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Autore: Alexandra_ph    16/05/2012    1 recensioni
Scritta nel dicembre 2006, la vicenda si colloca dopo la puntata FWFS...
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Harmon 'Harm' Rabb, Sarah 'Mac' MacKenzie
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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23 DICEMBRE

Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

“Ciao!”.

La voce squillante di un bambino ruppe il silenzio che c’era nella stanza.

Mattie finse di non aver sentito e continuò a tenere gli occhi chiusi. Non aveva proprio voglia di parlare con nessuno. Specialmente con un bambino. Erano sempre troppo invadenti.

“Ciao”, ripeté la voce. “Sei sveglia?”.

“Se tengo gli occhi chiusi e non rispondo, perché mai dovrei essere sveglia?” pensò tra sé, continuando a fingere, anche se era evidente a lei stessa l’illogicità del suo ragionamento.

“Ciao, sei sveglia?” insistette la voce, questa volta accompagnata da una manina che tirava il lenzuolo con insistenza.

Come volevasi dimostrare: i bambini erano mocciosi invadenti.

“Adesso sì”, rispose secca, sperando di scoraggiare immediatamente il piccolo intruso. Doveva avere sì e no cinque anni, sei al massimo, si disse osservandolo. Era davvero uno scricciolo: piccolo e magro, ma con due occhioni blu che brillavano nel visino quasi esangue, incorniciato da cortissimi capelli neri. Sembrava che fossero stati appena tagliati col rasoio, tanto erano corti; oppure sembrava che fossero appena ricresciuti.

“Come ti chiami?”, chiese il bambino.

Con un sospiro rassegnato, la ragazza rispose: “Mattie”.

“Io mi chiamo Timothy, ma tutti mi chiamano Timmy e sono un aiutante di Babbo Natale!” precisò, orgoglioso, il bambino.

“Ah sì?” domandò la ragazza, in realtà più scettica e sarcastica di quanto avrebbe davvero voluto essere. Ma quell’anno lei e Babbo Natale non si erano proprio capiti.

“Non mi credi, vero?” chiese il bambino.

“Sì… sì… certo”, cercò di rassicurarlo lei. In fondo era ancora troppo piccolo per scoprire che Babbo Natale non esisteva.

Ma non dovette essere stata troppo convincente, perché il bambino aggiunse:

“Te lo posso provare, sai? Scommetto che indovino esattamente cosa vorresti per Natale!”.

“Io non voglio nulla”.

“E’ impossibile. Tutti vogliono qualcosa…”.

“Ti ho detto che non voglio nulla”.

“Non ti piacciono i regali?”

Mattie non rispose.

Certo, a chi non piacevano i regali? Ma da quando sua madre era morta, nessuno gliene aveva più fatti, meno che meno la vita… sempre che non dovesse considerare il suo incidente come un “regalo di Natale” anticipato.

“Pensaci bene…” sentì dire al bambino, quasi avesse espresso ad alta voce il suo pensiero ed egli lo avesse sentito. Eppure era certa di non aver parlato.

Ad ogni modo il piccolo aveva ragione: la vita le aveva fatto un regalo… Harm.

Peccato che avesse deciso di toglierle anche quello.

“Io ho domandato a Babbo Natale di farmi diventare un bell’angelo…” aggiunse il bambino, dopo un attimo di silenzio.

“Un angelo? Perché?”.

“Mi piace volare”, fu la risposta di Timmy.

“Anche a me piace volare. E anche ad un mio amico… lui è un vero pilota!” disse Mattie.

“Davvero? Ma allora vola tanto in alto! Io non so se ci riuscirò, perché non sarò mai un angelo bello…”.

“E perché no? Sei così carino…”.

“Gli angeli sono tutti biondi e con tanti capelli con i ricci lunghi…”.

“Beh…” non seppe che rispondergli. Timmy parlava di angeli in maniera molto seria.

