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Autore: WhiteWinterLady    23/05/2012    0 recensioni
Consiglio: leggere prima "Mi chiamavano Infinito"
"Quando mia madre stava per morire, logorata fin nell’anima, rivelò, nel momento estremo, il nome di mio padre: dopo venticinque lunghissimi anni, il genitore mancante e mancato aveva finalmente acquisito un’identità.
In un lampo, fui spettatrice di un film le cui sequenze si ripetevano di continuo, da sempre, nella mia mente: all’asilo, una bambina che disegna un uomo ogni giorno, sempre diverso, perché non l’ha mai visto; una volta moro, un’altra biondo; una volta alto, un’altra basso; addirittura calvo con dei baffoni, poco importa: permane comunque in lei il desiderio di incontrare chi non l’ha voluta."
Genere: Drammatico, Generale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando mia madre stava per morire, logorata fin nell’anima, rivelò, nel momento estremo, il nome di mio padre: dopo venticinque lunghissimi anni, il genitore mancante e mancato aveva finalmente acquisito un’identità.

In un lampo, fui spettatrice di un film le cui sequenze si ripetevano di continuo, da sempre, nella mia mente: all’asilo, una bambina che disegna un uomo ogni giorno, sempre diverso, perché non l’ha mai visto; una volta moro, un’altra biondo; una volta alto, un’altra basso; addirittura calvo con dei baffoni, poco importa: permane comunque in lei il desiderio di incontrare chi non l’ha voluta.

Forse per questo motivo sono diventata ritrattista: cercavo disperatamente nei volti altrui un indizio che mi segnalasse la sua presenza.

A scuola i compagni di classe in qualche modo trovavano divertente che io non conoscessi uno dei miei genitori. Ogni occasione era buona per rivolgermi delle domande come: “Come si chiama tuo papà?”, “Perché non ti viene mai a prendere?”, “Tu conosci il mio, perché non mi presenti il tuo?”. Per quanto riguarda le risposte, erano una negazione dopo l’altra. Ma sebbene tutti conoscessero come stavano le cose, lo scherno non aveva freni.

“Ma tuo papà è in paradiso?”

“No, mio papà è vivo!”

“Come fai a dirlo, se nemmeno lo conosci?”

“Lo so e basta, chiaro? Mio padre non è morto. Solo non so dove sia...”

Che non lo conoscessi, però, in parte era una bugia. Ogni sera, prima di addormentarmi, alla mamma piaceva raccontarmi qualcosa di lui. Piccole cose, come il suo piatto preferito, lo sport che odiava, oppure una manciata di episodi esilaranti. Immagino che in qualche modo sperasse che potessi incontrarlo almeno nel mondo dei sogni, che avvertissi la sua presenza, seppur in uno modo strano. I miei sogni, che io ricordi, durante l’infanzia erano sempre bellissimi, ma velati di infinita tristezza: un uomo di cui non scorgevo il viso mi incontrava ogni notte, tenendomi per mano mentre passeggiavamo lungo un viale colorato d’autunno; oppure ridendo con me in un parco giochi; o, ancora, mi rimboccava le coperte prima di dormire e mi leggeva una favola o parlava di sé. Ma il momento che più preferivo in assoluto era quando mi dava un bacio delicato sui capelli e con voce piacevolmente dolce sussurrava “Ti voglio bene...”.

Si potrebbe dire che avrei dormito in eterno, se ne fossi stata capace. Il risveglio svelava i miei incubi peggiori.

Odiavo la scuola con tutta me stessa. Odiavo quegli stupidi bambini che si prendevano gioco di me. Mi lasciavano sola: io non chiedevo niente di meglio, però sembrava assurdo, mettevo loro soggezione. Persino le maestre erano intimorite dalla bambina minuta, quasi invisibile in mezzo a tutti gli altri, con gli occhi profondi più dell’abisso. Uno sguardo e chiunque ammutoliva.

È così che sono cresciuta: derisa, in solitudine, sostenuta da una speranza che non moriva ma che ammazzava un poco me.

Parola mia, un essere umano dovrebbe almeno una volta nella propria vita provare cosa significhi la solitudine: ci penserebbe due volte a farsi beffe del dolore altrui. Perché non c’è niente di più penetrante che sentire il disprezzo negli occhi di chi ti sta di fronte.

La ricerca di mio padre tutto sommato fu veramente semplice. Una volta saputo il nome, scoprii che era molto famoso. Schifosamente famoso: riviste e televisione non potevano fare a meno di parlare di lui. Non sopportavo di averlo avuto sotto gli occhi per tutto quel tempo.

