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Autore: Mary P_Stark    24/05/2012    2 recensioni
Cosa potrebbe succedere, se l'Araba Fenice tornasse a vivere ai giorni nostri? Se camminasse come un comune essere umano, sconosciuto ai più e per nulla riconoscibile ai nostri occhi? La storia di Joy è la storia delle molte vite di Fenice che, con i suoi poteri, tenta a ogni rinascita di portare il Bene e l'Amore nel mondo. Ma può, l'amore vero e Unico, toccare una creatura come lei che, da sempre, non vi si può abbandonare poiché votata solo all'altrui benessere? Sarà Morgan a far scoprire a Joy quanto, anche una creatura immortale come lei, può cedere al calore dell'amore, facendole perdere di vista il suo essere Fenice.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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33.
 


 
L’aria era già rovente, nonostante fosse solo maggio.

Sembrava quasi di aver aperto per sbaglio un forno acceso, e di avervi immerso il volto.

Il profumo, però, era quello di sempre. Se non davo peso allo smog, ovviamente.

L’odore del creosoto si mescolava a quello dei gas combusti ma, sotto quella miscellanea poco gradevole, potei comunque avvertire gli aromi a me cari.

E il sole.

Lì, a picco su quella terra apparentemente arida e inospitale, sembrava più caldo, più vivo, più vicino, e io mi sentii rinvigorire.

Non che non apprezzassi L.C., ma l’Oregon era davvero troppo umido per una creatura di fuoco come me.

Ma tant’era, lì ero arsa e rinata, lì avevo trovato le persone a me più care e il mio unico amore.

Non mi sarei mai e poi mai lagnata di qualche nebbiolina di troppo, o di un acquazzone in più.

Bagagli alla mano e sguardo puntato verso l’uscita del terminal, lanciai un’occhiata in direzione di Morgan.

Stava fittamente parlando in spagnolo con quella che, apparentemente, sembrava essere la cugina.

Già, la cugina.

Quella che aveva scatenato inavvertitamente il mio furore, e che mi aveva spinta a schiaffeggiare l’incolpevole Morgan.

Sarebbe stato oltremodo imbarazzante incontrarla, pur se il disguido era stato chiarito anni e anni prima.

Quando Morgan spense il telefonino per guardarmi in viso, sorrise deliziato – non aveva smesso un attimo, da quando ci eravamo sposati – e mi disse: “Zio Eduardo e mia cugina Ines stanno arrivando. Ci aspettano fuori con l’auto per portarci a casa. I nonni da ambo le parti e la zia, invece, li troveremo là.”

Annuii, sentendomi stranamente a disagio all’idea di incontrare così tanti parenti di Morgan, e tutti in una volta sola.

Non avevo la minima idea di come ci si dovesse comportare in un’eventualità simile perché a conti fatti, in quel particolare frangente, non avevo esperienza alcuna.

Avvertire la sua calma e sì, la sua eccitazione però, mi tranquillizzò un poco.

Morgan non avrebbe potuto essere così pacifico, se i suoi parenti avessero avuto qualcosa da ridire sulla nostra unione, no?

Fenice che aveva più paura di qualche umano, piuttosto che di una Manasa con il dente avvelenato.

Era davvero il colmo.

Preso un gran respiro, afferrai la mano libera di Morgan e, con una convinzione che non sentivo mia, esclamai: “Si va!”

“Non convinceresti nessuno!” ridacchiò lui, stampandomi un bacio sulla fronte prima di avviarsi con me e i trolley verso l’uscita dell’aeroporto.

 




 
 
***





 
L’auto che si fermò nell’apposito parcheggio, destinato ai fruitori dell’aeroporto, era una Ford Taurus azzurro cielo con i vetri oscurati.

Questi, si abbassarono con un sordo ronzio, non appena le figure di Morgan e Joy fecero capolino nelle sue vicinanze.

Il viso abbronzato e circondato da riccioli bruni di Eduardo comparve come per magia, e si affacciò oltre la portiera assieme a un braccio robusto.

Salutati con allegria il nipote e la sua consorte, esclamò estasiato: “Hola, chico! Qué tal1?”