“Comunque avrò anch’io due ali bianche. Babbo Natale me lo ha promesso. Devo solo riuscire a fare ancora una cosa… per bene, come vuole lui”.

“Che cosa?” domandò Mattie.

“E’ un segreto…”.

“Non me lo puoi proprio dire?”.

“Devo aiutare Babbo Natale!”.

“A fare cosa?”

“Ma quello che fa Babbo Natale, no? Ora vado, ciao ciao…”.

E prima che Mattie potesse aggiungere o domandare altro, era già scomparso.

 

 

Ufficio del Capitano Rabb – Londra

Perché sentiva così tanto la sua mancanza eppure continuava a provare quell’irrazionale senso di paura all’idea di lasciare tutto quanto e stare con lei?

Il giorno prima, dopo la sua telefonata, era dovuto uscire… si sentiva soffocare. Dall’ansia e dalla rabbia. Ansia per quello che lei gli stava chiedendo; e rabbia perché sapeva che aveva tutti i diritti di domandarglielo, ma nonostante tutto, sapeva anche che non sarebbe riuscito a darle ciò che lei voleva.

Perché, dannazione a lui, quella notte a Washington si era lasciato trasportare da ciò che da tempo provava per Mac e aveva fatto l’amore? Sapeva che sarebbe stato ancora più difficile… ma per un momento aveva sperato che ciò che sentiva per lei fosse tanto forte da fargli superare tutti i suoi timori.

Invece era proprio l’amore e il desiderio per Mac a farlo fuggire… e a fargli provare tutta quella paura all’idea di legarsi per sempre a lei.

E se l’avesse persa, come lui e sua madre avevano perduto suo padre?

Sapeva che il suo era un ragionamento assurdo e irrazionale, ma non poteva farci nulla… certe ferite non si rimarginano mai, neppure dopo anni.

Aveva colto la disperazione negli occhi di sua madre quando aveva saputo di essere rimasta vedova; per mesi l’aveva sentita piangere a letto, inconsolabile. E anche lui, bambino, aveva pianto per notti e notti, finché non si addormentava, sfinito dal dolore e da quell’ incolmabile senso di vuoto che ancora ora, a volte, lo tormentava.

L’unica differenza era che da quando era fuggito da Mac, non era più certo che la tristezza che provava nel cuore fosse ancora legata al ricordo del padre; ultimamente si era convinto che fosse lo struggente rimpianto di essere fuggito dall’amore.

Eppure era più forte di lui… non riusciva proprio a lasciarsi andare.

Si abbandonò sulla poltrona, reclinando il capo all’indietro a fissare il soffitto.

Si sentiva esausto.

Non immaginava proprio che fuggire dalle proprie emozioni e dai propri sentimenti, potesse essere quasi più estenuante che affrontarli.

La voce all’interfono gracchiò metallica:

“Capitano, c’è qui un signore che desidera vederla”.

Con un sospiro chiese: “Di chi si tratta?”

“E’ un signore anziano… dice che lei non la conosce, ma che deve dirle qualcosa”.

“Come si chiama?”

Sentì all’apparecchio che il tenente Leach si rivolgeva al signore, per sapere il suo nome.

Passò qualche minuto, senza ricevere risposta. Spazientito domandò all’apparecchio:

“Allora, tenente? Di chi si tratta?”

Nessuna risposta.

“Tenente…” ripeté con voce più autoritaria.

“Signore… se n’è andato”, rispose il tenente.

“Andato? E dove?”

“Non lo so, Signore. Non ha detto nulla, neppure il suo nome. Ha lasciato soltanto un biglietto, pregandomi di consegnarvelo…”

“E che aspetti a farlo?”

“Ecco, io… Sissignore, subito signore…” lo sentì dire, e un attimo dopo compariva sull’attenti alla sua porta.

“Grazie tenente”, lo congedò, dopo che gli ebbe consegnato il biglietto, in una busta chiusa.

