28
– Il ritratto di Edward (Grey) Cullen
Edward
era tornato a casa.
Non
mi sembrava vero.
Lo
vedevo e credevo fosse un sogno, o forse un’allucinazione.
La
fine dell’inverno, quello della mia anima.
Il
sole tornava nella nostra vita ed aveva il colore degli occhi vermigli,
commossi e tristi di un vampiro pentito.
Esme,
sulla porta, abbracciava convulsa suo figlio con una gioia incontenibile che
straripava dallo sguardo acceso, dai gesti febbrili e teneri, dalla voce
argentina e musicale incrinata dall’emozione troppo forte.
Ero
rimasto fermo dov’ero, davanti all’ingresso, bloccato come fossi incapace di
muovermi, quasi l’emozione e la sorpresa mi avessero derubato di tutte le mie
forze.
Percepivo
la felicità della mia Esme esplodere in riso, manifestarsi nelle carezze sul
volto che elargiva ad Edward, quasi dovesse convincersi, toccandolo, di averlo
lì davanti.
“Sei
tornato, finalmente. Oh, Edward, quanto ti abbiamo atteso! Io lo sapevo… lo
sapevo che un giorno saresti tornato da noi. Ne ero certa! Non potevi averci
dimenticato.”
“Non
l’ho mai fatto, Esme. Quanto mi sei mancata.”
Fu
strano risentire il suono melodico della sua voce; l’emozione in quell’attimo
mi attraversò dentro come una scarica di corrente.
Fu
qualcosa di potente.
Non
avrei mai creduto di poter provare qualcosa di simile; era come essere rinati a
nuova vita. Esme si volse a guardarmi, mentre continuavo a restare immobile,
per condividere la sua gioia con me.
Sorrideva
e aveva una luce bellissima che le faceva scintillare gli occhi dorati. Era una
gioia profonda vederla così.
La
felicità stava invadendo il mio cuore e lo sommergeva superando il silenzio in
cui era nascosto da secoli.
“Nostro
figlio, Carlisle. Edward è tornato a casa, dalla sua famiglia. Oh, questa è una
gioia immensa!!”
Continuava
a trattenerlo in un abbraccio possessivo che Edward ricambiava con uguale
slancio.
“Sì,
davvero…” fu l’unica cosa che riuscii a dire e sentii la mia voce tremare.
Allora mi mossi e mi avvicinai a mio figlio e posai una mano sulla sua spalla.
Strinsi la sua carne fredda, per convincermi che fosse reale, per placare
l’emozione che tornò a travolgermi. E io non opposi alcuna resistenza, mentre
sentivo che Edward coglieva ogni singola, minima sfumatura del mio turbamento.
Esme non smetteva di accarezzare il suo volto, di stringerlo nel suo abbraccio
materno, mentre io avevo posato l’altra mano sulla spalla della mia compagna.
“Non
ci speravo quasi più…” gli dissi in un soffio, con voce quasi stanca.
Edward
mi guardò coi suoi occhi rossi, colmi di qualcosa che sembrava gratitudine.
Nell’immediato fui sorpreso. Avrei compreso dopo.
Emmett
e Rosalie erano rimasti indietro e guardavano la scena con una strana
soggezione, quasi avessero timore di infrangere l’idillio perfetto che s’era
creato.
Esme
sciolse l’abbraccio in cui aveva imprigionato Edward e lasciò che il figlio
facesse qualche passo verso la sorella per salutarla.
“Bentornato
Edward. Mi fa piacere che tu sia qui.”
“Sì,
sono contento anch’io… Non ci hai mai creduto, Rosalie…”
“È
vero. Ma sono felice di essermi sbagliata. Felice per la nostra famiglia… e
anche per me, in fondo.”
Era
sincera; Edward lo leggeva nella sua mente. E leggeva anche la perplessità di
Emmett che non comprendeva del tutto quello che stava accadendo intorno a lui.
Gli avevamo parlato di Edward solo per cenni vaghi, perché ricordarlo faceva
male.
