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Autore: WhiteWinterLady    23/05/2012    0 recensioni
Sono un soldato della patria. Morto per la mia gente e la terra in cui sono nato, cresciuto e ora giaccio sepolto; vago solo tra queste montagne da troppo tempo, senza pace. Quale sia il mio nome, non lo so più: la morte lo trascinò via con sé nelle viscere del nulla, per sempre. Né la memoria mia né quella degli altri ne serbano ormai un ricordo. Ma, la mia storia, no, non la posso dimenticare. Ed ora è giunto il momento di raccontare quel che mi accadde. Quel che ci accadde.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono un soldato della patria. Morto per la mia gente e la terra in cui sono nato, cresciuto e ora giaccio sepolto; vago solo tra queste montagne da troppo tempo, senza pace. Quale sia il mio nome, non lo so più: la morte lo trascinò via con sé nelle viscere del nulla, per sempre. Né la memoria mia né quella degli altri ne serbano ormai un ricordo. Ma, la mia storia, no, non la posso dimenticare. Ed ora è giunto il momento di raccontare quel che mi accadde. Quel che ci accadde.

L’alba di settembre pungeva la pelle come tanti piccoli spilli, ragione per cui si dormiva tutti appiccicati, quasi fosse già inverno, scaldandosi a vicenda; nelle casette sparse per le piccole vallate, gli abitanti si stavano destando dai letti, rabbrividendo al contatto con l’aria fredda, pronti per il nuovo giorno, consapevoli che là fuori altri avevano vegliato per l’intera notte su tutti loro: gli attacchi sarebbero potuti arrivare in qualsiasi momento.

Io ero fra di loro.

Avvolto in mille coperte insieme ad una manciata di compagni, tremando nel gelo più assoluto, difeso dal fitto del bosco, non avevo staccato un attimo gli occhi da quei cani bastardi accampati comodamente in vecchie abitazioni disabitate – forzatamente disabitate – e, non appena li vedemmo organizzarsi per una delle loro solite visite di cortesia, mi mandarono ad avvisare quanta più gente potevo. Corsi come una freccia lungo sentieri serpeggianti che solo noi conoscevamo, completamente fiducioso della protezione degli alberi.

In men che non si dica raggiunsi il mio paese, quello più vicino. La mia prima preoccupazione fu di mettere in allarme mia madre, poco più che una giovane donna, e i miei fratelli - che io ricordi erano sette. Mio padre era deceduto l’anno prima sotto una pioggia di pallottole, e io, il maggiore dei figli, ero diventato l’uomo di casa. Mi astenni, tuttavia, dal compiere un atto tanto egoistico nella situazione di pericolo in cui eravamo coinvolti tutti, nessuno escluso, e mi affrettai a bussare alla prima mezza dozzina di porte, esclamando concitato: “Presto, stanno arrivando. Andate tutti in chiesa, forza! Tutti in chiesa!”.

Vidi mamme, vedove, anziani, neonati e bambini più grandi sfilare in fretta, ma senza il minimo rumore, per la strada più ampia, giù fino alla chiesa, dove il parroco già li attendeva. Ci erano abituati, ormai. Degli uomini invece (di quei pochi che erano rimasti al villaggio) nessuna traccia: a quest’ora erano già dispersi nella boscaglia, le armi alla mano.

Non persi tempo ad avvertire tutti, lasciai che il passaparola si spargesse spontaneamente. Per un minuscolo secondo riuscii ad incrociare mia madre, con in braccio la figlia più piccola; aveva solo quattro mesi. “Sta’ attento”, mi supplicò. La rassicurai con un bacio sulla guancia.

Schizzai poi lungo il declivio, mosso da un altro pensiero, persino più potente, come se fossi stato colpito da un fulmine: Anna.

Quando raggiunsi il suo paesetto, si stavano già tutti mobilitando. Sapevo che dovevo sbrigarmi, il tempo stringeva, ma non mi sarei dato pace finché non avessi incontrato Anna. Finalmente la intravidi; al braccio sosteneva il nonno, che a stento riusciva a camminare. Non appena incrociò il mio sguardo, chiamò la sorella maggiore affinché sostenesse l’anziano, poi mi strinse forte.

