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Autore: WhiteWinterLady    23/05/2012    0 recensioni
C’è stato un tempo, quando ero piccolo, in cui ho creduto nella magia e temuto il mistero. Come abbia iniziato, proprio non lo so; credo sia una capacità innata dei bambini, quella di fantasticare. Io però sono convinto di non aver sognato tutto: il grosso segreto rinchiuso nel mio cuore non può essere solo il frutto di una fervida immaginazione. Ho sempre scartato questa opzione, per cui ecco la mia storia.
Quando vidi quella donna, la mia infanzia morì all’improvviso.
Accadde tutto un pomeriggio d’inverno.
Genere: Generale, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Questa è una storia da assaporare nel silenzio di un attimo di pace. Fermate il tempo e leggete con lentezza. Se saprete guardare nel profondo, potrà sorprendervi. Se rimarrete in superficie, resterà solo una banalissima storia.]

C’è stato un tempo, quando ero piccolo, in cui ho creduto nella magia e temuto il mistero. Come abbia iniziato, proprio non lo so; credo sia una capacità innata dei bambini, quella di fantasticare. Io però sono convinto di non aver sognato tutto: il grosso segreto rinchiuso nel mio cuore non può essere solo il frutto di una fervida immaginazione. Ho sempre scartato questa opzione, per cui ecco la mia storia.

Quando vidi quella donna, la mia infanzia morì all’improvviso.

Accadde tutto un pomeriggio d’inverno.

Era novembre inoltrato e i primi fiocchi di neve danzavano nell’aria gelida. Io, con la mia vivacità di bambino, ero uscito di casa e ballavo con loro. Volteggiavano leggeri, al ritmo di una musica silenziosa, rotta soltanto dalle mie risate.

Tutt’a un tratto, la notai.

Era una ragazza giovane e snella, con dei lunghi boccoli corvini ad incorniciarle il viso pallido e caldo. Stava immobile sotto la neve, trascurando l’ombrello rosso che teneva piantato nel manto bianco, come la passione che trafigge l’innocenza; sembrava aspettare qualcosa, lì, all’ombra della stazione del paese.

Non credo di aver mai incontrato una creatura più sublime e, nella mia ingenuità, mi convinsi di essermene innamorato.

Ogni giorno, puntualmente, precisamente dalle quattro e cinque alle quattro e un quarto, la donna compariva in stazione, per poi sparire.

Ogni giorno, io mi affacciavo alla finestra, da cui potevo osservarla indisturbato, e assaporavo i dieci minuti più dolci della mia breve esistenza.

Era sempre incantevole, con lo stesso cappotto blu, con lo stesso ombrello rosso, e le sue braccia, mi accorsi in seguito, erano piene di qualcosa, uno strano pacchetto forse. Ma più di tutto il resto, dalla mia postazione dietro la tenda, notai un sorriso magnifico dipinto sul candido volto, come in uno stato di perenne felicità. Non so perché, ma quando la vedevo così ero felice anch’io; e più mi cibavo delle sue labbra, più cresceva il desiderio di accostarmi a lei e parlarle. Così, senza nemmeno pensarci troppo, un pomeriggio andai in stazione, quasi correndo, e, con l’espressione più innocente che riuscii a trovare, mi misi accanto a lei, guardandomi intorno, lanciandole fugaci occhiate. Da vicino era ancora più bella; da togliere il respiro. La neve, che le cadeva sui capelli, li faceva brillare e non sembrava darle alcun fastidio. Io, invece, tremavo dal freddo come una foglia, ma non volevo tornare a casa. Volevo restare lì a respirarla ancora un po’. Tra non molto le quattro e un quarto sarebbero arrivate portandosela via di nuovo... Chissà dove...

Incantato com’ero sulle mie riflessioni, attirai la sua attenzione.

Mi regalò un sorriso da scaldare il petto. Non riuscivo a crederci: era tutto per me!

In un attimo traboccai di imbarazzo e gratitudine, tanto che non capii più come muovermi. Abbassai la testa e mi concentrai sulle punte delle scarpe, ma non prima di aver posato fugacemente lo sguardo su quanto aveva in mano: un libro. Scorsi velocemente il titolo: Neve. Non avrebbe potuto fare una scelta migliore. Fu da quel piccolo particolare, così semplice e ben assortito, che il coraggio spinse la curiosità a farsi avanti.

“Cosa aspetti?”, chiesi con voce acuta.

Lei si girò di nuovo verso di me e sorridente parlò. Aveva una voce pura e cristallina, dal sapore di neve.

“Aspetto che il mio sogno venga a prendermi”.

Non disse altro, e io nemmeno.

Non tornai più in stazione da lei. Mi accontentavo di vederla da lontano, una macchia avvolta dal candore.

Mi aveva donato la sua felicità, e a me bastava. Il desidero irrefrenabile di raggiungerla rimase, ma le gambe erano come paralizzate. Finché un bruttissimo bel giorno, una bufera che appannava l’aria, i vetri e la vista mi impedì di osservarla dalla finestra.

Il panico prese il sopravvento. Dovevo assolutamente vederla, a tutti i costi. Non potevo perdere il mio giornaliero rituale, l’unica occasione per stare con lei, almeno con lo sguardo. Non volevo che la magia finisse, per cui schiacciai la faccia contro il vetro pur di distinguere qualcosa: solo una macchia blu, immobile come al solito. Poi però un’ombra scura come la pece si avvicinò, la toccò, la colpì, gettandola a terra.

Dopo, il nulla. Furono gli attimi più brutti che io ricordi; la disperazione mi stava facendo impazzire: l’unica soluzione che trovai fu uscire, indifferente ai richiami di mia madre, e andare a controllare se la Bianca Dama d’Inverno fosse ancora lì. Aveva bisogno di me, del mio aiuto.

Non c’era più. Gli unici suoi ricordi erano le orme degli stivali e della punta dell’ombrello, coperti in parte da un piccolo fazzoletto bianco, sul lato del quale compariva una goccia rossa. “Sangue!”, urlò la mia mente, mentre, una volta raccolto, strofinavo nervosamente un dito sulla lettera ricamata in un angolo: S. Ero così confuso che quasi non mi accorsi di altre macchie rosse sulla neve, rose scarlatte su un prato bianco, che componevano una frase.

“Il mio sogno non è più venuto a prendermi”.

Da quel giorno, non la rividi più.

  
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