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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    21/05/2012    8 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

Step one you say we need to talk,

He walks you say “sit down it's just a talk”.

He smiles politely back at you,

You stare politely right on through.

Some sort of window to your right.

As he goes left and you stay right

Between the lines of fear and blame,

You begin to wonder why you came.

The Fray - How To Save A Life

14. The last person you expected

Quando la porta della camera si aprì cancellai dal mio viso ogni traccia di preoccupazione, e piegai le labbra in un sorriso che sperai nascondesse bene le mie emozioni. Edward entrò nella stanza con un sacchetto di plastica contenente alcune confezioni di cartone, e le appoggiò sul piccolo tavolino davanti alla finestra, che aprì per lasciar uscire l’odore di fritto.

«Scusa se ci ho messo tanto», disse, tirando fuori dal sacchetto le scatole. «Sembrava che tutta la città avesse deciso di andare al ristorante cinese proprio questa sera».

Scossi il capo. «Non fa niente. Ne ho approfittato per fare una doccia», mormorai, raccogliendo le cartine e il quaderno degli itinerari dal letto e portandoli verso la scrivania.

Edward seguì il mio sguardo. «Hai guardato anche se c’è qualcosa da vedere nei dintorni?», mi chiese, indicando con un cenno del capo la cartina.

Mi accomodai al tavolino, aspettando che si sedesse anche lui prima di aprire una delle scatole. Mi morsi il labbro inferiore, evitando il suo sguardo. «Non c’è più molto da vedere. Però potremmo fare ancora una deviazione, se non vogliamo arrivare a Santa Monica subito…»

Lui mi guardò incuriosito, mentre afferrava con le bacchette un gamberetto. «Sarebbe?»

Abbassai lo sguardo al mio riso alla cantonese. «Sei mai stato a Las Vegas dai tempi del college?»

Aggrottò le sopracciglia, perplesso. «No. Vorresti andare lì?»

Annuii, cercando di fingermi occupata a cercare di raccogliere il riso con le bacchette. «Non ci sono mai stata… pensavo sarebbe stata una buona idea. Sarebbe la nostra ultima vera tappa prima di Los Angeles».

Edward rimase in silenzio per un istante. «Va bene», disse infine. «Non vedo perché non andarci».

Sorrisi. «Sarà divertente. Potrei perfino tentare la fortuna alle slot machine».

«Vista la tua fortuna ti consiglierei di evitarle», commentò, con una risatina.

Sbuffai, mentre con le bacchette spostavo il riso da un lato all’altro della confezione di cartone. Non avevo per niente fame. Rabbrividii, e socchiusi la finestra.

«Hai freddo?», mi chiese Edward, con un sopracciglio inarcato.

Scrollai le spalle. «C’era un po’ di corrente, tutto qui».

Mi osservò ancora per un istante, poi riprese a mangiare. «Hai scelto a che hotel andare?»

Scansai definitivamente il cibo, rinunciando a mangiare qualcosa controvoglia, e presi il portatile, ringraziando mentalmente la connessione gratuita ad internet dell’albergo. «No. Adesso li guardo. Tu hai qualche preferenza?»

Lui scosse il capo. «Sono passati tanti anni da quando ci sono andato, scommetto che sarà cambiato tutto».

Mentre aspettavo che il sistema operativo si avviasse gli chiesi: «In quale hotel sei stato quando sei venuto qui?»

«L’Hard Rock Hotel», rispose, facendo una faccia strana. «Emmett aveva prenotato la camera con la pista da bowling in soggiorno, ma sinceramente non credo che sia il caso prendere una stanza simile».

Risi nervosamente. «Neanch’io». Avviai la ricerca online, trovando un sito che elencava tutti gli hotel lungo la Las Vegas Boulevard, la via più importante e con i maggiori casinò della città. Inarcai le sopracciglia, mentre davanti agli occhi scorrevano le immagini di hotel degni di un parco divertimenti: un castello che sembrava uscito dal mondo delle fiabe, la Tour Eiffel a grandezza quasi naturale, un’antica Roma con tanto di giardini e fontane, una Statua della Libertà che spiccava in mezzo alle rotaie delle montagne russe, un tendone del circo gigantesco, una piramide di vetro, un vulcano in eruzione, una piccola Venezia in miniatura e una chitarra gigante. Sembrava un piccolo mondo in miniatura, un parco divertimenti per adulti in formato città.

Edward accostò la sedia alla mia, sporgendosi per vedere le immagini insieme a me. «Sì, direi che sono cambiate parecchie cose», commentò, con una risatina divertita.