Incuriosito si soffermò ad osservare la grafia che aveva scritto semplicemente “Capitano Rabb” sul davanti della busta: nessuna calligrafia nota.

Aprì la lettera, impaziente di scoprire cosa vi fosse scritto.

Su un solo foglio bianco, poche parole e una firma.

 

“Capitano, non commetta il mio stesso errore. E. Scrooge”

E chi accidenti era questo Scrooge?

“Tenente… mi descriva quell’uomo” disse al suo assistente, affacciandosi alla porta.

“Beh… sulla sessantina, forse anche qualche cosa in più, piuttosto alto e parecchio robusto; un paio di occhiali in metallo e capelli, baffi e barba molto lunga bianchi. Anche i capelli gli arrivavano quasi alle spalle…”.

“Sembra che stia descrivendo Babbo Natale, Tenente”.

“No, Signore. Non indossava abito e cappello rossi…”

“Ovvio che no, Tenente”, disse accondiscendente. Il Tenente Leach, a volte, per la sua ingenuità gli ricordava tanto il Bud dei primi tempi.

“Giusto, Signore.”.

“Era solo?”

“Sì, Signore. Ma quando se n’è andato all’improvviso,  mi sono affacciato  alla finestra e l’ho visto che parlava con un altro signore, anche questo molto anziano. Forse il biglietto non era suo, ma dell’altro vecchietto…”.

Poteva essere un’ipotesi. Ma comunque non spiegava chi fossero i due uomini, né a cosa si riferisse il  messaggio.

E, soprattutto, non gli chiariva come mai il nome Scrooge gli suonasse addirittura familiare.

 

 Saint Vincent Hospital – Blacksburg, Virginia

“Ciao, Mattie”.

Per la seconda volta in quella giornata la salutarono, nonostante avesse gli occhi chiusi. Probabilmente non riusciva molto bene a fingere di dormire.

Aprì gli occhi e si trovò di fronte il volto sorridente del Colonnello Mackenzie.

“Mac…” disse sorpresa, immediatamente guardandosi attorno, alla ricerca di qualcuno. “Harm è con te?”, chiese fiduciosa, prima che lo sguardo triste e quasi colpevole della donna infrangesse le sue deboli speranze.

“Allora non verrà davvero?”.

“Mi spiace, Mattie. Harm deve lavorare…”.

“Tutte scuse, Mac. Intanto lo so che non è quello il vero motivo…” disse sconsolata. “Lui non sopporta di vedermi immobile in questo letto.”.

“Non è vero!”, la interruppe Mac, con enfasi.  “Non è per causa tua…”.

“Che cosa intendi?”

Vide la donna abbassare lo sguardo per un attimo, quasi fosse indecisa se dirle tutto quanto. Poi, tornando a guardarla negli occhi finalmente si spiegò:

“E’ a causa mia, Mattie, che Harm non torna”.

“Ma non dovevate sposarvi? Non erano questi i vostri progetti?”.

“Così credevo anch’io… Ma temo che Harm abbia cambiato definitivamente idea a riguardo…”.

“Perché, Mac?”.

“Credo che Harm abbia così tanta paura di legarsi a qualcuno da preferire addirittura non farlo. Per questo motivo non torna: non vuole essere costretto a rivedere me. Gli ho persino detto che non è necessario che mi riveda… l’importante è che passi il Natale con te, ma… sai com’è fatto Harm, Mattie…”.

La ragazza la osservò attentamente e si rese conto di quanto la donna fosse triste.

“Tu lo ami molto, vero?”.

“Sì”, rispose Mac.

“Anch’io gli voglio tanto bene. Ma questo, a lui, sembra non importare granché…”.

 

Appartamento del Capitano Rabb – Londra

Non riusciva a prender sonno, così si era alzato e, cosa per lui insolita, si era seduto sul divano, davanti alla televisione. In quell’appartamento ammobiliato che gli aveva fornito la Marina di televisori ce n’erano ben due: uno nella zona giorno, l’altro addirittura in camera da letto.