E
fu Edward a presentarsi.
“Sono
felice di conoscerti Emmett; è bello avere un fratello. So che qualche giorno
fa avevi avvertito la mia presenza, anche se non avevi immaginato chi fossi.”
“Ecco
perché mi sentivo spiato! Come hai fatto a nascondermi la tua scia? È
sorprendente; avrei dovuto avvertire il tuo odore a chilometri di distanza,
invece niente.”
“So
passare inosservato. E dovevo capire se ci fosse ancora posto per me, in questa
famiglia.”
Quella
frase mi fece uno strano effetto. Non seppi nasconderlo in nessun modo.
“Tu
avrai sempre un posto in questa famiglia, tu appartieni a tutti noi, Edward.
Non devi mai dubitare di questo.”
“Lo
so Carlisle, ma sai… volevo esserne certo.” mi disse con tono mesto.
E
mi chiesi da quanto tempo fosse vicino a noi. Da quanto ci stesse osservando a
distanza e perché. Mi rispose subito.
“Sono
arrivato da pochi giorni in città. Ho visto Emmett e Rosalie andare a scuola,
ho sentito il loro legame, Esme uscire dopo l’orario delle sue lezioni… ma
incontro te per la prima volta, Carlisle. – fece una pausa prima di continuare.
– Non volevo sconvolgere all’improvviso le vostre vite. Mi sono deciso solo
dopo aver visto Esme, la sua malinconia…”
“Le
nostre vite sono sconvolte dalla felicità, Edward. Sei tornato per restare,
vero? Non ci abbandonerai di nuovo…” la supplica quasi accorata di una madre
subito rassicurata dal figlio.
“Come
sapevi dove trovarci?” chiesi con un minimo di curiosità, aspettandomi la
risposta che sentii.
“Eleazar.”
Sospirai
pensando a tutte le telefonate in Alaska, fatte negli ultimi mesi.
Forse
il mio amico mi aveva nascosto qualcosa.
“Abbiamo
tante cose di cui parlare.”
“Lo
faremo. Dammi solo un po’ tempo.” mi disse, e compresi che per lui non sarebbe
stato facile, o forse era la mia reazione che Edward temeva, il mio giudizio
sulle sue azioni. Ma sarei stato pronto ad accettare la verità, anche quella
più cruda e dura da digerire.
Senza
recriminazioni e accuse.
Il
passato era passato; andava lasciato alle spalle.
Gli
occhi di Edward restarono rosso sangue per diversi mesi, nonostante la dieta a
base di animali; c’era il sangue umano di anni da smaltire, le abitudini da
cambiare. Gli uomini non erano più prede, ma dopo che un vampiro s’è nutrito di
loro per tanto tempo, sopportare l’odore dolce, resistere alla tentazione del
loro sangue caldo è più difficile.
Edward
aveva fatto dei passi indietro, ma recuperare la strada persa fu più faticoso
del previsto.
Ma
mio figlio è sempre stato forte, non ricordo una volta che si sia arreso,
neppure davanti alle difficoltà maggiori.
Affrontammo
il discorso dopo quasi due settimane.
Fu
sul far del crepuscolo, dopo una caccia che coinvolse tutta la famiglia. Sapevo
che Edward sentiva il bisogno di aprirsi, di raccontare tutto, ma era come se
fosse frenato; era ancora viva in lui la paura di deludermi, di ferire sua
madre: esitava tra bisogno e incertezza a mostrare l’altra faccia, quella più
oscura e inaccettabile.
Fu
Esme a incoraggiarlo.
“Noi
possiamo comprenderti, Edward... Non ti giudicheremo perché siamo uguali a te.”
Lui
capì cosa intendesse. Guardò Rosalie seduta sul lato opposto della sala, e poi
Emmett accanto a lei, che lo osservava tranquillo e curioso.
“Ho
preso la mia ultima vita umana più di venti giorni fa…” iniziò.
Era
seduto accanto a sua madre, sprofondato sul divano del salone, la testa buttata
all’indietro sullo schienale con gli occhi puntati al soffitto, le mani
appoggiate sulle gambe allungate in avanti.