«Come facciamo a scegliere in mezzo a tutti questi posti?», gli chiesi, sorpresa. Fosse stato per me li avrei provati tutti gli hotel, una notte per ciascuno.

«Prendi quello che più ti ispira, è semplice», rispose lui, divertito. «Inizia ad andare per esclusione».

Diversi minuti dopo, una volta passati in rassegna tutti i siti degli hotel e aver controllato le immagini delle stanze, giungemmo ad avere un solo nome: il The Venetian. Era uno degli hotel più belli che avessi mai visto: il palazzo principale era circondato da una piscina in cui galleggiavano diverse gondole, due ponti in stile italiano - di cui uno era costruito come il famoso Ponte di Rialto - attraversavano l’acqua e collegavano la strada principale all’hotel, formato da un edificio basso molto simile al Palazzo Ducale di Venezia, alle cui spalle si ergeva il vero e proprio complesso con le camere. Accanto ad esso c’era il campanile di San Marco.

Mandammo online la prenotazione per una delle camere, scegliendo di restare per due notti. Poi spensi il portatile ed accompagnai Edward fuori dalla camera, per buttare i resti della cena nel cassonetto davanti all’albergo. Strinsi le braccia intorno al busto, rabbrividendo. Era calato il buio, e nonostante non ci fosse vento continuavo a rabbrividire come una foglia.

Tornammo in camera subito, senza attardarci a fare un giro per il centro città deserto, e non appena la porta si chiuse alle nostre spalle lasciai che le braccia di Edward mi stringessero da dietro, facendomi appoggiare al suo petto. Sospirai stancamente, chiudendo gli occhi. Ero stanchissima, e le palpebre sembravano diventate pesanti come macigni.

Edward baciò la mia testa. «Sei stanca?», sussurrò, scostando i capelli dal mio viso e dal collo, scendendo con le labbra a baciare la tempia.

«Un po’», mormorai, sebbene la giusta risposta sarebbe stata “da morire”; ma non volevo che si allontanasse per lasciarmi andare.

Con la bocca scese lungo il mio viso, sulla mascella e poi sul collo. Con una mano sollevò leggermente l’orlo della mia maglietta, accarezzando la pelle sensibile del fianco.

Lasciai andare un mezzo sospiro, appoggiando la testa all’indietro sulla sua spalla.

Le sue labbra tracciarono una scia di baci lungo la linea del collo, fin dove lo scollo della maglietta lasciava la pelle nuda. Poi risalì nuovamente al mio viso, e voltai il capo per andare incontro alla sua bocca, che catturò la mia dolcemente. In quel bacio non c’era niente dell’impeto di quel pomeriggio, né del desiderio di poche ore prima. Sembrava più un ritrovarsi dopo tanto tempo, uno sfiorarsi di labbra che ricordava i baci della buonanotte. La sua mano infilata sotto la mia maglietta non si mosse, rimase ferma sul fianco, e capii che aveva deciso di andare con calma, di non accelerare le cose fra di noi.

Sorrisi contro la sua bocca, allontanandomi il tanto per guardarlo negli occhi. Mi lasciò girare nel suo abbraccio, e sfiorai di nuovo le sue labbra.

«Vado a cambiarmi», sussurrai, e dopo un ultimo bacio sciolsi l’intreccio delle nostre braccia e mi chiusi in bagno.

 

Prima di infilarmi nel letto non avevo calcolato quanto sarebbe stato difficile addormentarmi ora che io ed Edward avevamo abbattuto anche il muro dell’amicizia che ci teneva fisicamente separati. Sebbene fossi fisicamente spossata, mentalmente mi sentivo più sveglia che mai, soprattutto mentre le sue mani vagavano sotto la canottiera leggera che indossavo come pigiama e le sue labbra cercavano le mie, trovandole e lambendole con baci dapprima dolci e poi sempre più intensi. Entrambi eravamo decisi a non spingere le cose troppo in là, a non andare oltre i baci e le carezze più semplici, ma non era facile tirare quel freno a mano una volta che le luci erano spente ed entrambi eravamo sotto le lenzuola. Potevo sentire la sua eccitazione premere contro la mia coscia mentre si sosteneva sui gomiti per non pesarmi addosso, il suo sforzo per non lasciar vagare le mani né troppo in basso né troppo in alto lungo il mio corpo. Con le dita cercavo, tastavo e premevo i muscoli della sua schiena, senza curarmi della sua maglietta che si alzava sempre di più mentre lo attiravo a me. Quando la sua pancia toccò la mia, entrambe scoperte, ci fermammo per un istante, riprendendo fiato. Rabbrividii, e riuscii a schiarire la mia mente, annebbiata dal desiderio e l’eccitazione. Edward appoggiò la fronte alla mia, e respirò profondamente, riprendendo il controllo di sé. Poi rotolò sul fianco, attirandomi a sé. Poggiai la testa sul suo petto, sopra il suo cuore che batteva impazzito, e diversi minuti più tardi mi addormentai.