Ridendo spontaneamente – Eduardo aveva sempre preferito parlare spagnolo, in famiglia – Morgan rispose al saluto prima di afferrare la mano dello zio in una stretta forte e familiare.

“Ti sei rammollito, zio. Di solito mi stritolavi almeno due dita.”

Scoppiando in una grassa risata di gola, cui si unì quella più elegante della figlia, seduta sul sedile del passeggero, Eduardo scese dall’auto per abbracciare il nipote.

Con il suo pesante accento messicano, esclamò: “Niņo2, ne passerà ancora, di tempo, prima che tu possa battermi a braccio di ferro, credimi. Ma non stare lì impalato e presentami la tua esposa.”

Scostandosi perché la visuale dello zio fosse migliore, Morgan levò un braccio a indicare Joy, ferma a pochi passi da loro.

Con tono orgoglioso, Morgan asserì: “Zio, lei è Aileen Joy Patterson. Mia moglie.”

Eduardo annuì più volte, compiaciuto di ciò che vide, prima di allungare entrambe le mani, afferrare quelle della ragazza e baciarne i dorsi con eleganza.

“Benvenuta in famiglia, Joy. Morgan mi ha detto che preferisci usare il tuo secondo nome.”

“Grazie del benvenuto. Sì, abbiamo sempre usato Joy” annuì lei, sorridendogli più tranquilla. “E’ un vero piacere fare la vostra conoscenza.”

Nel dirlo, salutò con un sorriso e un cenno del capo la cugina di Morgan, in auto, che le sorrise di rimando.

Ridacchiando nel guardare entrambe le giovani, Eduardo le avvolse le spalle con un braccio per accompagnarla all’auto, mentre Morgan pensava ai bagagli.

Indirizzato un sorriso alla figlia, l’uomo osservò: “Ho saputo del vostro piccolo disguido. Ines ci è rimasta malissimo, al pensiero di averti ferita.”

Arrossendo suo malgrado, Joy salì in auto e replicò: “Mi sono sentita un’idiota, quando ho saputo che eri sua cugina. Inoltre, all’epoca non stavo con Morgan, perciò non avrei comunque dovuto reagire così.”

Allungata una mano verso di lei, Ines scosse il capo e ribatté: “Sono io la sciocca. Ho sempre salutato Morgan così, fin da piccoli, ma non ho mai pensato che, nel farlo, qualcuna avrebbe potuto rimanerci male, non conoscendomi.”

“Acqua passata, Ines” le sorrise Joy, stringendo la sua mano prima di veder comparire al suo fianco Morgan.

“Possiamo andare” dichiarò il giovane, ammiccando alla cugina e aggiungendo: “Allora, Ines, a quanti ragazzi hai spezzato il cuore, dall’ultima volta che ci siamo visti?”

La bellezza bruna si rimise a sedere correttamente, mentre il padre prendeva la via dell’uscita del parcheggio.

Dopo aver rimuginato per un minuto buono, sentenziò: “Dodici. Ma, giuro, non è colpa mia.”

Mentre Joy sgranava gli occhi per la sorpresa, Morgan scoppiò a ridere ed esclamò: “Sì, non è mai colpa tua!”

Eduardo ghignò a quel commento e, a favore della figlia, celiò: “Che ci può fare la mia chica, se è così bella?”

“Grazie papino” sorrise leziosa Ines, prima di scoppiare a ridere.

Avvolte le spalle della moglie con un braccio, Morgan chiosò: “La mia famiglia è tutta così. Delle boriose primedonne che mettono in mostra ciò che il Signore ha dato loro. Nonno e nonna Thomson sono un poco più riservati, ma non più di tanto.”

Joy rise a quel commento mentre Eduardo, attraverso lo specchietto centrale dell’auto, gli lanciava un’occhiataccia di avvertimento.

“Sentitelo, da che pulpito! Ha parlato Mister-Guardate-Che-Fisico-Che-Ho.”

Non potendo fare altro che ridere, Joy appoggiò il capo contro la spalla del marito e sentenziò: “Vi adoro già. Tutti quanti.”

“Ne sono lieto” le sorrise Morgan, dandole un bacio sul capo.
 