Parlava,
ma non osava guardarmi, come se l’oro senza macchie dei miei occhi fosse
insostenibile per lui.
“Un
assassino come tanti, all’apparenza. Quanti ne ho presi, Carlisle. Non ne hai
idea. Ne ho perso il conto. Forse cento. Forse mille. Forse molti di più. Non
ha importanza il loro numero. Sembrava non finissero mai. Ne uccidevo uno, ne
restavano centinaia.
Mostri
su mostri.
Assassini.
Stupratori.
Maniaci,
perversi e pervertiti.
Pedofili.
Anime
nere, corrotte, deformi.
Senza
grazia.
Uomini
senz’anima, feccia priva d’umanità.
Mi
chiedevo come facesse il mondo a partorirli, quale Dio sadico e cattivo li
avesse buttati su questa terra per punire gli uomini.
Violenza,
sevizie, odio feroce e cieco.
Erano
peggio delle bestie.
Erano
gli orchi delle favole per bambini.
Avevano
pensieri tremendi, agghiaccianti. Vomitavano i loro insulti nella mia testa.
Dovevo farli tacere. Li inseguivo dentro vicoli bui, in quartieri che erano
fogne di umanità a cielo aperto. Come a Manphis, Carlisle. Ti ricordi quando
venisti a cercarmi?” Mi domandò.
Altroché
se ricordavo.
Rammentavo
tutto di quelle strade fetide che si perdevano dentro notti oscure e solitarie;
non avevo trovato altro che i graffi di una scritta su un muro umido e
scrostato.
“Li
trovavo tra l’opulenza dei ricchi arroganti che nascondevano nell’ipocrisia le
più infime bassezze.
Le
voci delle loro menti erano diventate suoni assordanti. Avevo l’urgenza di
spegnerle. All’inizio mi piaceva, dare loro la caccia era esaltante; mi sentivo
una specie di angelo vendicatore. Mi sembrava giusto.
Mi
sentivo un Dio.
Come
quando tu, Carlisle, operi un tumore maligno; togli il marcio, il male.
Io
pensavo di fare la stessa cosa. Anzi, facevo qualcosa di molto più grande. Io
curavo il mondo intero. Distruggevo il cancro peggiore, quello da cui gli
uomini non possono difendersi.
Quello
che gli uomini comuni non riescono a vedere. Avevo uno scopo che sembrava riempire
la mia vita. Mi sentivo un po’ come te, cercavo quella sensazione… credevo di
averla trovata…”
Trovai
quel concetto sorprendente, eppure logico, anche se in modo distorto. Ritornava
nelle sue parole il bisogno di rapportarsi a me; che anche in quella circostanza
drammatica, inconsciamente avesse pensato al suo mentore, dava un valore
diverso a tutto, anche alle mie responsabilità concrete. Significava che ero
importante, per lui.
Avevo
lasciato un segno che forse lo aveva indotto a recedere dai suoi propositi, un
fatto che mi faceva riconsiderare in maniera diversa il mio presunto fallimento
come padre.
“I
miei occhi diventavano sempre più rossi e il mio cuore sempre più nero. E non
mi accorgevo che stavo diventando come loro. Totalmente assorbito da me stesso.
Sempre
più perverso.
Sempre
più orribile.
Sempre
più mostro.
La
mia discesa personale e infinita all’inferno.
Sempre
più giù nell’abisso, lontano dalla luce.
Un
Dorian Grey, vampiro eterno e bellissimo nell’aspetto, ma roso fin nelle
viscere dai vermi dell’abbrutimento. Un demonio spaventoso.
Un
giorno, mi son visto così, negli occhi allucinati di una delle mie vittime. Per
un istante eterno come la mia natura dannata, ho riconosciuto il mio vero
ritratto, la mia vera immagine deturpata dalle mie azioni nefande.
Eccolo
il vero me stesso.