La mattina seguente mi svegliai dopo di lui, intontita e confusa. Lo sentii scuotermi delicatamente, mentre lottavo per svegliarmi.

«Bella?»

Mugugnai, e coprii con una mano il mio viso, cercando di nascondere gli occhi ancora chiusi alla luce del sole, mentre con l’altra cercavo di attirare a me la coperta, provando un brivido di freddo.

Edward mi chiamò di nuovo, e sentii la sua mano scostarmi i capelli dal viso.

Non poteva essere già mattina. Era impossibile.

Sentivo i muscoli bruciare come se avessi corso per miglia solo poche ore prima, e mi sembrava di aver dormito poco più di qualche minuto. Ero stanca, e oltretutto non avevo ancora fatto in tempo ad aprire gli occhi che avevo già un mal di testa con i fiocchi. Di certo quello non era un buongiorno, nemmeno con Edward chino su di me che cercava di svegliarmi con la maggiore delicatezza possibile.

«Forza, dormigliona. Las Vegas ci aspetta», disse, e finalmente trovai la forza per aprire gli occhi.

Mi pentii della mia scelta quasi immediatamente, quando li richiusi di scatto sentendoli bruciare per la luce.

«Adesso mi alzo», brontolai, passandomi stancamente una mano sul viso. La fermai sulla fronte, e capii subito cosa stava succedendo al mio corpo che quel mattino sembrava reduce da una maratona: scottavo. Non ero un medico, anzi, non capivo quasi nulla di medicina, ma sapevo riconoscere i sintomi della febbre, sebbene non fossi mai stata particolarmente cagionevole, e in quel momento io l’avevo senza dubbio. E se ero riuscita a capirlo io, sicuramente Edward non ci avrebbe messo molto a giungere alla stessa diagnosi. Gli sarebbe bastato sfiorarmi la fronte o vedermi rabbrividire per fare due più due, e in pochi minuti ci saremmo ritrovati bloccati a Kingman per un altro giorno, perché ero più che certa che non mi avrebbe mai lasciato alzare dal letto prima che fossi guarita del tutto. E noi non potevamo permetterci di fermarci in quella città per altre ventiquattr’ore, dovevamo assolutamente raggiungere Las Vegas prima che fosse sera.

Mi misi a sedere nascondendo quanto quel semplice sforzo mi costasse, e prima che Edward potesse toccarmi andai verso il bagno, chiudendomi dentro. Appoggiai la fronte contro le piastrelle fredde del muro, sospirando pesantemente. Sentivo la testa pesante, le gambe dolere e le tempie pulsare. Quando incontrai il mio riflesso nello specchio sopra il lavandino capii che anche il mio aspetto non era messo meglio: i capelli erano un groviglio di nodi, la pelle del viso era pallida e due brutte occhiaie marchiavano un paio di occhi gonfi e lucidi. Era un miracolo se Edward non aveva già capito dal mio aspetto che ero influenzata.

Mi rinfrescai con acqua ghiacciata, ignorando i brividi di freddo, e subito dopo mi occupai di nascondere al meglio le occhiaie, cercando di darmi anche un po’ di colore al viso grazie ai trucchi. Non ero mai stata una fanatica di cipria, fondotinta e correttore, ma quel mattino ringraziai con tutto il cuore Alice, che il Natale prima mi aveva regalato una trousse completa di tutto il necessario per farmi recuperare un aspetto quantomeno umano. Gli occhi restavano lucidi e gonfi, ma speravo di uscire al più presto da quell’albergo per poter indossare gli occhiali da sole e risolvere anche quel problema. Dovevo solo resistere fino a sera, poi avrei anche potuto dire ad Edward che avevo bisogno di qualche medicina e di riposare; avevo anche pensato di frugare nel suo borsone alla ricerca delle pastiglie per l’influenza, ma non sapevo se ne avrei avuto l’occasione.

Quando uscii dal bagno, trovai Edward davanti a me. Cercai di mantenere un’espressione impassibile mentre i suoi occhi mi scrutavano.

«Stai bene?», mi chiese, la preoccupazione nei suoi occhi verdi.

