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Autore: Mary P_Stark    27/05/2012    3 recensioni
Cosa potrebbe succedere, se l'Araba Fenice tornasse a vivere ai giorni nostri? Se camminasse come un comune essere umano, sconosciuto ai più e per nulla riconoscibile ai nostri occhi? La storia di Joy è la storia delle molte vite di Fenice che, con i suoi poteri, tenta a ogni rinascita di portare il Bene e l'Amore nel mondo. Ma può, l'amore vero e Unico, toccare una creatura come lei che, da sempre, non vi si può abbandonare poiché votata solo all'altrui benessere? Sarà Morgan a far scoprire a Joy quanto, anche una creatura immortale come lei, può cedere al calore dell'amore, facendole perdere di vista il suo essere Fenice.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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34.
 
 
 
 
 
 
L’odore di Manasa mi arrivò alle nari nel momento stesso in cui ella posò il primo piede a Phoenix.

Non importava quanti altri aromi pervadessero l’aria, o quante miglia ci separassero.

Difficilmente non l’avrei percepita.

Forse, se ci fossimo trovate ai due capi opposti del continente…

A ogni modo, mi levai da letto senza nessuna fretta e Morgan, nel vedermi prendere la via del bagno, controllò la sveglia – segnava le sei e ventidue del mattino.

Biascicò, mezzo addormentato: “Che succede?”

“E’ qui.”

Non dissi altro, e non ve n’era bisogno. Sapeva esattamente chi stavamo aspettando.

Senza dire una parola, Morgan mi seguì in bagno e fece la doccia con me, lo sguardo torvo e l’aria di chi sta pensando a mille e più cose contemporaneamente.

Non mi toccò come suo solito, non fece l’amore con me sotto lo scroscio rovente dell’acqua che zampillava sopra le nostre teste.

Mi aiutò a lavarmi e lavò se stesso, sempre senza emettere parola e, quando entrambi terminammo le abluzioni del mattino, uscimmo insieme dal box doccia.

Ci asciugammo con pesanti panni spugna color Borgogna, il silenzio tranquillo a farci compagnia.

Lavai i denti mentre lui si faceva la barba, come se fosse stato un normalissimo giorno di vacanza.

Sapevamo però bene entrambi che, quel giorno, non avrebbe avuto nulla di normale, nulla di neanche lontanamente umano.

Mi sentivo in colpa, per averlo trascinato in quel mio personale Armageddon ma, come lui stesso mi aveva detto più di una volta… finché morte non ci separi.

Speravo con tutta me stessa di non dover arrivare a tanto.

Sempre in silenzio, indossai una comoda tenuta da trekking, con camiciola a maniche corte, pantaloncini al ginocchio e scarponcini.

Morgan mi imitò prendendo per sé un completo color cammello, e scarponi neri di tela con suole vibram.

La colazione fu tranquilla, intervallata dal chiacchiericcio allegro dell’addetta stampa della NBC, e dal tintinnare delle nostre posate contro le ciotole di porcellana.

Sparecchiai mentre Morgan spegneva la televisione e, quando ebbi chiuso lo sportello della lavastoviglie, mi diressi verso la porta d’ingresso, lanciando uno sguardo a mio marito.

Lui mi seguì annuendo e, aperto il battente, fissai la strada dinanzi a noi e il cancelletto chiuso, davanti al quale si trovavano due persone elegantemente vestite. “Ben arrivata, Manasa” mormorai.





 
 
***



 
 
Joy non aveva avuto bisogno di nessun genere di presentazione, per riconoscere l’anima della sua vecchia antagonista.

Mentre Morgan fissava i due nuovi venuti, cercando di capacitarsi del fatto che quella coppia di indiani altro non erano che i loro nemici, lei si avventurò lungo il vialetto.

“Hai fatto buon viaggio?”

Morgan si affrettò a seguire Joy, preferendo non lasciarla sola neppure un istante.

Amrita, scostando il cancelletto con il semplice gesto di un dito, si avvicinò a Joy con un sorriso beffardo, celiando: “E’ stato dannatamente noioso… specialmente considerando quello che mi hai lasciato a Lincoln City come regalo.”

“Chiedo scusa… immaginavo sapessi che Oliver era una Pizia” scrollò le spalle Joy, irrigidendosi leggermente quando la donna lanciò uno sguardo interessato a Morgan, che stazionava al suo fianco con espressione intelligibile.

“Lui sa tutto!” esclamò divertita Manasa, allungando una mano elegante e dalle unghie laccate perfettamente. “Io sono Amrita Kapoor, giovane umano.”

Morgan lanciò un’occhiata indagatrice all’indirizzo di Joy, prima di vederla annuire.

Con una scrollatina di spalle, il giovane accettò la mano protesa e la strinse senza particolare delicatezza, replicando: “Morgan Thomson, e di certo non è un piacere conoscerla.”

