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Autore: Whatadaph    19/05/2012    4 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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Capitolo 6

 

“Un bel posto”

 

 

Beta: Unbreakable Vow

 

 

 

Quel giorno Gellert attese l’ora del tè con trepidazione. Aveva trascorso la mattinata in uno stato di febbrile irrequietezza: percorreva le assi del pavimento di Bathilda in lungo e in largo, esplorandone ogni scheggia e discontinuità.

 

“Hai fame, Gellert?” gli aveva domandato la zia alle dieci del mattino, facendo capolino dalla porta del suo studio.

 

Lui aveva scosso il capo distrattamente, riprendendo a poggiare un passo dopo l’altro sul legno del pavimento – un ritmo costante e ripetitivo, quasi ossessionante.

 

“Vorresti della frutta?” la testa di Bathilda si era riaffacciata alle undici e mezza.

 

“No, zia, grazie,” era stata la secca replica di Gellert, che, arrestatosi per un istante, aveva poi ripreso a pestare i piedi sul legno bruno.

 

La zia aveva inarcato le sopracciglia con una certa perplessità, prima di chiudersi di nuovo la porta alle spalle.

 

Era ricomparsa un’ultima volta a mezzogiorno. “Cosa vorresti per pranzo, Gellert?” aveva chiesto al nipote, incrociandolo nel procedere in direzione della cucina.

 

“Va bene tutto,” era stata la risposta del ragazzo. “Adoro le tue pietanze,” aveva poi aggiunto quasi distrattamente.

 

“Oh, non adularmi!” aveva sorriso Bathilda, arrossendo appena, prima di scomparire in cucina.

 

Gellert aveva dunque ripreso per l’ennesima volta a camminare su e giù, salvo poi capitolare sfiancato sul sofà che troneggiava in salotto. Il suo ininterrotto e ossessionante camminare non era servito solo a scandire lo scorrere del tempo – una manciata di secondi per ogni passo – ma anche a consentirgli di riflettere.


Di qualcosa era certo: il segno che aspettava, l’input che il destino aveva in serbo per lui... era arrivato. Era arrivato con la voce ferma e misurata di Albus Dumbledore, con l’acutezza dei suoi occhi azzurro chiaro. Gellert si chiedeva come avesse fatto a non pensarci prima. In fondo era ovvio: gli serviva un compagno, qualcuno con cui condividere la battaglia che era in procinto di combattere. Qualcuno in grado di stemperare i suoi moti estremi, di placare parte della sua fiamma. Qualcuno capace di accompagnarlo nella lotta che gli si prospettava – l’altro piatto della bilancia, colui che assieme a lui avrebbe retto l’equilibrio del mondo. Era una prospettiva magnifica e perfetta... perché, sebbene mai l’avrebbe ammesso, dividere l’eternità con Albus Dumbledore non significava semplicemente spartire con lui il trono, bensì diluire la solitudine che altrimenti sarebbe stata la sua condanna.

 

La condanna di chi deterrà lo scettro del Bene Superiore.

 

Oltretutto, avere qualcuno al proprio fianco avrebbe reso tutto più semplice anche in termini pratici, giacché i suoi piani – i grandi e gloriosi piani per il Bene Superiore – avrebbero di certo avuto una maggior facilità di compimento se nel perseguirli non fosse stato da solo. In Albus vedeva innanzitutto un alleato, un ausilio che – riflettendoci – si sarebbe con ogni probabilità rivelato indispensabile.

 

Il fato così ha stabilito. Ha designato me come prescelto e al mio fianco ha posto un compagno fedele.

 

Perché, Gellert ne era certo, Dumbledore lo sarebbe stato: i piani del destino non avevano falle, perciò colui che aveva insignito suo alleato doveva avere in sé tutte le doti necessarie al proprio ruolo.

 

Tuttavia, il giovane era cosciente che le sue idee potevano apparire esageratamente estremiste a chi non vi fosse già di per sé avvezzo. Doveva dunque agire cautamente per tirare Albus Dumbledore dalla propria parte, scoprire i suoi punti deboli e far leva su di essi, puntare su ciò che lo angosciava o atterriva – o lo irritava, lo faceva infuriare.