***

La villetta dei Thomson era strutturata su un solo piano, dalle pareti color sabbia e con un basso tetto ricoperto di coppi antichizzati color mattone.

Il corto vialetto che conduceva alla porta d’ingresso era in selciato scuro, al pari del camminamento che circondava la casa.

Nel giardino sassoso, alti cactus crescevano rigogliosi, puntando i loro bracci verso l’alto, in direzione del sole cocente.

Ammirando il modo sapiente con cui le piante grasse e le pietre erano state disposte, Joy esalò: “Chi ha fatto questo giardino è un genio. E’ davvero molto bello.”

“Nonno Michael sarà felice di saperlo. L’ha fatto per una vita” le rispose Morgan, prima di scorgere la porta aprirsi per lasciar fuoriuscire il resto della famiglia.

Mentre Eduardo e Ines portavano dentro i bagagli dei due novelli sposi, due coppie di anziani, e una donna statuaria dalla folta chioma corvina, si avvicinarono a loro.

Braccia aperte li accolsero, e  sorrisi solari si dipinsero sui loro volti.

Morgan, lieto di vederli, si avvicinò praticamente ballonzolando sul selciato e, una volta abbracciati i parenti con gioia, si scostò quel tanto per dire: “Lei è mia moglie. Joy.”

Muovendosi per primo, il fisico piegato dai tanti anni passati a lavorare nei giardini ma ancora forte e longilineo, Michael Thomson sorrise alla giovane e dichiarò: “E’ un vero piacere scoprire che mio nipote ha così buon gusto. Scusa se non siamo venuti al matrimonio, ma non abbiamo davvero avuto il tempo di organizzarci.”

“Capisco benissimo, signor Thomson. E’ stata una cosa un po’ frettolosa, ma faremo in modo di rimediare” gli sorrise Joy, già conquistata dagli occhi generosi dell’anziano.

“Chiamami Michael, oppure nonno, come fa il ragazzone che hai sposato” ridacchiò l’uomo, battendole affettuosamente una mano sulla spalla. “Lascia che ti presenti la mia adorata mogliettina.”

Una donna minuta e dal fisico asciutto avanzò nel suo chemisier fiorato, con la stessa classe di una diva degli anni Trenta.

Porgendo una mano dalle unghie laccate di rosso a Joy, disse con calore: “Benvenuta, carissima. Ci ha fatto davvero piacere sapere che sareste venuti.”

“Grazie, davvero” mormorò Joy, avvertendo attorno a sé un’atmosfera davvero piacevole e pacifica.

Arianna, la zia di Morgan, si avvicinò ai genitori, Bernardo e Cora e, dopo aver lasciato che loro si presentassero, si avvicinò per abbracciarla.

Scostandosi poi con un sorriso, la donna la fissò con i penetranti occhi scuri e le accarezzò una guancia, mormorando: “Hai davvero uno sguardo solare e generoso, Joy. Mi piace. E mi piace come ti guarda mio nipote. E’ davvero un ottimo matrimonio, il vostro.”

Morgan ammiccò all’indirizzo della moglie e le disse: “Discendiamo da una famiglia Anazazi, che vissero in queste zone un bel po’ di tempo fa. Il bisnonno di Arianna ed Eduardo era…” voltandosi in direzione della zia, il giovane le chiese: “… com’è che lo chiamate?”

Ridacchiando, Arianna strizzò l’occhio a Joy – che sorrise – e spiegò al nipote: “Un saggio, chico. Non vorrai davvero che mi metta a parlare in antica lingua navajo3, vero?”

“Ti risparmierò, giusto perché sei tu” le concesse Morgan, prima di abbracciarla strettamente e sussurrarle: “Sono felice di rivederti, zia. Davvero tanto.”

“E noi siamo felici di avere voi qui, tesoro.”

Le loro parole non erano solo di circostanza.

La sua presenza lì faceva davvero piacere alle famiglie Thomson e Sanchez, e di questo Joy non poté che esserne lieta.

