CAPITOLO 3
CHI SEI?
“Dove…dove sono?”.
Stropicciandosi gli occhi, Rin si mise a sedere. Piano, i
contorni delle cose assunsero spessore e la bambina riuscì a definire il luogo
dove si trovava. Una grotta. Come ci era arrivata? L’ultima cosa che ricordava
era il freddo. Si era allontanata per rincorrere un coniglietto, e si era
persa. Così, si era raggomitolata ai piedi di un albero, e aveva iniziato a pregare
perché il suo signore arrivasse presto a prenderla. Non le piaceva quel posto.
Era buio, e faceva tanto freddo. La neve cadeva a larghe falde e soffiava un
vento gelido, simile all’ululare del lupo. Aveva paura.
Rin si
guardò intorno curiosa. Non vedeva
Jacken da nessuna parte e
neanche il suo signore. Che si fossero arrabbiati e l’avessero lasciata lì
sola? A quel pensiero, gli occhi della bimba si velarono di lacrime, che però ricacciò subito indietro.
Non era possibile. Non l’avrebbero cercata se poi avessero voluto abbandonarla.
Abbandonarmi…Non lo devo pensare! Il signor Sesshomaru non lo farebbe. Si
arrabbierà perché mi sono allontanata, ma nulla di più. Al massimo mi proibirà
di muovermi per un po’…Forse è qui fuori con Jacken e Ah-Un
che mi sta aspettando!
Si alzò in fretta dirigendosi
verso l’apertura della grotta, ma vi si appiattì contro scoraggiata. Fuori
nevicava ancora con forza, e non c’era traccia dei suoi compagni di viaggio.
Mosse qualche passo oltre l’apertura, cercando di vedere oltre la neve. Nulla.
Si rannicchiò a terra e iniziò a piangere piano. Era sola. Di nuovo.
“Non devi uscire con questo
tempo. Rischi di ammalarti”.
La voce che sentì alle sue spalle
era nuova per lei, ma non sembrava minacciosa. E poi aveva quel vuoto dentro
che le faceva male. Molto male. Girò un po’ il viso, ma non riuscì a vere in
faccia la persona che la sovrastava, perché la luce del fuoco alle sue spalle
ne oscurava le fattezza. Non
le importò. Si alzò di scatto, gettandosi contro di lei, artigliando con le
mani rattrappite dal freddo il suo vestito. Non voleva che sparisse anche lei.
Non lo voleva.
Continuò a piangere anche quando
si sentì prendere in braccio e riportare verso il fuoco.
“Basta piangere”.
Un ordine. Come quegli del suo padrone. Ma
pronunciato con una voce tanto gentile che sembrava più una supplica. Rin si impose di trattenere le
lacrime. Chissà perché, non le piaceva l’idea che potesse dispiacere a chi la teneva in braccio vederla
piangere. Si sentiva protetta da quelle braccia. Come quando era vicina a Sesshomaru.
Alzò timidamente gli occhioni luccicati e si trovò a
fissare il volto di una ragazza.
“Chi sei?”
La ragazza sorrise. Un sorriso
dolce, ma anche malinconico.
“Alessandra”.
Non aggiunse altro. Solo, riprese
da terra quella strana coperta colorata e ci avvolse la bimba, portandola poi
vicino al fuoco. La vicinanza col fuoco destò completamente Rin, che si mise ad osservare curiosa la ragazza che
le sedeva accanto. Era alta (almeno rispetto a lei), forse come il signor Sesshomaru, e portava degli
strani vestiti. Pantaloni scuri e una grande casacca nera senza bottoni. I
capelli, lunghi e raccolti in uno shignone,
incorniciavano un viso dove, sotto una frangia un po’ ribelle, brillavano due
occhi del colore del mare in tempesta. Non riusciva a capire il colore dei
capelli: neri dietro, perché in ombra, davanti passavano da tonalità ramate a
bagliori dorati. Colpa del fuoco.