 

Se c’era qualcosa che Gellert aveva ben compreso, difatti, era che tutto avveniva per un motivo. Avrebbe fornito ad Albus il motivo per seguirlo, posto dei punti che avrebbero reso anche per lui il Bene Superiore un’alternativa irrinunciabile.

 

Non era forse stato così anche per lui, dopo tutto?

 

In fondo l’abolizione dello Statuto di Segretezza non gli sarebbe premuta così tanto se, anni prima, proprio per una violazione di esso a suo fratello non fosse stata tolta la bacchetta. E Thomas Albrecht sarebbe forse morto se lui e i suoi amici non fossero stati costretti a duellare sul ciglio di un burrone per non rischiare di essere avvistati dai Babbani?

 

Gellert ricordava sempre Thomas con distacco – o almeno così credeva. Era morto, dopotutto, non sarebbe tornato più – e così Gerko Grindelwald e il resto della sua famiglia. Bathilda Bagshot era quanto rimasto dei parenti di Gellert, e forse anche per questo l’aveva accolto con tanto calore in casa propria.

 

“Come mai mi fissi, Gellert?” quasi l’avesse chiamata, la voce della zia riscosse il ragazzo dalle sue riflessioni.

 

Preso dai propri pensieri, infatti, il giovane a stento si era accorto di aver abbandonato il sofà e di essersi messo a tavola assieme a Bathilda.

 

“Pensavo che mi sei rimasta solo tu,” rispose con franchezza. La sincerità talvolta poteva tornar comoda.

 

Come previsto, a quelle parole le gote della zia si imporporarono e i suoi occhi luccicarono di tenerezza. “Nipote caro,” mormorò la donna in risposta, sporgendosi oltre il tavolo per scompigliare i capelli di Gellert, come si fa con un bambino. Lui sopportò di buona grazia quella tortura, consapevole di essersela cercata.

 

Una volta che Bathilda si fu accomodata nuovamente sulla propria seggiola, i due ripresero a mangiare i silenzio, e la mente di Gellert ricominciò a galoppare.

 

Se i maghi avessero controllato anche la società Babbana, con ogni probabilità questi ultimi non avrebbero più combattuto fra di loro inutili guerre... E se così fosse stato anche solo pochi anni prima, Amaberga e Georg Grindelwald non sarebbero stati scambiati per sostenitori del cancelliere Otto von Bismarck¹ quando Gellert era solo un ragazzino... e non sarebbero stati avvelenati entrambi dai seguaci dell’imperatore tedesco. Erano stati assassinati con viltà, uccisi da una dose di arsenico² nel vino che avevano bevuto a cena, in una locanda di una località non magica dove erano stati costretti a sostare, e l’arsenico era un veleno Babbano del quale i maghi non possedevano un antidoto.

 

La Pietra, si ritrovò a pensare Gellert, quasi distrattamente. La Pietra potrebbe riportarli indietro.

 

Quando Gellert Grindelwald sarebbe salito al potere, avrebbe regnato la pace.

 

Ci sono ferite che è necessario infliggere per raggiungere la guarigione.

 

 

 

 

****

 

 

 

 

L’orologio del pianterreno suonò le cinque, cogliendolo quasi impreparato. Al ridondante suono del pendolo, Gellert sobbalzò leggermente, per poi restare bloccato dove si trovava per una manciata di secondi.

 

Era curioso, si trovò a riflettere mentre scendeva le scale due a due, il modo in cui il tempo fosse parso gocciolare con esasperante lentezza nelle ore passate ma che l’ora prevista per l’incontro con Dumbledore fosse poi giunta stranamente inaspettata.

 

Aveva il cuore in gola quando raggiunse l’ingresso, e per un istante si arrestò sulla soglia della porta. Non usciva dalle mura di casa Bagshot da almeno due settimane: in effetti, era trascorso parecchio tempo da quando aveva preso per l’ultima volta una boccata d’aria. Non che gli importasse granché della salute: il suo sublime incarico gli avrebbe di certo fatto dono della forza necessaria ad ogni modo.

 

“Stai uscendo, Gellert?” la voce di Bathilda, improvvisamente comparsa nell’ingresso, gli parve piacevolmente sorpresa.