Abbozzai un sorriso. «Certo. Perché?»

«Sei scappata in bagno prima. Pensavo ti fossi sentita male», rispose, con le sopracciglia aggrottate.

Risi nervosamente. «No, affatto».

Prendendomi alla sprovvista, posò una mano sul mio collo, e per un istante mi irrigidii, terrorizzata che potesse notare la temperatura elevata del mio corpo. Si avvicinò a me, e cercai di rilassarmi mentre mi accarezzava con la punta delle dita. «Andiamo?», sussurrò, passando il pollice sulle mie labbra.

Annuii, e lui lasciò cadere la mano, sostituendo alle sue dita le sue labbra, che mi baciarono delicatamente.

Non appena si allontanò finii di ritirare le mie cose in valigia, e subito dopo lasciammo l’albergo, salendo a bordo del furgoncino blu. Nascosi i miei occhi brucianti dietro le lenti scure degli occhiali da sole, e mi abbandonai al comodo sedile, lottando contro la spossatezza che mi spingeva a chiudere gli occhi e dormire.

Il viaggio per arrivare a Las Vegas durò poco meno di due ore, grazie alla superstrada che attraversava il confine fra Nevada ed Arizona a poche miglia da Kingman, e quando superammo il cartello colorato che segnalava l’ingresso nella città delle slot machine non era neanche ora di pranzo. Arrivammo con la macchina direttamente all’ingresso dell’hotel, e subito due addetti al valet service si apprestarono ad aprire le nostre portiere, occupandosi anche di scaricare i nostri due bagagli e sistemarli su un carrello rosso e oro. Ci condussero all’interno del palazzo, che grazie agli ampi soffitti a cupola e le colonne di marmo sembrava di gran lunga più enorme di quanto sembrasse dall’esterno. In fondo al corridoio della hall si trovava una fontana riportante un globo stilizzato, che fungeva da rotonda che separava la zona del casinò - che brulicava di persone che andavano avanti e indietro e da cui provenivano chiacchiericcio e rumori di macchine - da quella degli ascensori che conducevano alle stanze - controllata da due uomini in divisa rossa con tanto di cappellino.

Dopo aver fatto il check-in e aver ritirato le due chiavi magnetiche della nostra camera, ci dirigemmo verso gli ascensori, seguiti a breve distanza da un valletto, che spingeva il carrello con le nostre valigie e prese un ascensore diverso dal nostro. Salimmo fino all’ultimo piano, e percorremmo un lungo corridoio per arrivare davanti alla camera che riportava sulla targa il nome “Luxory suite”. Edward aprì la doppia porta, e la stanza che ci ritrovammo davanti superò di gran lunga le mie aspettative. Dopo un breve corridoio si arrivava nella stanza vera e propria, occupata da un enorme letto matrimoniale sovrastato da una decina di cuscini color panna, davanti al quale spiccava un enorme schermo piatto; accanto ad esso un parapetto di pietra bianca separava la zona notte da quella giorno, due gradini più in basso, costituita da un largo divano ad L - anch’esso bianco - e un basso tavolino di cristallo. Un’ampia vetrata occupava l’intera parete, e si affacciava sulla via principale e sul resto degli hotel; in basso potevo perfino vedere il lago azzurro con le sue gondole e i ponti che l’attraversavano. Una doppia porta in legno massiccio dall’altro lato del letto conduceva in un bagno spazioso, decorato da piastrelle azzurre con intarsi dorati, e c’erano sia una doccia dalle pareti di vetro che una vasca da bagno con tanto di idromassaggio, con davanti un piccolo televisore a schermo piatto. Sembrava di essere in un piccolo appartamento.

Mentre ancora mi stavo guardando intorno, cercando di abituarmi a tutto quello sfarzo, bussarono alla porta, ed Edward corse ad aprire. Ne approfittai per prendere il mio cellulare e digitare velocemente un messaggio:

“The Venetian. Ultimo piano. Luxory suite.”

Lo ritirai nella borsa giusto in tempo prima che Edward richiudesse la porta dietro il valletto, che ci aveva consegnato le valigie, ora nel piccolo corridoio della stanza.

«Cosa facciamo adesso?», mi chiese lui, posando il suo borsone e la mia valigia nell’armadio per non ingombrare.