Rin non ne
aveva paura. Restava in silenzio, come assorta nei suoi pensieri, ma non le
faceva paura. Allora decise di parlare lei. Non le piaceva il silenzio. Ecco,
quello la spaventava. Non quella sconosciuta un po’ fredda e silenziosa.
“Senti…io mi chiamo Rin. Piacere. Da dove vieni? Sei
stata tu a trovarmi? Quanti anni hai? Io ne ho sette, quasi otto. E poi…”.Un
sommesso gorgoglio salì dallo stomaco di Rin,
che si interruppe, abbracciandosi un po’ imbarazzata la pancia.
“Vuoi un biscotto al
cioccolato?”. Alessandra aveva iniziato a frugare nel suo zaino per poi porgere
a Rin un pacchetto di
biscotti. La bimba li guardò sorpresa. Non aveva mai visto biscotti di quel
colore, se non quando si bruciavano. Ma aveva troppa fame per pensare ed
assaggiò. Anche se bruciati, erano comunque qualcosa da mangiare.
“Buoooni!!!
Li hai fatti tu?”
Alessandra la guardò mentre finiva il pacchetto di biscotti e
riprendeva a tempestarla di domande. Ma come fa una bambina appena scampata
all’assideramento ad avere tanta energia? Si rassegnò a rispondere alle sue
curiosità, anche se in modo un po’ evasivo. Non era ancora pronta a parlare.
Non se la sentiva ancora. Tuttavia, dovette ammettere a se stessa che era
piacevole dopo tanto tempo avere accanto
una persona che le parlasse sinceramente, senza compassione,
pietismi o doppi fini.
*****
Un kimono. Quella bambina
indossava un kimono.
Lo aveva notato, ma non ci aveva
dato molto peso. Sapeva che in Giappone le persone, di tutte le età,
indossavano abbastanza di frequente il loro abito tradizionale. Non come in
Europa. Non come faceva lei, che si vestiva del costume tipico della sua terra
solo in occasioni particolari. Oppure c’era una festa. E Rin si era allontanata attratta da chissà cosa e
persa.
Si rigirò rincorrendo il sonno
che scappava. Non riusciva ad
addormentarsi ed alla fine si alzò. Accanto a lei, Rin dormiva tranquillamente, gli occhi ancora un po’
gonfi per il pianto. Quando le aveva promesso che l’avrebbe portata in paese,
la piccola si era fatta prendere da un vera
crisi isterica. Aveva iniziato a piangere, spaventata. L’aveva
supplicata di non farlo, di non portarla in un villaggio. Perché lui non
l’avrebbe più trovata o avrebbe deciso di lasciarla lì. E lei non lo voleva.
Voleva stare con lui. Sempre.
Alla fine, Alessandra si era
dovuta arrendere. Le aveva promesso che l’avrebbe aiutata a ritrovare questa
persona e che non l’avrebbe condotta in nessun paese. Rin, esausta per il pianto, si era addormentata
tranquillamente.
Alessandra invece non riusciva
proprio a dormire. Fuori dal
riparo, la neve cadeva ancora, ma ormai era rada e il cielo iniziava a
schiarirsi. Il giorno dopo sarebbe stata una bella giornata di sole. Sospirò.
Sapeva che avrebbe dovuto
scendere completamente a valle e rivolgersi alla prima stazione di polizia, ma
non ne aveva il coraggio. Anche perché le sembrava che per Rin la cosa più importante fosse ritrovare questo
signore. Non gli aveva detto il nome, ma lo aveva chiamato in un modo strano: yankii. In realtà la bimba aveva
usato un altro nome…Yekai…Younkiy…Un termine che non aveva
mai sentito. Ma aveva ipotizzato che lo avesse storpiato perché ancora troppo
piccola.