Con Morgan non aveva voluto esporre i suoi dubbi ma, fin da quando aveva saputo che avrebbe incontrato i suoi nonni e i suoi zii, l’idea di non piacere loro le era serpeggiata nel corpo come un cancro.

Ora, tranquillizzata dalle loro parole e dai loro sorrisi, tutto le apparve sotto un’altra ottica.

Sperava solo che, a L.C., tutto stesse procedendo secondo i piani.
 
***

La pioggia picchiettava feroce contro i vetri di Starbuck.

Il profumo del caffè si espandeva nell’aria, assieme a quello dei pancakes caldi e della torta di mirtilli appena esposta nella vetrinetta del bar.

Oliver osservò pensieroso e ansioso insieme la sua tazza di cappuccino, chiedendosi quando Bharat avrebbe fatto la sua comparsa.

Due giorni prima, come da programma, Consuelo se n’era andata da L.C. in direzione di Portland.

In quel momento, stazionava stabilmente nell’hotel più vicino all’abitazione di Stephen Barrett e consorte,  che si erano presi l’impegno di tenere d’occhio zii, genitori e, per l’appunto, sua moglie.

Poche ore prima, nell’uscire di casa per schiarirsi un po’ le idee in vista dell’incontro con Bharat, Oliver aveva cercato la moglie al cellulare.

L’aveva trovata impegnata assieme a Melinda nella preparazione di una torta alle mandorle che, a quanto pareva, era la preferita di Richard.

Con il padre di Joy, Oliver non aveva ancora del tutto chiarito.

Contava comunque di porvi rimedio, una volta che tutto fosse stato risolto nel migliore dei modi.

Doveva davvero molto a Joy, non da ultimo la sua liberazione dalla tirannia del veleno dei Naga che tanti anni prima, e a sua insaputa, gli era stato inoculato per tenerlo al guinzaglio.

Far pace con Richard, sarebbe stato il primo dei tanti passi che avrebbe dovuto compiere per porre rimedio ai suoi tanti errori.

Per il momento, però, doveva superare questa prova e, pur se non esteriormente, dentro di sé tremava.

Il tintinnio dei campanelli, posti sopra la porta d’entrata dello Starbucks, lo fecero sobbalzare.

Quando i suoi occhi incontrarono un volto a lui familiare, anche se invecchiato, Oliver deglutì a fatica prima di fare segno a Bharat e alla sua accompagnatrice di avvicinarsi.

La donna, dall’aspetto maturo quanto raffinato, era abbigliata con un elegante tailleur rosso fuoco.

Al collo, un pesante collier in oro e smeraldi spiccava sulla sua pelle olivastra mentre i capelli scuri, stretti in un modesto chignon, incorniciavano un volto dai lineamenti duri ma affascinanti.

Gli occhi di gelida ossidiana, però, smentivano completamente l’aspetto idealmente fragile di quella statuaria creatura.

Era più che chiaro chi fosse, tra i due, a tirare le redini della situazione.

Di certo, non Chandra che, al suo fianco, appariva docile come un agnellino.

Levatosi in piedi e sistematosi l’orlo della giacca di tweed che indossava sopra un leggero dolcevita, Oliver allungò una mano in direzione di Bharat.

Cordiale quanto un temporale estivo, esordì: “Non posso certo dire che vederla mi riempia di gioia, specialmente dopo quello che ho saputo.”

Bharat si mostrò vagamente sorpreso di fronte alle sue parole ma, quando lo ebbe osservato per un minuto buono, sorrise sarcastico e celiò: “Vedo bene che il mio scudo è stato rimosso. Non le chiederò neppure da chi.”

“Mi sembra superfluo” ammise Oliver, gettando uno sguardo incuriosito in direzione della donna che, fino a quel momento, non aveva proferito parola.

Il suo sguardo venne ricambiato, un sorriso irritante salì alle labbra carnose della donna e una voce flautata scaturì da quella bocca crudele, proferendo a bassa voce: “Garuda avrà pure lasciato il suo tocco su di lei, professor Thomson, ma è stata sciocca a lasciarla venire qui senza alcuna protezione. Non appena avrò ottenuto ciò che desidero sapere, la massacrerò con sincero godimento, cosa che non potei fare anni addietro, quando minacciò me e la mia gente.”