Trovare dove abitava fu ancora più facile: un posto di lusso, ovviamente, vista la sua fama. Mi ci diressi una giornata di primavera, con le tasche piene e la testa come sgombra, occupata solo dal discorso che avrei dovuto fargli, in cui ogni parola aveva la sua misura.

Alla reception, come immaginavo, nessuno mi diede fastidio: il mio aspetto me lo consentiva. Appartenevo, a modo mio, a quella ristretta categorie di persone che riescono con un sorriso ad abbattere qualsiasi barriera; era raro che mi fermassero per accertare la mia identità, tanto meno per chiedermi dei documenti. Dal canto mio, non avevo bisogno di cercare informazioni su dove alloggiasse mio padre: potevo ben intuire dove lo avessero collocato. Dunque presi decisa le scale. Ad ogni gradino si accavallavano in me le immagini della mia infanzia spezzata, del volto di mia madre segnato dai ricordi; le facce di tanti uomini fittizi, elaborati di fantasia; gli sguardi spaventati, eppure affascinati, degli adulti al solo vedermi, prima quando ero bambina, poi da adolescente e ora da giovane donna. Nonostante sia passato, il tempo non ha cambiato quegli occhi distanti, così come non ha agito sul mio corpo.

Salii le scale balzando sui gradini, senza nemmeno fermarmi per riprendere fiato. Avevo fretta, me lo si leggeva in faccia. Fretta di vederlo, fretta di dirgli quello che avevo seppellito nel cuore, fretta di arrivare da lui e mostrargli che io c’ero, che esistevo. Giunta al pianerottolo del terzo piano, però, ebbi un attimo di esitazione: non ero certa di aver preso la strada giusta. Vagai con lo sguardo in cerca di qualche indicazione utile, un cartello, un segnale, un punto di riferimento.

Un’infermiera mi osservava poco distante. Sentii la sua attenzione pungermi la nuca, ma non me ne curai; speravo mi lasciasse in pace e si allontanasse. Mi sbagliavo.

“Cosa cerchi, bella bimba?”

Non mi sorpresi dell’appellativo, ci ero abituata. Come ho già detto, il mio corpo non è mutato nel tempo.

Improvvisai. “La mia nonna dovrebbe essere qui, ma non la trovo.” Il tono innocente da bambina mascherava alla perfezione la bugia. Sapevo benissimo che, se avessi rivelato il nome del paziente che realmente mi interessava, non mi avrebbero mai condotto a lui. Peggio, se avessi confessato che era mio padre, in un primo momento mi avrebbero presa per pazza, dopodiché, in seguito a opportuni esami, avrebbero fatto di me una cavia da laboratorio, proprio come lui. Meglio tenere la bocca chiusa.

L’infermiera mi sorrise. “Cosa è successo alla tua nonna? Ah, sì, ora ho capito. Deve essere quell’anziana signora che hanno portato ieri. È caduta dalle scale, vero?”.

Senza nemmeno sapere chi stesse menzionando, annuii abbondantemente con la testa.

“Bene, allora per raggiungerla devi prendere quel corridoio, poi arrivata in fondo devi svoltare a destra e salire i gradini per due rampe. Ti troverai davanti due porte; oltrepassa quella a sinistra”. Finito di darmi istruzioni, parve accorgersi che in fondo ero solo una bambina. “Vuoi che ti accompagni?”, mi chiese.

“No, grazie”, risposi lesta.

Liberatami della donna col camice bianco, proseguii la mia personale esplorazione della clinica. Salii e discesi le scale più di una volta, affacciandomi spesso in stanze linde, di un candore quasi nauseante. Pensai di aver girato tutto l’edificio, quel giorno, ma ancora non ero riuscita a scovare l’alloggio del mio vecchio, sempre se di anzianità si può parlare, nel suo caso. Finché, all’improvviso, mi accorsi di un corridoio isolato e deserto, immerso nel silenzio; e, in fondo al corridoio, una porta.

Dovevo esserci vicina. Avanzai piano, un passo alla volta; l’eccitazione che prima mi aveva fatto correre all’impazzata ora mi aveva paralizzato. Il cuore non faceva che torturarsi sotto le costole.

L’eco dei piccoli tacchi sul pavimento risuonava nello spazio ristretto. Un piede avanti, poi ancora uno, e un altro, e un altro... I polmoni non pompavano più l’aria regolarmente, avevo il respiro mozzo. E quella maledetta porta sembrava ancora così distante...

La raggiunsi, finalmente. Abbassai piano la maniglia e...