L’aveva acceso su uno degli innumerevoli canali a caso, si era trovato una posizione comoda sul divano (cosa non facile, vista la sua stazza) e aveva cercato di addormentarsi come sentiva dire succedeva a molti (forse anche per questo c’era chi apprezzava l’apparecchio anche in camera da letto).

Dopo un notiziario, un programma d’intrattenimento (all’una e mezza di notte?) che tentava, per altro senza granché riuscirci, di offrire un blando tentativo di approfondimento di alcuni temi di attualità, e un programma culturale che trattava di libri, decise che la TV a lui non conciliava affatto il sonno e finalmente la spense.

Spinto probabilmente dal programma appena visto, si avvicinò ai tre scaffali sulla parete opposta dove, ben allineati, vi erano diversi libri.

Diede una rapida scorsa ai titoli, scoprendo che vi era qualcosa per tutti i gusti: dal romanzo d’avventura al legal-thriller, dal genere fantasy fino ad arrivare ai classici. C’era persino, a giudicare dal titolo e dall’immagine in copertina, qualche romanzo d’amore, probabilmente pensato per ufficiali di sesso femminile. Quando scoprì tra i classici persino i Racconti di Natale di Dickens, sorrise divertito: chi aveva studiato come arredare quell’appartamento aveva pensato proprio a tutto!

Un libro per ogni occasione.

Non sapendo cosa scegliere, decise di assecondare il pensiero dell’arredatore e di rimanere in tema; scelse quindi proprio la raccolta di racconti natalizi, restando pure sorpreso nell’accorgersi che si trattava davvero di un libro e non, come aveva per un attimo sospettato, di un semplice involucro in cartone atto a riempire lo scaffale per fare bella figura.

Il volume era un’edizione economica, con la copertina morbida, e sembrava non essere mai stato neppure sfogliato, la qual cosa non lo sorprese affatto.

Sulla copertina bianca spiccavano il titolo del libro in rosso, il nome dell’autore in verde e i titoli dei cinque racconti in nero; sotto a tutto questo vi era l’immagine di un vecchio signore con un paio d’occhialini in metallo, baffi, lunga barba e capelli bianchi, davanti ad un librone aperto, nell’atto di pensare prima di scrivere con una penna d’oca, anch’essa verde, su di un piccolo quaderno che teneva tra le mani… alle sue spalle, sfumati, i volti di diversi bambini. L’immagine sembrava suggerire che il vecchio fosse Babbo Natale intento a decidere sui regali da fare ai bimbi, ma senza il classico costume rosso… un po’ come la descrizione del signore che lo cercava quel pomeriggio, accuratamente fattagli dal tenente Leach.

Saltando del tutto la prefazione, si accinse a leggere il primo racconto, ‘A CHRISTMAS CAROL’.

Un Canto di Natale…

Il titolo gli sembrava familiare: un cartone animato di Walt Disney che ricordava d’aver visto qualche anno prima con il piccolo AJ, gli sembrava avesse un titolo simile… se non si sbagliava c’era un avarissimo zio Paperone  che veniva spaventato e trascinato a destra e manca da alcuni fantasmi… AJ era buffissimo perché ripeteva quasi le stesse espressioni terrorizzate di zio Paperone ogni volta che compariva un nuovo spettro.

Dopo poche pagine si rese conto che il cartone animato doveva essere la parodia in chiave disneyana del celebre racconto. Ma soprattutto capì perché il nome Scrooge, quel pomeriggio, gli era suonato così familiare.

Lesse d’un fiato tutto il racconto, deciso a quel punto di scoprire cosa diavolo voleva dire il biglietto che aveva ricevuto. Quando terminò era punto e a capo.

Il sonno non era arrivato e neppure una spiegazione.

Perché quel tipo si era firmato come Ebenezer Scrooge, il protagonista di un racconto natalizio scritto più di centocinquant’anni prima? (Rifiutava categoricamente l’ipotesi che il tizio si chiamasse davvero così).