Bharat apparve chiaramente disturbato dal suo dire.

Guardatosi intorno nervosamente, come per sincerarsi che nessuno dei presenti l’avesse udita – la musica e il chiacchiericcio generale erano tali da coprire qualsiasi cosa – l’uomo replicò mellifluo alla sua signora: “Le mie scuse, ma non è il luogo più adatto per intrattenere simili discorsi.”

Un’occhiataccia da parte di Manasa seguì le parole eleganti del suo servo che, rattrappendosi nelle spalle, mormorò: “Non volevo offendere, mia signora.”

Scrollando una mano con fare insofferente, Amrita Kapoor, Manasa di Nuova Delhi e dell’India tutta, si rivolse nuovamente al loro ospite e, con fare meno provocatorio, dichiarò: “Mi dica dove posso trovare Garuda, e vedrò di non divertirmi troppo, con lei e la sua famiglia.”

Oliver trovò la forza per deglutire, pur se gli costò uno sforzò immane e, con voce resa roca dall’ansia che provava, replicò: “Ho il compito di dirle che … beh, che Garuda la attende nella città di Phoenix.”

Le sopracciglia di Amrita si levarono feroci verso l’alto mentre, con una mano fresca di manicure, afferrava un braccio di Oliver per sibilargli contro: “Mi sta prendendo in giro?!”

“Affatto” ribatté Oliver, scuotendo il capo.

La fronte aggrottata per la rabbia, Amrita fece per stringere la mano sull’ avambraccio di Oliver quando, di colpo, dovette scostarsi pur contro la sua volontà.

Fu quasi sospinta via da una forza oscura e, accigliandosi nervosamente, ringhiò a denti stretti: “Ma bene… questo non me lo sarei mai aspettato. Un’anima legata al dio-demone Pitone. Davvero ironico.”

Anche Bharat parve sorpreso, e fissò con autentico sconcerto Oliver.

Vagamente sollevato dall’aver scoperto che le parole di Joy si erano rivelate esatte, quest’ultimo proruppe dicendo: “Sono al sicuro dal vostro tocco, esatto.”

“Una Pizia?” esalò Bharat, con occhi vagamente sollevati.

Oliver se ne stupì. Perché doveva essere rasserenato da quella notizia?

“Esatto” sibilò Amrita, adombrandosi in viso. “Non importa. Ho pur sempre la città e la famiglia umana di Garuda, su cui rivalermi.”

“Mia signora!” esalò Bharat. “Come potremmo mantenere l’anonimato, se scatenassimo la furia di cui Manasa è in grado su un abitato come Lincoln City? Inoltre, non è il nostro scopo.”

Un lento, esasperato sospiro scivolò fuori dalla bocca di Amrita, ruvido come carta vetrata.

Con occhi velati da un’ira a stento trattenuta, si volse a osservare il suo sottoposto, replicando stizzita: “Un’altra intemperanza da parte tua, Bharat, e potrei decidere di cambiare consigliere.”

“Mi interessa il bene dell’intera comunità, mia signora, per questo mi sono permesso di interferire” si inchinò leggermente Bharat, rispettoso e mellifluo.

“E sia” esalò Amrita, con lo stesso tono petulante che avrebbe usato un bambino. “Tratterrò la mia rabbia per Garuda. Ti sta bene, mio intransigente consigliere?”

“Saggia decisione, mia signora. Potrete sfogare sulla nostra nemica tutto il vostro rancore” annuì più e più volte Bharat.

Tornando a osservare Oliver, che aveva ascoltato il loro scambio di battute con il cuore in gola, Amrita sorrise sardonica e asserì con tranquilla sicurezza: “Naturalmente, quando avrò finito con lei, seguirò il suo odore in giro per tutti gli Stati Uniti, se necessario, e ucciderò uno a uno tutti coloro che le sono legati… lasciando solo lei in vita, mio caro dottor Thomson, così che le sue decisioni insensate si ripercuotano su di lei, fin quando avrà fiato nei polmoni.”

Oliver impallidì leggermente a quelle parole, ma Amrita proseguì prima che lui potesse lanciarsi in un’accorata difesa dei propri cari.