Con
la consapevolezza, la depressione è diventata sempre più pesante come la
convivenza coi miei delitti. E non riuscivo a fermarmi, travolto dal demone che
mi governava, che reclamava ingordo e avido sangue fresco con ferocia
crescente. Arrivai a compiere una strage in un solo giorno: una banda di
rapinatori assassini che avevano assalito una banca a colpi di mitra, prima che
io li fermassi...”
Edward
aveva sollevato la testa e si era soffermato sulle nostre espressioni attente,
senza emozioni apparenti; mi guardava adesso, scrutava i miei pensieri alla
ricerca della vergogna, del biasimo che potevo avere per lui. Ma io ringraziavo
solo il cielo che fosse tornato.
Il
suo racconto impietoso di sé stesso metteva la pelle d’oca, ma lo ascoltavo
caricandomi del suo orrore per toglierne un po’ a lui.
“Ma
se ora sei qui, vuol dire che hai saputo fermarti in tempo, prima di perderti
del tutto…” constatai, ed ero convinto.
“È
vero. - Confermò Esme con altrettanta convinzione. - Hai scelto di tornare
indietro e lo hai fatto, e questo è motivo d’orgoglio per tutti noi.”
“Grazie
Esme, ma… io mi vedevo realmente per ciò che ero e non volevo essere così. Mi
facevo schifo. Ma non avevo la forza di resistere alla voragine oscura che mi
risucchiava. Mi sentivo perso, ormai. Pensavo che neppure la mia famiglia
avrebbe potuto riaccogliermi.”
Edward
puntò lo sguardo di nuovo su di me.
“Scoprivo
Carlisle, che avevi ragione su tutto e il senso di colpa mi stava annientando.
La decisione definitiva la presi solo dopo l’ultima delle mie vittime. Pare
assurdo, ma i suoi pensieri prima della morte, mi hanno fermato dal continuare
su quella strada senza ritorno. Era un serial-killer che uccideva le donne
strangolandole con una cravatta. Lo schiacciai contro un muro scrostato, una
notte in una strada di Boston mentre pedinava una giovane donna uscita da un
bar di quartiere. Mentre bevevo il suo sangue e la vita lo abbandonava, mi
sorpresero come la folgore i suoi ultimi pensieri: ringraziava Dio o la sorte
che aveva mandato qualcuno a fermarlo, perché lui da solo non sarebbe riuscito
a farlo. E gioiva che la morte fosse venuto a prenderlo. Quando lo lasciai
inerte al suolo in quel vicolo sudicio e oscuro, rimasi lì immobile a guardare
il suo cadavere nella polvere della strada, a chiedermi sconvolto chi mai
avrebbe fermato me. Compresi che solo io potevo fermare me stesso e vincere sul
mio demone. Era quello che mi avevi sempre detto tu. Ci ho creduto davvero solo
in quel preciso momento.”
Edward
aveva terminato il suo racconto scioccante e aspettava forse la mia sentenza
che però non arrivò nel modo che lui credeva. Io stavo cercando di assorbire
tutte le informazioni ricevute e di rielaborarle in pensieri personali.
“È
straordinario quello che hai appena detto: tu hai avuto il coraggio di sfidare
il tuo demone, non avrà più potere su di te. Lo hai riconosciuto e lo hai
battuto.”
“Sì,
ma a quale prezzo. Ho bruciato la mia anima fino in fondo. Dovrò convivere per
sempre con l’orrore delle mie colpe, senza poterle mai cancellare.” Mi rispose
amaramente.
“Tu
avrai la forza di sostenerle.”
Non
avevo dubbi in merito e volevo che lui mi credesse.
Emmett
che aveva ascoltato tutto con attenzione prese la parola.
“Se
posso esprimere la mia opinione, Edward, non devi sentirti in colpa per le tue
scelte; in fondo, hai ammazzato delle carogne che non si meritavano
nient’altro, e noi siamo vampiri. Anch’io ho avuto qualche incidente di
percorso, ma non ne ho fatto una tragedia. Cose che capitano. - Disse alzando
le spalle con ovvietà disarmante. – Sai, questa tua capacità di leggere il
pensiero è straordinaria, potrà esserci molto utile per il futuro; ad esempio,
potresti suggerirmi in anteprima i pensieri di Rosalie, un sistema sicuro per
evitare le sue arrabbiature.”