Mi lasciai cadere sull’enorme letto a braccia aperte, affondando nelle coperte. «Possiamo restare qui un po’? Poi potremmo andare a fare un giro dei casinò e mangiare qualcosa…», mormorai, sebbene provassi una stanchezza tale da farmi desiderare di ritirarmi sotto le coperte per non riemergerne più. Mi sentivo sempre più debole e spossata; la testa continuava a pulsare fastidiosamente, e i muscoli bruciavano. Ero sicura che la febbre fosse aumentata. Per fortuna poche ore e avrei finalmente potuto dire ad Edward che non stavo bene, e lui avrebbe potuto darmi qualcosa per stare meglio.

Lui si sedette sul bordo del letto, osservando la stanza. «In effetti non è una brutta idea. Con quello che l’abbiamo pagata merita di essere un po’ vissuta questa camera», aggiunse, ridendo.

Gli tirai un debole schiaffo sul braccio, sorridendo. Poi strinsi la mano intorno al suo gomito, e lo tirai a me per farlo sdraiare. «Non sarebbe male vivere qui», sussurrai.

Lui sorrise. «Dovremmo essere proprietari di un hotel con casinò come questo per poter vivere per sempre così».

«Potremmo farlo. Trasferirci qui e creare il nostro albergo a cinque stelle con tanto di casinò. Non sarebbe una cattiva idea».

Edward avvicinò il viso al mio. «Ci stancheremmo di questa vita a lungo andare».

«Forse…», mormorai, avvicinandomi a mia volta. «Ma-»

Mi interruppi sentendo un leggero bussare alla porta, attutito dal legno massiccio e i muri insonorizzati. Edward si alzò immediatamente, ed io trattenni il respiro, mettendomi a sedere e seguendolo con brevi passi. Era già arrivato?

Mi fermai all’inizio del corridoio, mentre Edward apriva la porta, prima di poco e poi spalancandola completamente, lasciando ricadere la mano lungo il suo fianco. Perfino a diversi metri di distanza potei vedere il modo in cui le sue spalle si irrigidirono.

L’uomo davanti a lui rimase imperturbabile. I capelli biondi tirati indietro, pettinati come sempre in modo impeccabile, il completo scuro con la camicia azzurra stretta al collo dalla cravatta, gli occhi azzurri gentili e buoni.

Edward rimase immobile, mentre davanti alla porta della nostra camera osservava l’ultima persona che si aspettava di trovare in quel posto in quel momento: Carlisle Cullen.

 

«Ciao, Edward», disse Carlisle, con un sorriso gentile. I suoi occhi azzurri vagarono oltre le spalle del figlio, fino a me. «Ciao, Bella. È da parecchio che non ci vediamo, come stai?»

«Cosa ci fai qui?», proruppe bruscamente Edward, senza darmi il tempo di rispondere e salutare. «Come hai fatto a trovarci?»

Carlisle si schiarì la voce, senza perdere la sua aria imperturbabile. «Mi trovo a Las Vegas da ieri pomeriggio per un convegno a cui mi hanno invitato. Ho pensato che dato che è passata più di una settimana da quando sei partito avresti potuto trovarti nei paraggi, così ho contattato Bella».

La testa di Edward si voltò di scatto verso di me, e i suoi occhi mi fissarono intensamente. Non capivo che emozioni potesse provare in quel momento: tradimento, delusione?

Poi tornò a guardare il padre. «L’hai convinta a farmi venire qui senza dirmi nulla, non è vero?»

Suo padre fece un sorriso mesto. «Avresti accettato sapendo che ti stavo aspettando?»

Edward distolse lo sguardo. «Quindi? Cosa vorresti fare ora? Riportarmi a casa?»

«Niente affatto, Edward», rispose pacato Carlisle. «Vorrei solo parlarti, credi sia possibile?»

Vidi le mani di Edward stringersi in due pugni lungo i suoi fianchi. «E va bene», disse fra i denti.

Carlisle sorrise ancora. Mi guardò. «Ti dispiace, Bella, se andiamo a parlare di sotto al bar?»

Scossi il capo, rimanendo in silenzio. Carlisle mi ringraziò, e si avviò lungo il corridoio, sparendo dalla mia vista. Prima che Edward se ne andasse mi lanciò un’ultima occhiata, ma non lessi nessun sentimento che mi aspettavo, solo una grande e profonda tristezza che mi fece sentire in colpa per tutto il resto del pomeriggio.

 

Erano passate meno di due ore quando qualcuno bussò alla camera. Il suono dei colpi alla porta riuscirono a strapparmi dal sonno leggero in cui ero caduta, e raggiunsi l’ingresso a fatica, tenendomi al muro mentre la stanza girava intorno a me e le gambe minacciavano di farmi rovinare a terra ad ogni passo.