Come faceva a sapere il suo nome e il suo grado?

E, soprattutto, perché mai gli suggeriva di non commettere gli stessi errori di zio Paperone, alias Ebenezer Scrooge?

Lui non era ricco; né come il personaggio di Dickens, né tanto meno, come il papero più famoso del mondo. E non era neppure avaro quanto loro.

Perché mai quel vecchietto si preoccupava tanto?

Diede un’occhiata all’orologio e scoprì che erano quasi le quattro del mattino e il sonno non accennava a venire; rassegnato a trascorrere la notte insonne, si mise più comodo, voltò pagina e iniziò a leggere il racconto successivo.

Non era neppure a metà del “Primo quarto” di “The Bells”, Le campane, il secondo dei cinque racconti, che il libro gli scivolò dalle mani: finalmente si era addormentato.  

 


 

“Cosa vuoi da me?”

Il bambino era piccolo ma il suo sguardo, dai profondi occhi blu, sembrava quello di un saggio. Indossava una veste candida, lunga fino ai piedini, che sbucavano nudi dall’orlo dell’abito.

“Devi venire con me”

“Chi sei? Dove vuoi portarmi?”

“Io sono il Fantasma del Natale Passato, Presente e Futuro”.

“No… non è così il racconto. Sono tre diversi i fantasmi. E poi perché tormenti così i miei sogni? Io non sono Scrooge…”

“Lo so”, disse il bimbo, “tu sei Harmon Rabb e ti piace volare. Anche a me piace volare e ora voleremo. Vieni… “ e così dicendo gli prese la mano. Quando il bambino si voltò, lui vide che aveva due piccole ali bianche.

“Aspetta… perché proprio io? Ho letto la storia di Ebenezer Scrooge… io non sono ricco, non sono avaro come zio Paperone…”

“Si può essere avari in molti modi, non solo per denaro” rispose il bambino.

“Non vengo da nessuna parte con te”.

“Certo che verrai…”  e detto questo, con la piccola mano gli afferrò la sua e insieme si sollevarono da terra.

Rapidamente attorno a lui il paesaggio cambiò: non era più a Londra, ma nella casa dove aveva abitato da bambino, assieme ai suoi genitori. Quella stessa casa dove un triste giorno erano arrivati dei militari a comunicare la notizia della scomparsa del suo papà.

In quel momento, però, poteva osservare una famigliola felice composta da tre persone; due erano i suoi genitori da giovani e il bambino che giocava e rideva sulle gambe di suo padre…

“Sì, sei tu. Non ti ricordi?” gli disse il piccolo fantasma.

“Ricordo che mio padre mi faceva sempre saltare sulle sue gambe… e ricordo le risate della mamma…”

“Non vedi quanto era felice?”

“Ma quando ha creduto morto mio padre, non era più così felice…”

“Non come prima, certo. Ma credi davvero che avrebbe preferito non amarlo tanto, pur di non soffrire? Non dimenticare che è stato solo grazie a tuo padre che ha potuto averti. Solo per questo, credo che non abbia mai rimpianto d’averlo amato”.

“Tu non sai, però, quanto l’ho sentita piangere dopo… ero piccolo, e il cuore mi si spezzava a sentirla piangere così… e io stesso soffrivo tantissimo, volevo il mio papà e lui non c’era più…”

“Per questo motivo ora fai piangere qualcun altro?”

“Non faccio piangere nessuno”.

“Ne sei davvero sicuro?”.

“Certo. Nessuno piange per me. Per quale motivo, poi?”.

“Lo scoprirai dopo. Ora è ancora presto. Proseguiamo nel tuo passato… Guarda lì…”.

Gli interni erano cambiati; quello che vedeva erano gli uffici del Jag, a Washington. Bud e Harriett, lui vestito da Babbo Natale e lei da elfo; e poi c’era Chloe assieme a Mac.