“Emmett,
sei il solito scimmione che parla a sproposito!” lo rimbrottò lei.
“È
per questo che ti piaccio tanto, piccola!”
Mi
venne quasi da sorridere alla tranquilla, bonaria leggerezza di Emmett che
stemperava la tensione.
Anche
Edward sorrise e mi fece piacere vederlo più rilassato.
“Avevo
chiesto a Eleazar di avvisarmi se tu fossi tornato; non lo ha fatto perché glielo
hai chiesto tu, vero?” Domandai senza girarci intorno, mosso solo dal bisogno
di chiarire le mie idee.
“Sì,
Carlisle. Penso tu possa capire i miei motivi.”
-
Sì, credo… immagino i dubbi che ti hanno angustiato. Hai visto Emmett, il suo
legame forte con Rosalie e hai pensato o temuto che ti avessimo rimpiazzato. Ma
nessuno potrebbe mai prendere il tuo posto. Sei mio figlio, il primo con cui
abbia condiviso questa vita. Amo tutti i miei figli, ma tu sei speciale e
quello che ho costruito con te è qualcosa di unico.
Fu
la mia risposta silenziosa rivolta solo a lui.
Si
doveva tornare alla normalità, alla vita di tutti i giorni, con la routine
quotidiana fatta di lavoro, di contatti, di amicizie fittizie e spesso
occasionali. Per Edward non fu qualcosa di immediato.
Dovette
passare del tempo prima di poter tornare a scuola con i suoi fratelli, e poi
dovevamo giustificare la sua lunga assenza in maniera convincente e realistica.
Trovammo
la scusa di un lungo soggiorno all’estero da alcuni parenti in Inghilterra, che
alla recrudescenza della guerra in Europa, lo avevano rispedito in patria dalla
sua famiglia d’origine.
Edward
riallacciò il suo legame con Esme, più forte e saldo di prima; si confidava, le
apriva il suo cuore tormentato, finché lei non fece altrettanto al punto da
rivelargli il suo delitto, senza per questo sentirsi amareggiata dal rimorso.
Era solo un modo di far sentire al figlio la sua presenza autentica e salda a
dispetto di ogni apparenza, al di là di ogni giudizio. Edward restò sorpreso,
addirittura impressionato dalla vicenda tragica che aveva coinvolto sua madre.
“Non
riesco a credere che tu l’abbia fatto. Ti ho sempre vista così paziente, così
carica di umanità. La madre più dolce, la compagna più affine che potrei
immaginare per Carlisle. Mi chiedo come sia potuto accadere.”
“Ero
debole, insicura, è stato un brutto momento. Mi sentivo minacciata negli
affetti… tu non c’eri e Carlisle non era lo stesso di un tempo: la tua
lontananza lo ha fatto stare male, era depresso…”
“Mi
dispiace. È stata anche un po’ colpa mia.”
“Non
pensarlo neppure. Tu avevi fatto la tua scelta e sei andato via per non farla
pesare su di noi. Sei stato coerente, ma noi abbiamo sofferto. Era
inevitabile.”
“Già…
Ho peccato di presunzione pensando di poter trovare una giustificazione valida
alle mie azioni; non succederà più Esme. Te lo giuro. Non dovrai più temere di
perdere la tua famiglia, almeno non da parte mia.”
“Ti
voglio bene, Edward. Te ne vorrò sempre. Spero solo il meglio per te, per il
tuo futuro. Spero sia pieno d’amore.”
Queste
furono le parole di Esme per suo figlio, che le accolse come balsamo
consolatorio sul cuore pesto.