Non sapevo cosa aspettarmi da Edward, una volta che sarebbe tornato in camera: sarebbe stato arrabbiato perché l’avevo attirato qui con una bugia? In quel momento non mi importava granché: volevo solo che tornasse per potergli finalmente chiedere una medicina per quella febbre che sembrava continuare salire anziché scendere, e anche per dirgli che mi dispiaceva non avergli detto niente di Carlisle.

Tuttavia, quando aprii la porta non trovai Edward, ma suo padre. Solo in quel momento ricordai che Edward aveva una chiave della camera e che quindi era quasi impossibile fosse lui a bussare, e probabilmente la delusione sul mio viso fu evidente, perché Carlisle sorrise imbarazzato.

«Edward è rimasto di sotto», mi informò, quando vide i miei occhi cercare suo figlio oltre le sue spalle. Si schiarì la voce. «Volevo ringraziarti per quello che hai fatto oggi. So che per te non è stato facile mentirgli».

«Sei riuscito a parlargli di quello che volevi?», sussurrai, incapace anche solo di parlare a voce troppo alta, temendo che le mie tempie potessero esplodere a causa del mal di testa.

Carlisle annuì. «Sono contento che tu sia partita con lui. Per me ed Esme è stato un sollievo sapere che non era da solo. Quando è partito ci ha chiesto di non contattarlo finché non fosse tornato, e appena abbiamo saputo da Emmett e Rosalie che tu eri con lui siamo stati subito più tranquilli. Quindi grazie, per tutto», disse, stringendo una mia mano fra le sue.

Sorrisi debolmente. «Non devi ringraziarmi».

Carlisle aggrottò la fronte, e allontanò una mano dalla mia. «Permetti?», chiese, e prima ancora che potessi rispondere o capire cosa stava per fare posò il palmo contro la mia fronte. Sgranò gli occhi. «Bella, hai la febbre altissima», esclamò.

Arretrai di un passo, cercando di raddrizzarmi e ricompormi. Cosa mi aveva tradita? Con Edward ero riuscita a fingere, perché con Carlisle no?

Mi morsi il labbro inferiore con forza. «Non è niente, sto bene», mormorai, sperando che non si preoccupasse.

«Hai almeno trentanove di febbre, devi metterti subito a letto. Edward ti ha dato qualcosa da prendere?», mi chiese, circondandomi le spalle con un braccio e spingendomi delicatamente a dirigermi verso il letto, lasciando che la porta si richiudesse alle nostre spalle.

«N-No. Non sa che ho la febbre», bofonchiai, sedendomi sul bordo del letto.

Carlisle sospirò profondamente. «Avresti dovuto dirglielo. Io avrei potuto aspettare questa sera per parlare con lui e prendere l’aereo domattina se mi avessi spiegato la situazione», disse, guardandosi intorno. «Ho lasciato alla reception insieme ai bagagli la mia valigetta. Aspettami qui, vado a prenderla così posso darti qualcosa», mi ordinò, dirigendosi verso la porta.

«Edward dov’è?», gli chiesi, prima che se ne andasse.

«Credo sia rimasto al bar. Spero che stia riflettendo su quello che gli ho detto», sospirò, poi uscì dalla camera.

Aspettai dieci secondi, poi mi alzai e mi diressi a mia volta verso la porta, prendendo con me solo il cellulare e la chiave della camera. Camminare lungo i corridoi non era difficile, anche se ogni passo sembrava costarmi più energie di una scalinata.

Sapevo che avrei dovuto restare in camera ad aspettare che Carlisle venisse a curarmi e che Edward tornasse dal bar dopo aver riflettuto, ma non volevo lasciarlo da solo. Volevo che sapesse che per lui ci sarei stata, e che se voleva poteva parlarmi di tutto quello che gli era successo, perché l’avrei capito e non l’avrei giudicato. E, sinceramente, dopo quello che avevo fatto avevo paura che non l’avrei rivisto fino notte inoltrata.

Scesi con l’ascensore fino al piano del canale, dove si trovavano anche i ristoranti e i bar. Era pazzesca l’illusione che creavano il cielo dipinto sul soffitto, le luci soffuse dei lampioni e l’acqua cristallina del canale che si diramava attraverso le vie dei negozi sotterranei; sembrava di essere in una vera città notturna, sebbene fuori dal casinò il sole fosse ancora alto. Camminai facendomi largo fra la gente, fino ad arrivare alla zona dove si trovavano i locali, e cercai una testa ramata fra le persone, senza successo. Presi il cellulare, e avviai la chiamata. Rispose dopo pochi squilli.