“Non mi lasciare, ti prego. Sto impazzendo di paura”.

“Se fosse per me, non ti abbandonerei un solo istante; ma vedrai, andrà tutto bene”. Dovetti costringerla a guardarmi negli occhi per convincerla di quel che dicevo. “Raggiungi gli altri in chiesa, coraggio, sarete al sicuro lì. Non vi faranno niente, come le altre volte”.

Fui orgoglioso della donna fiera e valorosa che mi baciò piano per l’ultima volta, prima di venire inghiottita dalla folla sempre più densa. Io, invece, raggiunsi gli altri nel bosco, già in posizione tra le piante. Là di certo i nemici non si sarebbero avventurati.

Qualcosa, però, andò storto quella mattina, così come nelle seguenti, per diversi giorni.

Ai tedeschi non interessarono gli uomini della resistenza, non cercarono di scovare i veri piantagrane, coloro che da mesi mettevano loro i bastoni tra le ruote. Non diedero la caccia a noi, i ribelli delle montagne. Se la presero con la povera gente, con gli indifesi. Con gli innocenti.

A frotte, donne e bambini, giovani e vecchi, malati o mutilati che fossero, furono costretti a marciare, accalcati tra loro, tra grida di protesta e pianti disperati, minacciati dai fucili che i soldati, sbraitando furiosi nella loro lingua incomprensibile, brandivano puntati contro le schiene o le teste. Chi tentava di scappare, nel vano tentativo di mettersi in salvo, si beccava una pallottola tra le scapole senza nessun indugio.

I più vennero ammassati nel cimitero, il luogo chiuso più spazioso nei dintorni. Tutti gli altri furono rinchiusi nella chiesa o nelle case più grandi, lì dove si erano rifugiati: li fecero saltare in aria con le bombe a mano.

Coperto dalle frasche, io osservavo tutto dall’alto, impotente, schiumante di rabbia, insieme ai miei compagni; ma non resistetti a lungo: dovevo seguirli. Dovevo vedere che ne sarebbe stato di mia madre, dei miei fratelli. Di Anna. Prima mi ordinarono di rimanere fermo dove ero, poi mi supplicarono di restare; era una follia, mi dissero. Non diedi ascolto a nessuno.

Da solo, più veloce di un lampo, percorsi i sentieri che portavano al cimitero. Quando lo raggiunsi, tenendomi ad una certa distanza, notai che i tedeschi avevano già posizionato le mitragliatrici a terra, inclinate quel tanto che bastava ad uccidere i bambini, schierati, su loro ordine, davanti agli adulti, i quali stavano appiccicati gli uni agli altri, chi pregando, chi piangendo, chi maledicendo quei cani invasori; le schiene di coloro che erano in fondo erano schiacciate contro il muro che delimitava il camposanto, senza via di scampo.

C’era anche Anna. C’era anche mia madre, le braccia che cingevano le spalle della mia sorellina di sette anni.

I soldati si erano disposti a semicerchio e ora attendevano con le pance a terra, rigidi, freddi e duri come pietra, che il comandante, in piedi dietro di loro, desse il segnale. Un altro uomo, però, era presente. Un uomo normale, un civile, non un militare, fermo al fianco dell’alto ufficiale, avvolto in un doppiopetto scuro senza nessun grado a decorarlo. Non si poteva scorgere nulla del volto, perché l’ombra che il cappello ben calcato sul capo proiettava lo nascondeva. Fumava una sigaretta in completa tranquillità.

Stavo delirando per l’angoscia, consapevole di essere incapace di fare alcunché per aiutarli, per proteggerli tutti, dal primo all’ultimo. Desideravo sottrarli dalle fauci di quei mostri senz’anima. Ma che potevo fare, io, da solo? Niente, niente... Se non starmene lì a guardare con gli occhi velati di lacrime di sale e d’ira.

Anna, mio amore, avevo promesso di sposarti non appena questa stupida guerra fosse finita. Anna... Non te ne andare proprio adesso, non mi lasciare. Anna, potrò mai ritrovarti?