Yanki…americano…ma
cosa ci faceva un americano in Giappone, con una bimba al seguito, sulle
montagne in piena tempesta di neve? E soprattutto, come aveva potuto lasciarla
andare in giro così? Rabbia, nostalgia, frustrazione…Mille emozioni le si agitavano dentro, fra la gola
e lo stomaco, ma il suo volto era rimasto una maschera di cera. Aveva imparato
col tempo, e a sue spese, che per andare avanti doveva fingersi indifferente.
Perché la gente è sempre pronta ad approfittare delle debolezze altrui. E lei
non poteva permettere che accadesse. Perché era sola. Ed aveva già sofferto
troppo.
*****
L’odore era scomparso, confuso
con la neve che era caduta. Aveva perso la pista. Ma non poteva essere andata
lontana. In fondo, era solo una bambina.
Saltando agilmente di ramo in
ramo, Sesshomaru arrivò
sulle rive di un piccolo torrente, in parte ghiacciato. Si fermò su di un ramo,
in alto. Aveva percepito qualcosa…Odore umano.
Alessandra si avvicinò al
torrente e lanciò un sasso un po’ pesante sul ghiaccio, rompendolo quel tanto
necessario per riempire la borraccia. L’alba era vicina, e alle prime luci del
crepuscolo, il demone la potè
osservare senza essere visto. Era un’umana di certo. Lo capiva dal suo odore,
in mezzo al quale distingueva anche quello di Rin. Doveva averla incontrata. E toccata. Tuttavia,
qualcosa lo infastidiva: il colore dei capelli. Ramati. Rossi. Non aveva mai
visto umani con i capelli di quel colore. Quello era un colore da demoni.
Eppure, era umana. Di questo era certo.
“Ti avevo detto di non…”.
Alessandra, avvertendo un leggero
fruscio alle sue spalle, si era voltata. Ma invece di Rin, come si aspettava, aveva di fronte un ragazzo,
che la sovrastava. Sesshomaru
era infatti sceso dall’albero
e le si era avvicinato. Voleva sapere dove fosse
Rin. E accertarsi che la
ragazza che aveva di fronte non fosse un fantoccio demoniaco.
“Dov’è Rin?”.
Una voce fredda, incolore, ma al
tempo stesso molto suadente. Come una malìa,
ti restava nelle orecchie, ti ipnotizzava. Alessandra aveva capito
perfettamente la domanda, ma non riusciva ad articolare risposta. Si sentiva
vulnerabile sotto lo sguardo tagliente di quel ragazzo. E odiava sentirsi così.
Indifesa.
“Perché lo vuoi sapere?”.
Aveva capito chi fosse. Quello era il signore che Rin voleva ritrovare. Ma non era
un americano. Di questo Alessandra
ne era assolutamente convinta. Era in ombra, perché il sole che stava sorgendo
alle sue spalle le impediva di vederlo bene; di certo il suo incedere era
affascinate, quasi regale.
Sesshomaru le si fermò a pochi centimetri di
distanza, assottigliando impercettibilmente gli occhi e lei si alzò con calma,
arrivando quasi alla sua altezza. Ora lo poteva vedere in viso. Le iridi
ambrate percorse da sottili striature dorate che zizzagavano attorno alla pupilla. Uno sguardo
austero, penetrante. Lo sguardo di chi è abituato a comandare. Ma anche un’ombra
più scura, che non riusciva a definire. Poi, alcuni segni sul volto, graffi
rosati, forse tatuaggi, e una mezzaluna in fronte, seminascosta da una frangia
del colore della luna.
“Perché mi appartiene”. Di nuovo quella voce. Quella voce
dannatamente inebriante. Ma la risposta non le piacque.
“Ti appartiene?”. Alessandra
fremeva di rabbia, di sdegno. “E chi lo ha deciso? Tu?”