“La carta della salvezza è già stata usata per lei anni fa, mister Thomson, e io non do mai due volte questa possibilità, a un mio nemico. Vivrà, sapendo di averli condannati tutti a morte.”

Detto ciò, si levò con eleganza dal tavolo e, picchiettate le nocche di una mano sulla superficie di legno del tavolino, sorrise elegantemente e domandò: “L’indirizzo a cui dovremmo recarci, dottore?”

Oliver lo estrasse dalla tasca interna della giacca di tweed, e lo allungò a Bharat senza proferire alcuna parola.

Con un ultimo sorriso di commiato, Amrita si allontanò dal locale con il suo consigliere al seguito, lasciando dietro di sé solo una scia di profumo e il peso di una minaccia insormontabile.

Lasciandosi andare contro lo schienale della sedia, Oliver si passò una mano sulla fronte.

Premute due dita all’attaccatura del naso, scostò un poco gli occhiali per massaggiare la carne sotto di essi.

Un principio di mal di capo iniziò a premere sulle sopracciglia mentre il suo cuore, che batteva a un ritmo frenetico, sembrò volergli schizzare fuori dal petto.

Se Joy avesse fallito, Morgan sarebbe stato il primo a morire e, in seguito, Consuelo, i Patterson, i Barrett, tutti gli amici della ragazza.

Sarebbe stata una strage silenziosa, perpetrata senza troppa pubblicità.

E la causa di tutto sarebbe stata solo e unicamente sua, e del suo desiderio di portare avanti la sua crociata personale.

“Cosa ho fatto?” singhiozzò Oliver, stentando a non piangere.

Esalando un sospiro strozzato, estrasse dalla tasca il suo cellulare e, come d’accordo con Joy, mandò un messaggio a tutti coloro che erano coinvolti prima di terminare il suo cappuccino e uscire.

L’allegria al sapor di zucchero filato di quel luogo era davvero troppa, per lui, specialmente in quel momento.

Come un automa, salì in auto e puntò in direzione della casa del figlio per dare da mangiare a Monet.

Con un singulto straziato, si chiese se non fosse il caso di liberarlo nella foresta perché, almeno lui, si salvasse dalle ire di Manasa, qualora ella avesse avuto la meglio su Joy.

Che fare? Che fare?
 
***

Chiuso il cellulare che teneva sulla mano, Joy annuì a Morgan e disse: “E’ tutto fatto, allora.”

“Bene. Detesto aspettare che i problemi mi cadano addosso. Meglio così” sentenziò Morgan, prima di abbracciarla strettamente e sussurrarle tra i capelli: “Li distruggeremo.”

“Quanto meno, ci proveremo” ridacchiò lei, dandogli un bacio sul collo. “Iniziamo con i sopralluoghi?”

“Quando vuoi. Io, tanto, non soffro il caldo e, credo, neppure tu” ammiccò lui, avvolgendole la vita con un braccio e accompagnandola fuori di casa.

All’esterno, l’afa era opprimente e l’aria, leggermente tremolante, toccava con tutta tranquillità i trentacinque gradi Celsius.

Non una mosca volava, né un’auto percorreva la strada.

Le due del pomeriggio erano davvero un orario insano in cui avventurarsi per Phoenix.

L’unica azione sensata sarebbe stata addentrarsi in un centro commerciale, dove l’aria condizionata avrebbe salvato le vite di chiunque vi si fosse infilato.

Loro, invece, inforcarono la via del deserto e si avventurarono lungo i sentieri che, nel corso di tante estati passate a casa dei nonni, Morgan aveva percorso alla ricerca di mille e più avventure.

Aveva rischiato più e più volte di finire sulle tane di serpenti a sonagli,  o di scorpioni, il tutto naturalmente all’oscuro della madre.

Morgan amava quei posti, pur se apparentemente inospitali e anche gli zii, dopo un lungo peregrinare, avevano deciso di stabilirvisi.

I Sanchez e i Thomson, dopo anni di separazione dovuta al lavoro e a diverse scelte di vita, si erano ritrovati nuovamente a essere vicini di casa.