Ci fu un attimo di teso silenzio – la quiete prima della tempesta – prima che tutto avesse inizio e ponesse fine alla vita di centinaia di persone, colpevoli solo di aver avuto la sfortuna di incappare in quella gente priva di umanità.

Intanto l’uomo in abito scuro aveva terminato la sigaretta.

Nell’istante esatto in cui il mozzicone toccò l’erba, la raffica di proiettili partì. Il mio grido di dolore si confuse con il frastuono degli spari. Credetti di essere morto anche io con loro, che il mio cuore straziato avesse cessato di battere, ma non fu così, non ancora.

Passarono ore di tormento – che a me sembrarono anni, sembrarono secoli – ma i tedeschi ancora non se n’erano andati. No, non potevano andarsene sul più bello, proprio ora che si stavano divertendo. Perché c’erano dei sopravvissuti – sì, c’erano! –, c’era qualcuno che era rimasto soltanto ferito dalla scarica delle mitragliatrici e che agognava per il dolore. Li abbatterono tutti, quasi fosse un gioco, con un colpo di pistola ciascuno.

Ricordo ancora che, tremante fin nelle ossa, vomitai per l’orrore e la crudeltà di cui il genere umano è capace, sempre se di esseri umani si può parlare. Ma la speranza, sebbene vacillante, non mi abbandonò: c’era ancora la possibilità di trovare qualcuno vivo, sotto tutti quei cadaveri. Forse era svenuto a causa delle ferite, forse fingeva di essere morto e attendeva solo di essere salvato. Io l’avrei salvato, ero pronto a qualsiasi cosa.

Attesi. Attesi non so quanto. Poi, quando la strada fu libera, decisi di muovermi, costringendo le gambe molli a correre. Non mi accorsi, però, di due soldati nascosti nella penombra del cimitero.

“Alt! Alt!”, mi intimarono, i fucili pronti a fare fuoco. Non diedi loro retta e continuai la corsa.

Alt!”, fu l’ultimo avvertimento, dopodiché mi spararono.

Caddi riverso a terra, stringendomi forte il braccio sanguinante, smorzando i gemiti di dolore a denti stretti. “Maledetti bastardi”, sibilai.

I due mi vennero incontro, mi sovrastarono ghignanti. Uno di loro prese ad inveire contro di me in tedesco; non capii una parola, ma era chiaro che mi stesse insultando. Poi mi puntò la canna della sua arma al petto. Senza più un briciolo di paura, lo guardai dritto negli occhi, sfidandolo, ma con mia somma sorpresa l’altro soldato lo fermò con un gesto risoluto della mano; probabilmente doveva essere un suo superiore, perché non ci furono proteste. Si scambiarono qualche parola farfugliante, dopodiché si dedicarono nuovamente a me, con sguardo famelico.

Compresi che i gatti volevano giocare ancora un po’ col topo prima di farlo fuori. Ebbene, non glielo permisi.

Non mi avrete mai, mai!

Mi avventai su quello più vicino, il soldato semplice, immobilizzandogli un braccio e facendo cadere il fucile, e, nello stesso tempo, mi feci scudo col suo corpo. L’altro tedesco urlò una sequenza di ordini a cui non diedi alcun peso, ma capii dal suo atteggiamento che non avrebbe esitato a sparare al militare pur di farmi crepare. Così afferrai la granata che, notai, penzolava alla cintura del mio ostaggio, strappai la linguetta e li portai via con me.

Nella valle echeggiò il boato dell’esplosione.

 

Sono un soldato della patria, morto per i miei cari e per amore della vita, che nessuno, nessuno, può portare via ad un uomo. Giaccio sepolto nella terra, all’ombra di una lapide senza nome. Il mio spirito errante vaga per i monti senza requie né compagnia e canta insieme al vento la sua storia per coloro che ancora vivono, affinché ricordino che la guerra non è mai la scelta giusta.

Strage di Marzabotto, 29 settembre 1944/5 ottobre 1944

  
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