Mac…

Mac che rideva, felice.

La scena cambiò di nuovo e la rivide sotto al vischio in casa Roberts mentre la baciava… E poi davanti alla chiesa, accanto a Jennifer che gli stava dando un bacio sulla guancia… E infine vicino al muro, dove ogni vigilia Natale andava a trovare suo padre… ed era con Mattie.

“Pur di fuggire da loro, quest’anno rinunci anche ad andare a trovare tuo padre…” disse il bambino.

“Non sto fuggendo…”

“Ah, davvero?”

Gli prese nuovamente la mano  e, all’istante, la scena davanti a lui cambiò di nuovo. Una stanza d’ospedale, dove vide Mattie e Mac abbracciate…

“Cosa stanno facendo? E perché Mac si trova lì?” chiese al suo Fantasma.

“Piangono, non lo vedi? Piangono per te.”.

“Per me?”

“Sì, piangono a causa tua. Mattie desiderava tantissimo che tu fossi con lei a Natale. Mac l’ha raggiunta, per non lasciarla sola, come invece hai fatto tu. Lo sai che la tua figlioccia si è convinta che non vuoi più vederla perché non riesce più a camminare?”

“Ma non è vero!”

“Ne sei sicuro?”

“Certo. Io voglio bene a Mattie. E anche a Mac. Non può non sapere che l’amo…”

“Te ne sei andato, distruggendo i suoi sogni. Perché dovrebbe pensare che l’ami ancora?”

“Ma è così” rispose con enfasi.

“Allora perché lasci che soffrano tanto? Non sarà sempre così, sai? Prima o poi ti dimenticheranno. Allora, forse, quello che soffrirà sarai tu…”.

Un gelo improvviso gli attraversò l’animo, mentre le immagini cambiavano di nuovo. In una bella stanza, riscaldata da un camino acceso, un grande albero di Natale, con numerosi pacchi avvolti in carta rossa luccicante, faceva bella mostra di sé; dolci musiche di Natale rendevano ancora più romantica l’atmosfera. Vide Mattie che stava scattando una foto a Mac… abbracciata ad un uomo che non era lui. Sorrideva alla ragazza, felice come non l’aveva mai vista e poi si voltava verso l’uomo e lo baciava…

“Chi è quell’uomo?”

“Suo marito”

“Ma Mac non è sposata!”

“No, infatti. Ma lo sarà… e non con te, poiché tu non la vuoi”.

“Non è vero che non la voglio. Io la desidero, moltissimo. Però non posso sposarla…”

“Perché?”

“Se morisse? O se mi lasciasse? Se la perdessi, come ho perso mio padre? Non voglio più soffrire così…”

“Preferisci allora rinunciare e far soffrire lei, oltre che te stesso? Perché tu non sei felice, a vivere lontano da lei. O sbaglio?”

“No. Non come quando lei mi era vicino…”

“Perché hai rinunciato?”

“Anche Mac mi domandò la stessa cosa, tanto tempo fa…”

“E tu cosa rispondesti allora?”

“Per le complicazioni… Ma adesso non è più così.”.

“Eppure hai rinunciato lo stesso…”

“Per paura”.

“Paura di trovarti intrappolato in un matrimonio?”

“Non sei troppo curioso, per essere solo un bambino?”

“Hai paura anche a rispondere? Voli su dei tomcat, sei un eroe di guerra… eppure hai più paure tu di quante ne abbia io che sono molto più piccolo di te…”

“Tu non hai paura?”

“Tutti abbiamo paura… ma per molte cose, tra le quali l’amore per le persone speciali che ci vogliono bene, vale la pena imparare a superare i nostri timori. Essere avari con i sentimenti non ci rende felici… crediamo di non soffrire, ma soffriamo lo stesso, senza però avere in cambio la gioia d’aver amato e reso felici chi ci vuole bene…”

 

 

 

 

 

 

  
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