Io
ero felice come forse non ero mai stato. Edward aveva riportato la gioia nella
nostra famiglia e si rifletteva su tutto ciò che mi stava attorno, la
percepivano le persone con cui entravo in contatto. Adam Keller, il medico
ebreo che divideva i turni con me all’ospedale di Toronto, si accorse del mio
buon umore, della serenità d’animo che mi aveva procurato il ritorno di mio figlio.
Ne
fu sinceramente felice, ma non seppe nascondermi la segreta amarezza che covava
dentro. Nella sua domanda era sottinteso altro.
“È
bello riabbracciare i propri cari; non vedevi tuo figlio da molto, vero? È
qualcosa di meraviglioso. In tempi così difficili, sei un uomo fortunato
Carlisle.” Abbassò il capo con fare mesto e discreto.
“Penso
di sì, Adam. Ti ringrazio. Dei tuoi famigliari in Francia che mi dici? Hai
avuto notizie?”
“Purtroppo
no. Le truppe tedesche hanno occupato quella regione della Francia meridionale.
Gli ebrei dei villaggi vicini pare siano stati tutti deportati in campi di
lavoro in Polonia, ma nessuno lo sa con certezza. Mia moglie è molto
preoccupata. Lo siamo tutti.”
“Mi
dispiace davvero. - Gli posai una mano sulla spalla fragile e piccola. - Se
posso fare qualcosa per te, non esitare a chiedere, Adam.”
“Grazie,
Carlisle. Sei un amico.”
“Mi
auguro che questa guerra assurda finisca presto.”
“Sì,
anch’io.”
Ma
la fine non era dietro l’angolo e altre tragedie prima della conclusione avrebbero
sconvolto il mondo. Mancavano ancora quasi due anni allo sbarco in Normandia e
il Giappone si sarebbe arreso solo dopo il primo attacco nucleare della storia
ad opera degli Americani alle città di Hiroshima e Nagasaki con conseguenze
terrificanti.
Intanto
la nostra vita in Canada proseguiva col suo ritmo, tranquilla e normale
all’apparenza.
In
realtà, stava per bussare alla nostra porta un evento imprevisto, proiettato
direttamente da un passato che pareva ormai sepolto in un tempo lontano.
Venne
un uomo da Nashville, qualcuno che aveva fiutato le nostre tracce in maniera
quasi inspiegabile. Seguendo l’istinto formidabile da segugio, aveva fatto
domande sull’omicidio di Mary White, compiuto nella biblioteca cittadina e
aveva incontrato il poliziotto che era venuto a parlare con me e Emmett,
constatando la nostra conseguente fuga improvvisa da Nashville. L’uomo, di nome
Patrick Stark, altri non era che uno degli investigatori privati assoldati dal
defunto marito di Esme. Mi chiesi quanti uomini avesse pagato quell’uomo per
inseguirci e braccarci, finché era stato in vita. Non ne avevo idea.
Questo
doveva essere l’ultimo della serie.
Lo
sarebbe stato.
Edward,
in un giorno di pioggia che batteva furiosa sui vetri della nostra casa, lo
sentì arrivare alla nostra porta e captandone i pensieri ostinati e
inflessibili, mi mise in guardia.
“Sospetta
che ci sia un collegamento tra l’omicidio e la nostra famiglia, ma in realtà
non è questo che gli interessa. Credo che voglia farci una proposta; sarebbe
meglio ascoltarlo.”
Dietro
le tende, lo vedemmo arrivare in auto dal fondo della strada e fermarsi davanti
all’ingresso della nostra casa. Un uomo alto, dal fisico atletico e asciutto,
elegante e di bell’aspetto, con una luce determinata nello sguardo severo.
Riavere
mio figlio accanto in quella circostanza fu un bel vantaggio, ma dovemmo
risolvere la faccenda una volta per tutte, con un compromesso decisivo, ma
rischioso.
Lo
accolsi in casa nostra affabilmente; Stark mi mostrò il suo tesserino di
riconoscimento. Era un ex poliziotto: aveva lasciato il corpo di polizia per
aprire un agenzia investigativa e lavorava solo per persone facoltose,
facendosi pagare profumatamente.