 

“Sì,” disse, rivolgendole, “ho appuntamento con Albus.”

 

La donna annuì dolcemente. “Lo sospettavo,” ammise. “Mi fa piacere che tu abbia trovato compagnia.”

 

“Oh, zia, fa tanto piacere anche a me!”

 

Non sai quanto, zia Bagshot.

 

La donna lo fissò. “Divertiti, caro,” soggiunse quietamente.

 

Gellert annuì, per poi aprire la porta e uscire sulla veranda. Lì si fermò, seminascosto dal melo che Bathilda aveva in giardino, e così facendo poté osservare non visto Albus Dumbledore per alcuni istanti.

 

Del ragazzo poteva intravedere solo il profilo, poiché egli sostava appoggiato al muretto di casa Bagshot, il capo appena voltato di lato. I lunghi capelli ramati erano raccolti in una modesta coda sulla nuca, una fiamma rosseggiante che serpeggiava fra le sue scapole, spiccando contro il nero degli abiti a lutto. Gellert poteva vedere la sua sagoma solo dalla cintola in su, poggiato com’era al muro di mattoni secchi: aveva una figura scattante, nervosa ma al tempo stesso in qualche modo solida, con le sue spalle larghe e magre. Nonostante non avesse modo di guardarlo in viso, dalla sua posa ferma e stabile Gellert dedusse che l’altro fosse di umore mite.

 

Sorrise fra sé: se Albus Dumbledore si fosse rivelato sempre così bendisposto nei suoi confronti, tirarlo dalla propria parte non sarebbe stato per nulla difficile.


Non smise di sorridere mentre scendeva i gradini della veranda a passi felpati, né quando percorse il vialetto del giardino facendo scricchiolare la ghiaia sotto ai piedi. Il rumore dei sassolini che schizzavano qua e là dovette giungere alle orecchie di Albus, poiché si volse di scatto in direzione di Gellert, lanciandogli un’occhiata penetrante e in qualche modo fremente. Poi le sue labbra si curvarono nell’ennesimo sorriso misurato, e si schiusero mostrando l’orlo di denti candidi quando il ragazzo parlò.

 

“Buon pomeriggio, Gellert,” lo salutò in tono controllato.

 

“Una puntualità disarmante,” commentò lui allegramente per tutta risposta.

 

Albus inarcò lievemente le sopracciglia e annuì, costretto a convenire. “È una mia caratteristica,” ammise con tranquillità.

 

Gellert lo guardò fisso. “Supponevo,” mormorò.

 

Per qualche istante calò il silenzio, poi Albus si schiarì la voce con fare lievemente imbarazzato. “Dove vorresti andare?” gli domandò cautamente.

 

L’altro scrollò le spalle. “Non conosco bene Godric’s Hollow,” rispose. “Vorrei andare in bel posto,” aggiunse poi.

 

Albus sorrise – questa volta con aria meno controllata. “Un bel posto, hai detto?”

 

Pochi minuti dopo, Gellert seguiva Dumbledore per le viuzze tortuose della cittadina. Albus non aveva sprecato molte parole sul luogo in cui lo stava conducendo, e lui non aveva fatto domande in proposito. Sebbene non si fossero scambiati altre parole, il ragazzo poteva avvertire un curioso senso di sollievo. Bathilda probabilmente l’avrebbe attribuito al fatto che finalmente era uscito a prendere un po’ d’aria fresca, ma Gellert non pensava si trattasse di quello... era come se un senso di intesa fosse calato fra lui e Albus, il che era ben diverso dalla strana tensione che aveva avvertito nel tempo che aveva trascorso assieme all’altro il giorno prima, in presenza di Bathilda. Probabilmente quella tensione era causata proprio dal fatto che la zia era stata assieme a loro gran parte del tempo, così come il sollievo nasceva dall’assenza della donna. Probabilmente, Bathilda provocava una certa interferenza – o forse, era solo troppo diversa da loro.

 

Gettò un’occhiata ad Albus. Camminava spedito, con decisione e una fiamma negli occhi azzurro chiaro.

 

Il destino non sbaglia mai le proprie scelte, rammentò Gellert.