«Edward? Edward, dove sei?», gli chiesi subito, continuando a guardarmi intorno.

Lui sospirò. «Bella… sono al bar, tra poco arrivo, va bene?»

«Aspetta, io…». Mi interruppi quando voltandomi sbattei la spalla contro un uomo, rischiando di cadere a terra. Mi portai una mano alla testa, sentendola girare vorticosamente. «Oh, mi scusi», mormorai all’uomo che aveva posato una mano sul mio braccio per fermare la mia caduta.

«Si sente bene, signorina?», mi chiese, fissandomi con apprensione.

Annuii, guardandomi intorno disorientata. «Sì, la ringrazio, sto solo…»

«Bella? Sei al casinò?», mi richiamò Edward, ancora al telefono.

Voltai le spalle all’uomo, che se ne andò. Ripresi a camminare lungo il canale, cercandolo fra la folla, sperando di vederlo comparire all’improvviso. «Nella zona dei negozi… Carlisle mi ha detto che eri rimasto giù e così…» Mi fermai per prendere fiato, appoggiandomi con i gomiti alla balaustra del Grand Canal. Una coppia stava salendo su una gondola per iniziare il loro giro. I riflessi delle luci sull’acqua non facevano altro che aumentare la nausea.

«Dove sei di preciso?», mi chiese ancora Edward, e sentii in sottofondo il rumore di voci.

Mi guardai intorno, cercando un punto di riferimento che non fosse il nome dei negozi. «Non lo so… c’è una fontana… il canale…»

«A che punto del canale sei?»

Guardai la pozza d’acqua davanti a me, con i gradini che scendevano fino ad immergersi e le gondole attraccate in quel piccolo molo. «Alla fine».

«Okay, aspettami lì, sto percorrendo il canale, ti raggiungo», disse.

Presi un profondo respiro. Le gambe sembravano sul punto di cedere. «Edward… io… non mi sento bene», ammisi.

«Che cos’hai?», mi chiese, e nella sua voce colsi subito l’allarme.

Ormai era inutile minimizzare. Sapevo che ero al limite delle forze. Maledii la mia testardaggine. «Mi sento svenire», fiatai.

«Siediti subito! Hai qualcosa di zuccherato con te? Una caramella, qualunque cosa», disse, e dal tono della sua voce capii che stava correndo.

«No», mormorai, appoggiandomi sempre di più alla balaustra per non finire in ginocchio a terra. Mi sentivo così male, ma al tempo stesso non volevo crollare in mezzo a tanta gente, da sola.

«Sono quasi arrivato cerca di resistere», disse ancora Edward. Premetti con forza il cellulare all’orecchio, sentendo la presa della mia mano diventare debole.

Ormai non sentivo più distintamente la voce di Edward, ma solo un brusio di sottofondo. Mi accorsi a malapena delle braccia che mi cinsero la vita e mi trattennero dal crollare a terra. Ripresi un minimo di coscienza quando mi ritrovai in braccio ad Edward, con la testa sulla sua spalla e senza più la fatica di reggermi sui miei piedi a prosciugare le mie ultime energie. Alzai leggermente il capo per incontrare gli occhi turbati di Edward.

«Hai la fronte che scotta quanto un bollitore, Bella», mormorò, facendosi strada fra la gente che percorreva le stradine.

Chiusi gli occhi. «Mi dispiace», sussurrai.

«Perché non mi hai detto che stavi male? Sei forse impazzita? È pericoloso non curare la febbre», mi rimproverò, allontanandosi velocemente dal caos della zona commerciale.

Mi resi conto che eravamo arrivati all’ascensore solo grazie all’improvviso silenzio che donava sollievo al mio mal di testa pulsante. «Non volevo che rimandassi l’incontro con Carlisle», risposi debolmente. «Mi dispiace», ripetei.

«Smettila di dirlo. Sono io quello che è dispiaciuto. Dannazione, sono un medico, avrei dovuto capire fin dal modo in cui rabbrividivi ieri sera che c’era qualcosa che non andava».

«Edward!», sentii esclamare da un’altra voce. Aprii leggermente gli occhi, scorgendo la figura offuscata di Carlisle, davanti alla porta della nostra camera. «Avrei dovuto immaginare che era venuta a cercarti. Ero andato a prendere la valigetta alla reception e quando sono tornato era già andata via».