“Signor
Stark, che posso fare per lei?” chiesi cortese, stringendo la sua mano. Notai
la sua sorpresa quando avvertì la mia temperatura corporea.
“Dottor
Cullen, sono venuto da lei perché credo potrebbe aiutarmi a chiudere un caso a
cui sto lavorando da un po’. Immagino lei abbia conosciuto il signor Charles
Evenson; vede, io lavoravo per lui… saprà che è morto da poco.”
“Ho
saputo. Una tragedia. Conobbi il signor Evenson diversi anni fa, per caso. Non
lo conoscevo bene, in realtà.” Commentai restando sul vago.
“Beh,
vede, recentemente lui mi assunse per rintracciare la moglie; diceva fosse scappata
col suo amante. Era convinto che lei dottore, fosse coinvolto nella faccenda…”
“Oh,
che cosa assurda! - esclamai divertito. - La verità era che la signora Evenson
scomparve e non si seppe più nulla di lei, ma Charles mi accusò di avere una
relazione con sua moglie e che fosse fuggita con me. Una serie di accuse
infondate.” Ammisi cauto.
“Già,
forse…”
Ma
Stark uscì con una osservazione inaspettata che non avrebbe dovuto
sorprendermi.
“Lei
mi sembra molto giovane; stiamo parlando di fatti che risalgono a circa
vent’anni fa… - constatò dubbioso - non mi torna qualcosa…”
“Non
si faccia ingannare: in realtà ho più di quarant’anni…” sapevo benissimo che
non li dimostravo affatto.
“Davvero?
Complimenti, li porta benissimo. Le avrei dato al massimo trent’anni… lei è
sposato, giusto?” mi chiese Stark, tranquillo. Al mio cenno affermativo, mi
chiese di poter parlare con Esme. Io provai a opporre una scusa per negare
l’incontro, ma fui smentito dalla mia compagna che comparve tra noi in quel
momento.
“Buongiorno
signor Stark, sono la signora Esme Cullen.”
Patrick
Stark restò interdetto a guardare la giovane bellissima donna dagli strani
occhi dorati come quelli del marito, che gli era comparsa davanti; quella non
poteva essere la donna che lui stava cercando, pensò, anche se la somiglianza
era impressionante.
Ma
Cullen non lo convinceva del tutto.
Edward
nascosto coi suoi fratelli nella stanza accanto, stava ascoltando tutti i
pensieri perplessi che attraversavano la mente dell’uomo. Stark si riebbe dalla
sorpresa, salutò Esme e riprese a parlare con me.
“Vede
dottor Cullen, ho le prove che la signora Evenson fuggì davvero col suo amante;
lei riconosce questa?” E l’uomo tirò fuori dalla tasca del soprabito un foglio
di carta ripiegato in quattro parti: era la lettera scritta da Esme per suo
marito. La presi e la scorsi velocemente per la prima volta, prima di passarla
con indifferenza a Esme.
“Sono
spiacente; questa lettera non mi dice nulla.” Risposi calmo, restituendo il
foglio all’uomo.
“Le
chiedo scusa signora, se la sto turbando con queste notizie…”
“Non
si preoccupi: io e mio marito non abbiamo segreti. Temo che lei, signor Stark,
stia perdendo il suo tempo, seguendo la pista sbagliata.”
“Non
lo credo del tutto, signora… - E Stark ripose la lettera in tasca. - Ho notato dottor Cullen, che non resta mai a
lungo in un posto; so che era a Nashville qualche anno fa. Esercitava lì come
medico chirurgo. Mi hanno detto che subito dopo l’omicidio di quella ragazza
nella biblioteca, lei ha lasciato precipitosamente la città… una cosa davvero
strana, non trova?”
“Scusi,
non capisco cosa c’entri questo con la scomparsa della signora Evenson…”
“Nulla
immagino. La mia è solo una constatazione. Ho parlato con un collega qualche
anno fa, e mi disse che dopo aver incontrato sua moglie a Madison, se non
sbaglio, accadde la stessa cosa: lasciaste la città. Una donna scomparsa, un
omicidio, suo figlio Emmett sul luogo del delitto; la sua famiglia è sempre,
non si sa come, coinvolta in queste vicende.”