 

Decisamente: il fato non aveva compiuto nessun errore nel designare Albus Dumbledore come suo compagno allo scopo del raggiungimento del Bene Superiore. O almeno, questa era l’impressione di Gellert.

 

 

“Siamo quasi arrivati,” annunciò Albus parecchi minuti più tardi. “Di qua.”

 

 

 

Ormai avevano superato le ultime abitazioni del villaggio, raggiungendo gli avamposti della campagna. Di fronte ai loro occhi, si aprivano a perdita d’occhio frutteti e campi coltivati. Le colline erano ricoperte da tappeti di un verde rigoglioso e saturo, punteggiato di tanto in tanto dal bianco sporco che intonacava le mura di sparute fattorie.

 

Dumbledore condusse Gellert lungo un vialetto sterrato e polveroso – non pioveva ormai da qualche giorno. Il giovane lo seguì per la stradina pietrosa senza parlare, bevendo e assorbendo come suo solito tutto ciò che lo circondava – colori, viste, impressioni, suoni, odori. C’era odore di erba verde e terra smossa, sano profumo di estate e di sale e caldo.

 

I due ragazzi procedettero l’uno al fianco dell’altro fino ad un punto in cui il sentiero andava a formare un’ansa, oltre la quale gli avanzi di una siepe troppo crescuta e per nulla curata celavano in sé un passaggio. Superando quella soglia di ramoscelli abbarbicati e pungenti, davanti agli occhi di Gellert si aprì la visuale di uno sterminato campo di grano, carezzato dai raggi del sole calante che faceva vibrare d’oro la cima delle spighe mature.

 

“È tempo di mietitura,” disse Albus in tono didattico. “Fra non molto taglieranno via tutto.”

 

Gellert lo ascoltava solo a metà, preso com’era dall’incredibile vista di quel trionfo estivo – quello era un luogo di contemplazione, così decise.

 

“Abbiamo fatto giusto in tempo, dunque,” mormorò. “Mi piace il colore del grano.”

 

Gli piaceva davvero: dopotutto, i suoi capelli erano di quello stesso identico colore.

 

A quel commento, Albus parve adombrarsi senza un perché. O meglio, a causa di un perché che a Gellert sfuggiva.

 

"Sei di parola,” buttò lì per risollevargli il morale, riserbandosi di tornare in una diversa occasione sull’argomento che gli premeva – scoprire i punti deboli di Albus, individuare i nodi del suo animo che sarebbe stato utile andare a colpire.

 

L’altro parve educatamente perplesso. “Come, scusa?”

 

“Sei di parola,” ripeté Gellert, “è un bel posto.”

 

Albus non sorrise, ma nei suoi occhi danzò una pallida scintilla. “Sono lieto che ti piaccia,” replicò. “Se fosse primavera, le ginestre sarebbero in fiore, e così le eriche.”

 

“Com’è il cielo d’Inghilterra in primavera?” domandò lui.

 

Dumbledore parve vafamente stupito dall’interrogativo, ma dopo alcuni istanti di silenzio il suo volto si aprì in un sorriso, e il giovane rispose: “È bello,” disse, “di un azzurro timido, tenue.”

 

Uno sbuffo di ventò spirò sul campo di grano, raggiungendo i due ragazzi e scompigliando i ricci di Gellert. La ciocca ramata che era sfuggita dalla coda di Albus, sfiorandogli lo zigomo, si sollevò e ricadde con grazia sul suo volto. Il giovane la scansò con un secco cenno del capo.

 

“Come ti trovi a Godric’s Hollow?” chiese improvvisamente.

 

“Non l’ho visitata più di tanto,” ammise Gellert, “sono rimasto sempre in casa.”

 

Albus sospirò. “Non ti sei perso molto,” mormorò. “Qui è una tale noia...”

 

“Ah, ti annoi?” Gellert finse stupore.

 

L’altro inarcò le sopracciglia. “Tu no?”

 

“No,” rispose lui con franchezza, “sono sempre molto impegnato.”

 

“I tuoi studi?”

 

“I miei studi,” confermò.

 

Calò ancora il silenzio, rotto solamente dal lontano gracchiare di una cornacchia.

 

“Per cosa studi?” si informò poi Albus. “Insomma...”