Sesshomaru
ne fu sorpreso, anche se non lo diede a vedere. Non solo quella ragazza lo
guardava negli occhi senza paura, ma gli rispondeva a tono anche. Se escludeva Rin, finora tutte le persone che
aveva incontrato o erano morte per avergli mancato di rispetto o si erano
gettate strisciando e implorando pietà ai suoi piedi. O lo avevano riverito,
prostrate a terra. Quella ragazza, invece, non aveva intenzione né di piegarsi
né di portargli rispetto. E la cosa lo irritava parecchio.
“E se anche fosse?” lo sibilò
appena, avvicinandosi pericolosamente ad Alessandra che dovette reclinare un
po’ la testa per poter continuare a guardarlo in viso.
“Non ne hai alcun diritto”.
Una mano artigliata chiusa
intorno alla sua gola, il peso di quel ragazzo pronto a soffocarla e un tronco
a immobilizzarla. Era successo tutto in una frazione di secondo. E adesso,
Alessandra si trovava nei guai. Ma non lo aveva ancora capito. L’unico pensiero
che la sua mente riusciva a formulare era che quel ragazzo non era umano. Non
lo era.
Si ricordò in un lampo della
parola con cui Rin lo aveva
definito. L’elaborò nella sua mente, la ricostruì e ne riesumò il significato
da un luogo nascosto della memoria.
Youkai…Demone…Questo
ragazzo è un demone…non è possibile…
Sesshomaru
intanto continuava a guardarla negli occhi. Occhi spenti, vuoti, tristi, ma che
non avevano la minima paura. Anche adesso che la sua vita era in pericolo, che
gli sarebbe bastata una leggera pressione delle dita per staccarle la testa.
Non aveva paura.
Perché?
Un rumore di passi lo costrinse a
voltarsi verso la boscaglia, da cui uscì la piccola Rin, per poi correre ad abbracciare Sesshomaru. Il demone la guardò,
inespressivo, e la bambina gli regalò uno dei suoi soliti splendidi sorrisi,
capaci di intenerire anche lui. Sospirò mentalmente. Stava bene. Ma una piccola
punizione non l’avrebbe evitata. Doveva imparare che poteva essere pericoloso
andarsene in giro da sola.
“Preparati” le aveva detto calmo,
e mentre Rin si era
allontanata per andare a prendere qualcosa nella caverna dove aveva dormito, Sesshomaru si era girato
nuovamente verso Alessandra, avvicinando pericolosamente i loro visi.
“Per questa volta, vivrai. Ma la
prossima…”.
Le sussurrò all’orecchio,
lasciando volutamente la frase in sospeso e ritrasse la mano. Libera da quella
morsa, Alessandra si accasciò a terra, nella neve fresca, senza un gemito.
Sembrava che la sua anima si fosse staccata da lei. Sesshomaru la guardò ancora per un istante, poi si
voltò facendo frusciare la veste e sparì veloce e lieve come era venuto.
Un demone…Quello era un demone…Com’è possibile?...
Allo stupore si sostituì la
rabbia per la minaccia fattale, ma poi, ripensando al suo volto e i suoi occhi
lo sguardo di Alessandra si addolcì, senza che neanche lei se ne accorgesse. Le
avevano sempre detto che gli occhi sono lo specchio dell’anima. E gli occhi di
quel ragazzo nascondevano qualcosa. E lei si sorprese a desiderare si sapere
cosa. Scosse la testa. Doveva essere impazzita. Conseguenza dello shock.
Tuttavia, Alessandra sapeva una
cosa. Nonostante tutto, non le avevano fatto paura. Sembravano piuttosto
gridare aiuto. Un grido che però era soffocato. Pensò di essersi sbagliata. Un
essere simile non avrebbe mai potuto gridare aiuto. Anzi, essere triste.
Eppure…Anche se la sua mente le
diceva di non pensarci più, nel profondo del suo cuore voleva crederci…Perché,
anche se non lo avrebbe mai ammesso, sperava di aver trovato qualcuno capace di
capire anche il suo dolore.