Era
molto ben informato.
O
forse era solo un uomo che sapeva fare i giusti collegamenti. Per me, era
giunto il momento di chiudere per sempre quella porta aperta sul passato. In un
modo o nell’altro.
“Pure
coincidenze. Signor Stark, mi dica che cosa vuole esattamente da me. Lei
lavorava per Charles Evenson che ora è morto, quindi lei ha perso il suo
cliente e la possibilità di essere pagato; ha detto che vuole chiudere il caso.
Come posso aiutarla? Qual’ è la sua offerta?”
“Lei
è un uomo perspicace. Lo avevo intuito. Allora, facciamo così: lei mi stacca un
assegno di diecimila dollari e io chiudo per sempre questa faccenda, con buona
pace di tutti. Le assicuro che non sentirà più parlare di me, e nessuno verrà
più a disturbarla. Che ne pensa?”
Io
accettai la proposta.
Mi
sembrò la cosa più sensata da fare.
I
soldi non erano un problema. Fummo tutti d’accordo.
La
pietra definitiva era stata posta sul passato da umana di Esme; Charles era
morto e nessuno sarebbe più venuto a cercarci.
Ma
mentre consegnavo a Stark il suo assegno, Esme si permise di fargli un’ultima
domanda.
“Può
dirmi se il signor Evenson rinunciò mai a trovare la moglie? Non credo si sia
tolto la vita per questo. Lei sa perché conservò quella lettera?”
“Non
conosco questi dettagli, signora. Però so che rileggeva spesso questa lettera;
ne era quasi ossessionato, come se vi cercasse dentro una verità misteriosa,
una spiegazione. Era uno strano uomo Charles Evenson. Poteva apparire un
bastardo arrogante e sicuro di sé, ma altre volte tradiva una strana fragilità,
questo almeno negli ultimi tempi.”
“Fragilità?”
domandò Esme pacata e perplessa, mentre cercava il mio sguardo con gli occhi.
Stark
parlava in tono grave e serio.
“A
volte, signora Cullen, quando un uomo fa il bilancio della sua vita, può accorgersi
dolorosamente di non aver raccolto niente lungo la strada. Si volta indietro e
trova solo detriti e polvere. Posso
solo dirle che mi spedì per posta questa lettera una settimana prima del
suicidio. Non so altro. Forse Charles Evenson, un giorno si è guardato allo
specchio, e quello che ha visto non gli è piaciuto.”
Concluse,
con una mano in tasca e l’altra sulla tesa del cappello in segno di saluto.
Quindi
Patrick Stark era uscito per sempre da casa nostra e dalla nostra vita.
Ma
la porta di casa Cullen non sarebbe rimasta chiusa a lungo.
La
guerra in Europa sarebbe finita restituendo i poveri fantasmi delle sue
tragedie, mentre un soffio di vento frizzante e leggero, dal profumo dolce e
già noto, avrebbe portato nuove magiche visioni, spalancando porte e finestre
della nostra esistenza.
Continua…
Eccomi qui, e scusate sempre il ritardo.
Capitolo che segna un momento importante nella storia.
È tornato Edward; il paragone con Dorian Grey, ma senza scomodare
O. Wilde mi pareva calzante, ma non so quanto sia originale.
Forse qualcuno ha già avuto la mia stessa idea, ma non lo
ricordo con precisione. Se fosse così fatemi sapere.
E qui si chiude definitivamente anche la vicenda legata ad Esme
e al suo passato. Spero che sia convincente come soluzione, ho tentato di dare
una motivazione al suicidio dell’ex marito, o almeno volevo che si intuisse,
guardando il personaggio sotto un'altra angolazione.
Come sempre ringrazio tutti voi che leggete, seguite questa
storia e qualche volta la commentate.
Spero di sentirvi.
A presto.
Ninfea.