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Autore: Twitch    16/05/2012    1 recensioni
Non so davvero che scrivere qua, anche perchè non so nemmeno se questa fanfic avrà una fine. Comunque preparatevi a qualcosa di triste, in ogni caso. Sono stata ispirata da 16.
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Le lancette giravano vorticosamente, in quella stanza. Il loro rumore, che in qualche momento, pareva andasse in crescendo, non modificava neanche d’un soffio la calma imperturbabile del volto e dell’animo di Billie Joe. Sembrava quasi che i suoi occhi lampeggiassero di nuova vita mentre scriveva instancabile; sembrava che dalla sua testa volessero sbocciare nuovamente dei riccioli neri, sembrava tornato giovane con quel suo canticchiare assorto di nuove melodie.
Ma non si poteva dire la stessa cosa del signor Jeremy Burton, il suo nuovo compagno di stanza.
Era vecchio, dieci, forse quindici anni in più di Billie. Vecchio per quelle palpebre stanche di stare alzate, vecchio per quelle dita si muovevano con lenta frenesia, quasi arrugginite, vecchio per quella voce burbera e appesantita dal fumo costante di una sigaretta.
Sfogliava con un’espressione accigliata il primo di una pila di sei o sette giornali a sfondo politico ed economico. Ogni tanto, leggendo di qualche calo in borsa o di qualche azienda in fallimento, gli scappava un ‘dannazione!’ dalla bocca, sottolineava numeri, cercava di calcolare bilanci a mente, e non riuscendoci tirava sospiri fischianti.
Billie alzò gli occhi dal suo foglio, posò un attimo la matita e il blocchetto portatogli da Mike e squadrò l’uomo.

-“Cosa sta facendo? Se posso sapere..” chiese Billie rompendo il silenzio.
-“Calcolo quante fottute migliaia di dollari ho perso questi ultimi tre mesi” rispose con un tono di superiorità. “e tu che scrivi?”
-“Parole, musica.. roba del genere”.
Entrambi, malgrado fossero diametralmente opposti, ebbero lo stesso lampo, le stesse parole presero forma nella loro testa: ‘questo idiota sta fottutamente sprecando il suo tempo’.
Il silenzio ricadde nella stanza e ricostruì una cortina tra i due, che tornarono ai propri affari.
Forse è questa la più grande mancanza del genere umano: l’incapacità di mescolare la scienza con l’arte e di creare qualcosa che vada oltre. L’incapacità di trovare un equilibrio nella follia più delirante. L’incapacità di assegnare un senso alle cose invece di cercarcelo dentro e basta.
I loro due universi continuavano a non sfiorarsi, Billie e il signor Jeremy continuavano ad ignorarsi, ma nel profondo, sentivano di essersi incuriositi l’uno dell’altro.
 
Le 10.30, come sempre, da circa quattro giorni, iniziava l’orario delle visite. In quella stanza, su quella tela bianca, cominciarono ad apparire personaggi ben noti. Adrienne e Billie riempirono subito quell’immagine con un tenero bacio, intorno i figli sorridevano incorniciando il papà e la mamma, e il piccolo Andrew dava quel tocco di colore in più alla camera.
-“Nonno, nonno, nonno come ‘tai?” disse Andy arrampicandosi sul letto di Billie.
-“Una meraviglia piccolino mio!” rispose lui accarezzandogli le guanciotte paffute.
-“Sono contento! Ti voglio bene nonno Billie”.
In quel clima di serenità entrò la dottoressa, per nulla intenzionata ad infrangerlo. Si diresse subito verso il letto di Jeremy.
-“Buongiorno signor..” ebbe una piccola esitazione, quindi lesse sulla cartella clinica “signor Burton.. ha riposato bene?” chiese cortesemente.
-“Sì, bene.” Rispose freddamente lui.
-“L’operazione è andata a buon fine, e credo che potremmo dimetterla tra 48 ore.” Accennò un sorriso e proseguì come di prassi “domani le consegneremo una tessera magnetica con tutti i dati di cui avrà bisogno e dovrà sempre portarla con sé.”
Girò quindi la testa verso il ‘signor Armstrong’. Lo vide sorridere, parlare con i suoi cari con una luce nuova, ma di origine antica negli occhi, e pensò che sarebbe stato meglio se fosse tornata finito l’orario delle visite.
 
Uscì dalla stanza cercando di sistemarsi i capelli arruffati, e pensò a quanto amasse il suo lavoro. Quell’ospedale era un piccolo specchio del mondo. Centinaia di storie si intrecciavano per caso, storie nate da attimi, storie nate da incidenti. Vite che si accendevano, vite che si spegnevano. Occhi che si aprivano per la prima volta al mondo e occhi che si chiudevano per l’ultima, cuori che smettevano di battere e cuori che ricominciavano a battere.
L’emozione di salvare una vita, l’adrenalina che tutte le sere si scioglieva sola in un boccale di birra. Tutte quelle piccole cose che riempivano la sua vita che faceva acqua da tutte le parti.
‘Sono fiero di te, piccola mia’ le ripeteva sempre suo padre. Ma ora non aveva più nessuno che glielo dicesse, non aveva più nessuno da rendere fiero.
Aveva solamente qualche amico con cui passare un’ipocrita serata, e qualche paziente che ogni tanto si ricordava di lei e le regalava una bottiglia di whiskey a Natale.
Aveva il suo divano, i suoi film strappalacrime da due soldi – che poi non sapeva nemmeno perché li guardasse – e quel sacchetto di pop corn da mettere nel microonde.
Ma per questo non si odiava, e non odiava nemmeno un po’ le persone che la circondavano. E questo perché riusciva a cogliere un atomo di bello in ogni cosa; perché sapeva soffrire ed amare incondizionatamente.
  
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