Zio Eduardo si era preso la responsabilità di insegnargli il corretto approccio agli arroyos e ai canyon della zona.

Nonno Thomson, invece, si era sempre assicurato che, con lui, portasse sempre una buona scorta d’acqua e di barrette energiche.

Erano stati anni appassionanti in cui, però, la figura di suo padre era sempre stata distante, almeno dal punto di vista umano.

Pur se con loro fisicamente, non lo era mai stato con la mente, persa nella ricerca della sua chimera, del suo mito vivente da svelare al mondo intero.

Mito vivente che, in quel momento, camminava dinanzi a lui con una sicurezza e una leggiadria che lo fecero sorridere.

Qualunque cosa facesse, Joy era innegabilmente elegante e sì, sexy.

Era inutile che ci girasse intorno. La era eccome, ed era sua, per tutto il tempo che sarebbe stato concesso loro.

Raggiuntala sul sentiero, la prese per mano e, con un sorrisone, le stampò un bacio sulla fronte liscia, esclamando: “Ti amo da impazzire!”

Vagamente sorpresa, Joy rise e, ricambiando lo sguardo amorevole, replicò: “Anch’io, se è per questo.”

“Ottimo, allora. Ottimo” annuì lui, tutto contento.

A Joy non restò altro che fare spallucce e, assieme al marito, proseguì nella ricerca di un terreno idoneo allo scontro che, entro breve, avrebbe dovuto ingaggiare contro Manasa.

Da Brian aveva saputo che, già da diversi giorni, i satelliti presentavano problemi di ricezione e invio dati, a causa di una tempesta solare sempre più forte.

Secondo i resoconti della Nasa, l’apice di questa tempesta energetica si sarebbe abbattuto sulla Terra nel giro di quarant’otto ore al massimo.

Esattamente nei tempi previsti.

Ora, non rimaneva altro che far andare per il verso giusto anche il resto del piano.

Peccato fosse l’unico su cui, più o meno, non avevano alcun controllo.




 
 
***
 




Impiegammo più di un giorno, per trovare il luogo ideale per lo scontro.

Un’arena perfettamente circolare mi si aprì innanzi, circondata da pareti di roccia abbastanza elevate e tali da contenere ciò che si sarebbe scatenato.

Mi ritrovai a sorridere soddisfatta.

Morgan mi diede della pazza sanguinaria e, con un sorriso, mi baciò, dicendosi più che deliziato all’idea di avere come moglie una specie di amazzone senza pietà.

Sapevo, però, perfettamente che stava facendo dell’ironia per non pensare a quello che, entro poche ore, avremmo dovuto affrontare.

Passare quei brevi momenti con la sua famiglia, mi era servito a raccogliere in me le forze necessarie per venire a patti con il destino che ci stava aspettando al varco.

Più di ogni altra cosa, per accettare il fatto che non avrei potuto lasciare in un angolo Morgan.

Percepivo con chiarezza il flusso di energia che si dipanava dal suo corpo, simile a onde sempre più forti, per raggiungere il mio.

Sapevo che, grazie a quella forza, avrei potuto avere una possibilità di riuscita laddove, senza di essa, vi sarebbe stata la sicura sconfitta.

Non avevo ancora il pieno possesso dei miei poteri, e l’amore di Morgan sopperiva egregiamente a questa mancanza.

A onor del vero, me ne conferiva in quantità ben maggiore rispetto a quanto io stessa non avessi mai sperimentato in nessuna vita.

L’energia che sapeva sprigionare dal suo cuore era così forte, così potente, così pura da rassomigliare a quella del Nun, dove Rah era nato.

La mia speranza era che il mio unico amore non subisse ripercussioni di nessun tipo, dalla battaglia che mi apprestavo a combattere.

Desideravo con tutta me stessa essere all’altezza della sua forza.

 





Note: 
 
 
  1. Hola, chico. Que tal? (spagnolo) trad.: Ciao, ragazzo. Come va?
  2. Niņo (spagnolo) trad.: bambino.
  3. Navajo: antica lingua dei popoli della meso america e nome di una delle tante tribù di nativi americani.
  
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