Edward sospirò. Aprì la porta della stanza, lasciandola richiudere automaticamente mentre era già arrivato al letto. Mi lasciò sulle lenzuola, preoccupandosi subito di sfilarmi le scarpe e di correre a prendere il mio pigiama dalla valigia. Carlisle nel frattempo aveva già aperto la sua valigetta, e stava maneggiando un termometro al mercurio, che mi fece infilare sotto il braccio, mentre mi ritiravo sotto le coperte, ignorando il pigiama che Edward aveva appoggiato sul letto.

Passati un paio di minuti Carlisle controllò la temperatura, accertandosi che fosse di ben quaranta gradi. Sentirlo dire era ancora più spaventoso di quanto immaginassi.

Mentre padre e figlio discutevano delle cause che potevano averla generata - ovvero la lavata che ci eravamo presi io ed Edward sotto la pioggia il pomeriggio precedente -, Carlisle mi preparò uno strano composto dall’aspetto per nulla invitante, che mi costrinsi a bere in un solo sorso. Mi diede anche una pastiglia e lasciò il resto della confezione sul comodino, ricordandomi di restare al caldo e non provare ad alzarmi dal letto se non per andare in bagno. Quando avrei finalmente iniziato ad avere caldo sotto le coperte potevo considerarmi in via di guarigione, ma fino a quel momento avrei dovuto restare al caldo il più possibile.

«Mi dispiace dovervi già lasciare, ma purtroppo ho l’aereo fra tre ore. Devo correre all’aeroporto», disse Carlisle, richiudendo la valigetta.

Edward annuì, alzandosi dal letto per accompagnarlo alla porta. Carlisle mi salutò con una carezza alla testa, dicendomi che sperava di rivedermi presto e ringraziandomi ancora per averlo aiutato ad incontrare suo figlio. Poi se ne andò, lasciando me ed Edward nuovamente soli.

Lui tornò a sedersi sul letto, prendendo il mio pigiama fra le mani. «Non vuoi cambiarti? Non sembrano molto comodi i pantaloncini di jeans per stare a letto tutto il pomeriggio».

Rabbrividii. Ora che non dovevo più fingere non riuscivo neanche a trattenere i brividi di freddo che continuavano a scuotermi. Annuii leggermente, e mi feci aiutare da Edward per tirarmi a sedere.

Lasciai che mi sfilasse la maglietta, e mi aiutasse a infilare quella del pigiama. Prima di passare ai pantaloni si alzò nuovamente, e tornò verso le valigie, sparendo nel corridoio. Quando riapparve teneva in mano una felpa e un paio di pantaloni da ginnastica. «Questi tengono di sicuro più caldo di quelli», disse, riferendosi ai pantaloncini corti che usavo come pigiama. Annuii stancamente, e dopo aver infilato la felpa mi sdraiai sul materasso, slacciando i jeans e sollevandomi il tanto per permettere ad Edward di sfilarmeli e infilarmi quelli della tuta. Sia i pantaloni che la felpa erano enormi, ma incredibilmente morbidi e spaziosi. Sul tessuto mi sembrava quasi di sentire il profumo di Edward, e dopo essermi accoccolata sotto le coperte premetti la manica contro il viso, aspirando profondamente.

Edward mi accarezzò i capelli, restando seduto al mio fianco.

«Mi dispiace di non averti detto di Carlisle», sussurrai, già mezza addormentata.

«Non fa niente. L’hai fatto in buona fede», rispose semplicemente.

«Di cosa voleva parlarti?», domandai, sperando di restare abbastanza sveglia da poterlo ascoltare nel caso volesse parlarmene.

Edward sospirò. «Di quello che mi è successo a Chicago lo scorso inverno», sussurrò.

«Cosa ti è successo?», insistetti, ma perfino io riuscivo a capire dalla mia voce che ero sul punto di addormentarmi.

Lui rimase in silenzio per un istante. «Te lo racconterò appena ti sentirai meglio, d’accordo? Ora devi riposare».

«Promesso?», sussurrai, in un ultimo lampo di lucidità.

«Promesso», rispose Edward.

L’ultima cosa che sentii prima di addormentarmi fu il suo bacio sulla fronte, poi più nulla.

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Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Buongiornooo! :)

Come avete letto non ci è voluto molto per scoprire chi aveva telefonato a Bella, e questa volta Edward sembra anche deciso  a dire cosa gli è successo a Bella, quindi presto potreste sapere anche la sua storia ;)

Anche in questo capitolo non ci troviamo più sulla Route 66, ma ci torneremo presto :D

Grazie mille a chi continua a recensire, e grazie anche ai lettori silenziosi :*****

Alla prossima settimana! :D

   
 
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