Mi si spalancò davanti una stanza inondata di luce, molto più ampia delle altre della clinica. Il fondo assumeva una forma più circolare ed era completamente composta da finestre: ecco da dove poteva filtrare tutto quel sole. Poche tende ne schermavano i vetri.

In ogni angolo, fiori a centinaia, che accendevano di colore le pareti bianche: era diffusa nell’atmosfera una fragranza dolce e malinconica.

Per il resto, la camera era arredata con pochi oggetti: un letto semplice; un tavolo in legno scuro, il cui lato era accostato alle vetrate, accompagnato da un paio di sedie. Il tutto era completato da un piccolo armadio, nel quale immaginai dovevano essere concentrati tutti i beni dell’inquilino: non notai traccia di disordine.

Non c’erano specchi né orologi.

E infine, con il fianco appoggiato a una finestra, il viso rivolto all’esterno, per metà accarezzato dalla luce e metà avvolto nell’ombra, c’era lui. Mio padre. Victor Larentz. Il Signor Infinito.

Mi ero documentata in fretta sul suo conto, una volta che mia madre ne aveva rivelato il nome. Victor Larentz era quello che si direbbe – a scelta – un miracolo del Cielo o un abominio della natura. Il suo DNA era lo scrigno che racchiudeva il segreto dell’immortalità; la scienza non mente, io ne ero la prova. Eravamo della stessa pasta.

Anche io non invecchiavo.

Victor si accorse della mia presenza, trovando una via d’uscita momentanea dalla foresta dei suoi demoni. Girò la testa piano e sorrise. Un sorriso meraviglioso, più brillante del sole, che donava splendore a tutta la sua figura: ne ammirai il volto, seducente grazie alla barba corta e ben curata, senza la quale la pelle sarebbe stata liscia e morbida. Avevo letto che la sua età effettiva avrebbe dovuto essere quella di un anziano pensionato, probabilmente non autosufficiente e costretto in un ospizio. Non so perché mi meravigliai tanto della sua giovinezza: in fondo, subivamo la stessa condanna; avevo visto il mio corpo non cambiare. Tuttavia, normale o no, era un uomo affascinante, per non dire bello.

Quello che più mi sorprese, però, furono i suoi occhi vuoti: mancava loro quella scintilla che fa di un essere umano una creatura viva, presente. Come se fossero incapaci di percepire la bellezza e i colori. Come se fossero sempre altrove.

Credo che non mi volesse mettere soggezione quando mi rivolse la parola, sussurrando dolcemente: “Ehi, piccola, ti sei persa?”

Trasalii. Il suono della suo voce era una così piacevole armonia... Bassa e profonda, eppure così delicata, proprio come l’avevo sognata.

D’istinto misi la mano in tasca, quella tasca così piena e pesante, e ne strinsi il contenuto. Andava fatto, era così e basta.

Vedendomi indietreggiare, mio padre si affrettò a rassicurarmi. “No, no... Non aver paura, non sono mica un... mostro.” Sentii una nota di tristezza quando esitò: in quella parola ne erano nascoste molte altre.

“Come ti chiami?”, chiese immediatamente dopo, per trattenermi ancora lì. Evidentemente non riceveva molte visite.

Obbligai la lingua a sciogliersi, per poter rispondere. “Isabel”, mormorai sottovoce.

Non so come, ma sentirmi fiatare mi restituì un po’ di vigore; così proseguii decisa: “Sono tua figlia”.

La bocca di Victor, spiazzato dalla sorpresa, si schiuse piano. Ragionò alla velocità della luce, nel tentativo di trovare senso a quello che aveva appena udito. Mi scrutava, aggrottando leggermente le sopracciglia. Indagava i miei lineamenti, fece un conto della mia età, esaminò non so quali particolari. Sebbene non leggessi nella mente, avvertii il pensiero che gli risuonava in testa: è possibile? Alla fine capii che la risposta doveva essere sì!, perché le labbra si stesero in un sorriso raggiante, le ciglia si erano inumidite di lacrime, un sospiro dai mille significati gli sfuggì tra i denti. Ma, più importante di tutti, gli occhi rinnovarono quella scintilla che da tempo si era dissolta.

“Mia figlia...”

Solo questo gli concessi. La gioia di aver ritrovato una cosa senza nemmeno sapere di averla persa. La certezza che la propria esistenza fosse valsa qualcosa di buono. Il dolce dolore che certe volte le cose belle regalano. La sensazione di essere tornato a vivere.

Poi vuotai la mia tasca pesante e premetti il grilletto.

Bastò uno sparo per spegnergli per sempre la vita.

  
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