 

Visto che ti hanno espulso, dicevano i suoi occhi. Gellert si accorse che all’altro l’espulsione pareva un castigo pressoché inconcepibile.

 

Sospirò teatralmente. “Interesse personale, purtroppo, considerata la mia espulsione...”

 

Albus non sembrava molto convinto, ma in qualche modo – così parve a Gellert – era anche partecipe del suo fasullo rammarico.

 

“Non mi è ancora del tutto chiaro il motivo per il quale ti hanno espulso,” mormorò Dumbledore.

 

“Non sono riusciti a capirmi,” rispose Gellert con il medesimo tono di voce.

 

Per alcuni istanti, entrambi tacquero. L’altro lo guardava con serietà.

 

“Purtroppo,” riprese lui, “la genialità ha in sé la condanna alla solitudine.”

 

Albus parve al contempo dispiaciuto per lui e vagamente divertito da tale sfacciata mancanza di modestia. “Sei sincero,” osservò.

 

Gellert accennò un sorrisetto. “Solo consapevole delle mie capacità,” replicò. “Non serve a nulla sminuire le proprie doti.”

 

Albus annuì prima di incupirsi. “Posso capirti, ad ogni modo,” sbuffò.

 

“Lo immaginavo.” Gellert lo guardò fisso per qualche istante, poi sorrise apertamente – esultando intimamente nel vedere Albus sussultare in risposta a quel sorriso.

 

Ti avrò presto in pugno, mio caro.

 

Tuttavia, Albus si ricompose immediatamente, scoccandogli un’occhiata sorprendentemente ferma. A Gellert parve di esserne attravaersato da parte a parte. Si sentì improvvisamente messo a nudo, spogliato, quasi che l’altro avesse saputo cogliere ogni barlume di lui e con un solo, singolo sguardo. Non sapeva quanto gli piacesse tutto ciò.

 

Con cautela, si ripromise.

 

“Quindi ti annoi,” osservò. “Come passi il tempo?”

 

“Hai toccato un punto dolente,” confessò Albus. “Non ho nulla da fare.

 

“Leggere?”

 

“Mi piacerebbe,” sospirò l’altro, “ma ho già letto tutti i libri che abbiamo in casa.”

 

“Se vuoi,” Gellert fece una pausa, “posso prestartene qualcuno dei miei.”

 

Albus non rispose, ma dal modo in cui sgranò gli occhi e parve improvvisamente grato Gellert capì che voleva. Voleva eccome.

 

“D’accordo,” risolse di sorridergli di nuovo con complicità, “te ne presterò un paio. O anche più, se vorrai. Ti interessano le Arti Oscure.”

 

“Mi interessa tutto,” rispose Albus con semplicità.

 

“Bene!” concluse Gellert. “Domani te ne porterò qualcuno.”

 

L’altro parve esitare un istante. “Domani?” ripeté.

 

“Domani,” convenne lui. “Stessa ora?”

 

 

 

 

****

 

 

 

Gellert,

è stato un pomeriggio decisamente piacevole. Da tempo non mi accadeva di sostenere una conversazione tanto interessante. Convengo che un nuovo incontro fra grandi menti potrebbe sortire argomenti illuminanti, pertanto confermo per domani alle cinque.

A. D.

 

 

****

 

Albus,

mi piace la tua civetta, ha un’espressione intelligente per essere un pennuto. Confermo anche io, ad ogni modo. A domani.

G.

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

¹ Otto von Bismark: politico tedesco, fu primo ministro della Prussia dal 1862 al 1890.

 

 

² Arsenico: sostanza altamente letale.

 

 

 

Note dell’Autrice

 

Perdonate il ritardo, ma questa settimana sono stata impegnatissima fra studio, prove di danza, etc...

 

Ad ogni modo, mancano solo una ventina di giorni all’inizio delle vacanze estive. Per allora conto di aver già postato un altro capitolo (o forse due).

 

Grazie a tutti coloro che stanno seguendo questa storia!

 

Bisous,

 

Daphne


PS: su Facebook ho creato un gruppo per postare notizie sulla pubblicazione ed eventuali ritardi di Mehr Licht. Lo trovate qui: Write your own dance

   
 
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