimenticare tutti i nostri trascorsi, e sarei finita per riuscirci. Questo mi faceva molto male: probabilmente tra 30 anni un ricordo scolorito sarebbe stata l’unica testimonianza di quegli anni straordinari passati insieme. Eccomi al 7, il nostro appartamento. Nessun “benvenuti” alla maniglia, solo una comune porta graffiata dall’usura. Respirai profondamente, cercando di calmare il galoppare del mio cuore, poi abbassai la maniglia ed entrai.
L’appartamento era buio, solo una striscia della luce gialla emessa dal vicino lampione entrava per la finestra, dividendo in due l’oscurità. 
C’era decisamente qualcosa che non andava. Lui non sopportava di stare al buio da solo, gli faceva paura.
-Michael?- chiamai piano; forse stava semplicemente dormendo, oppure era uscito.
I fari di un camion rischiararono la stanza con un velocissimo bagliore, che mi fu però sufficiente per vedere la sua sagoma abbandonata contro la parete nera ed una bottiglia vuota sul pavimento.
Porca miseria.
Corsi da lui, cominciando a chiamarlo prima piano, poi sempre più forte:-Michael?! Michael, ci sei? MICHAEL, CHE CAZZO HAI COMBINATO?
Mi inginocchiai sopra di lui, strattonandolo cercando di svegliarlo. Il mio cuore era a mille, non avevo mai avuto così tanta paura come in quel momento.
Dopo pochi minuti, però, si riebbe e i suoi occhi di ghiaccio si fissarono nei miei per un’istante incredibilmente lungo.
-Faith?...- mormorò con un filo di voce.
-Sì, si sono qui.
-Cristo, la mia testa... è come se me l’avessero rotta a metà.
-Con una dormita passa tutto; dai, andiamo.
Ancora intorpidito, si appoggiò contro di me mentre lo accompagnavo in camera da letto. Lo aiutai a stendersi, poi mi sedetti vicino a lui:- Hai bisogno di qualcosa? Fame, sete, freddo?
-No, sto bene- mi rassicurò- hai già fatto abbastanza.
-Allora io vado di là, così puoi riposare meglio.
Stavo per alzarmi, quando mi afferrò per un braccio:- Scherzi? Tu rimani qua con me.
Mi fece distendere al suo fianco: era così bello, al buio mentre guardava il soffitto.
Ma chi volevo prendere in giro? Non me ne sarei mai andata. Era bastato rivederlo così fragile, così come lo ero io, per cancellare ogni mia decisione. Ero di nuovo pronta a mettere tutto da parte in onore qualcosa di immenso, di enormemente più grande di quanto entrambi potessimo immaginare quale era il nostro amore l’uno per l’altra.
-Michael... scusami. Non avrei mai dovuto.
-Non importa. Quello che importa è che ora tu sia qui.
Si voltò su un fianco, guardando il mio profilo. Con la mano che non reggeva la testa, prese ad accarezzarmi lentamente. Al contatto con le sue mani, un fremito mi percorse il cuore. Avevo letteralmente fame di lui, di quel suo odore dolce ora mischiato al bourbon ma inconfondibile, di quella sua forza che io non avevo. Vi voltai a mia volta, fissandolo in viso sorridendo. Sembravamo due ragazzini, niente di più. Mi strinsi a lui, al suo calore. Mi baciò e io risposi con una passione che nemmeno pensavo di avere. Quando le nostre labbra si separarono per permettergli di spogliarmi lascivo, mi sussurrò all’orecchio:- Mi sei mancata tantissimo.
Distolsi per un momento lo sguardo; era bellissimo, bello come qualcosa di inumano, ma odiavo la mia incapacità a lasciarlo, anche se sapevo che mi stava lentamente uccidendo. La mia anima si divideva in due, e ormai questi sdoppiamenti mi indebolivano sempre più. Non sapevo se avrei fatto peggio o meglio ignorando quel moto che mi aveva pervaso il cuore quando lo avevo visto accasciato a terra. Forse avrei solo dovuto uscire e non tornare mai più. Ma che aveva fatto per meritarsi pure questa inutile e gratuita sofferenza? Magari ora si sarebbe tutto sistemato, e io non potevo saperlo. Mi stavo affidando esclusivamente alle possibilità, ma anche se non ce ne fossero state sarei rimasta. Continuavo a mentirmi spudoratamente, non avrei mai voluto lasciarlo. Non ci sarei mai nemmeno riuscita. Era tutta una bugia.
-Non mi sembra vero che tu sia di nuovo qui; avrei giurato che non ti avrei più rivisto- continuò lui.
Lo guardai fisso in volto. Sorrisi con tutta la dolcezza che mi era rimasta, poi trovai le parole per rispondergli:- Sono qui, Michael. E questa volta per davvero.
Per un attimo, mi sembrò di essere ritornata alla prima volta che ci vedemmo, che ci baciammo, al centro, quando eravamo tutti e due forti, tutti e due pieni di vita, quando nessuno avrebbe potuto dire cosa avremmo dovuto sopportare insieme, quando non sembrava altro che una di quelle storie brevi, di scarso valore, e invece si era trasformata nella nostra stessa vita.
Rincomincia ai credere nella magia quella notte.





_Velvet_'s corner: Questo mio angolino mi mette in imbarazzo D:
No, ma guardate la mia estrema bravura: vi ho trovato due, BEN DUE, foto di un tipo (che si chiama George) che assomiglia paurosamente alla mia visione di Michael.
Enjoy! 

http://feaverishphotography.com/blog/wp-content/uploads/2009/09/margaret_durow_3.jpg
http://2.bp.blogspot.com/_35Lg8t79w88/TMyewn3N8tI/AAAAAAAAB5M/OimlYeAnIww/s1600/Margaret+Durow.jpg

   
 
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