Amrita scoppiò in una risata gorgogliante, affascinante quanto la danza sinuosa di un cobra e altrettanto pericolosa.

Al suo fianco, ansioso e apparentemente indeciso sul da farsi, l’uomo che l’aveva accompagnata lanciò occhiate preoccupate sia alla sua dea che a Joy.

“Affascinante, davvero affascinante” gorgogliò querula la donna, recuperando il controllo di sé prima di guardare il suo lacchè con aria di sufficienza. “Perché non mostri alla nostra cara Garuda il nostro dono per il loro matrimonio?”

L’uomo parve imbarazzato, ma eseguì l’ordine della sua signora come se non potesse farne a meno.

Sollevò la piccola scatola di legno scuro che, fino a quel momento, era rimasta inerte nella sua mano e, porgendola a Joy, mormorò: “Per voi, Garuda.”

Joy prese tra le mani il piccolo oggetto, fissando contemporaneamente Bharat Chandra nel tentativo di comprendere il motivo della sua ansia.

Quando aprì la scatola, ogni altro pensiero venne meno, sostituito da un odio così puro che, solo a stento, riuscì a controllare.

Deposta in un letto di morbido velluto rosso, una piccola treccia di capelli neri era trattenuta da un drappo di seta blu.

Nell’avvertire il profumo emanato da quell’intreccio a lei molto familiare, Joy digrignò i denti mentre Amrita si lasciava andare a una nuova risata di gusto.

La scatola venne gettata a terra con malagrazia.

Il calore proveniente dal corpo di Joy andò via via elevandosi, facendosi più forte, più rovente, colmo di astio dilagante.

Morgan, fissandola basito e confuso assieme, esalò: “Joy, che succede?”

“E io che pensavo che rivedere uno dei cimeli della tua antica madre, ti avrebbe fatto piacere!” esalò Amrita, fingendosi sconvolta.

A Morgan non servì sapere altro.

Conosceva fin troppo bene la storia di Joy e della madre putativa della ragazza, che i Naga avevano barbaramente trucidato, scatenandone così l’ira funesta.

Tutto, però, avrebbe pensato, tranne che se ne uscissero con un gesto così becero, così insensibile.

Senza alcun preavviso, scattò in avanti con il chiaro intento di mettere le mani addosso ad Amrita.

Se ne infischiò totalmente del fatto che lei fosse l’incarnazione di una dea e che, in teoria, avrebbe potuto ridurlo a brandelli come se nulla fosse.

Il dolore che quella donna, con quel semplice gesto, aveva procurato alla moglie, era davvero troppo, inaccettabile.

Il suo attacco lasciò di stucco tutti i presenti che, però, reagirono in fretta per evitare che lo scontro si svolgesse dove troppi occhi indiscreti potevano vederlo.

Mentre Joy afferrava Morgan alla vita, trascinandolo di peso all’indietro, Bharat si parò innanzi alla sua signora, impedendole di fatto qualsiasi tipo di azione.

Amrita, sconvolta e divertita al tempo stesso, esclamò con un gran sorriso: “Ah, sarà divertente fare a pezzi entrambi! Un tale spirito, un tale fuoco! Sì, mi godrò la vostra morte come poche altre cose io abbia mai fatto!”

Dimenandosi nella stretta ferrea di Joy, che stava fissando con astio palpabile la sua nemica, Morgan ringhiò furioso, il volto percorso da un’ira senza limiti.

“Sarai tu quella che finirà in pezzi, maledetta strega!”

Gli occhi scuri di Amrita percorsero lascivamente il lungo corpo statuario di Morgan, ancora strettamente trattenuto da Joy.

La sua lingua scivolò languida sulle labbra carnose.

Per un momento, le pupille della donna si assottigliarono, mutando in quelle di un serpente, prima di tornare umane un attimo dopo.

Amrita aveva trattenuto l’animale che era in lei, forse pronto a scattare sulla preda per divorarla.

Mentre Chandra ne controllava le reazioni, spaventato all’idea che potesse trasformarsi nel bel mezzo di quel quartiere tranquillo, Amrita mugolò con voce roca: “Credo che farò di meglio, Garuda. Godrò del corpo del tuo uomo, mentre tu verrai fatta a pezzi… ma solo dopo che ti sarai goduta l’intero spettacolo.”

Fu il turno di Morgan di trattenere Joy che, disgustata dal suono stesso di quelle parole strascicate e melliflue, ringhiò ruvida: “Non toccherai Morgan neppure con un dito, Manasa, questa è una promessa!”

Intervenendo per la prima volta, Chandra dichiarò conciliante: “Signore, vi prego, rischiamo di attirare l’attenzione, rimanendo qui fuori. E nessuno di noi lo vuole.”

Scuotendo con nervosismo la chioma corvina, Amrita lanciò un’occhiataccia al suo sottoposto, prima di sospirare con i modi di una bambina capricciosa.

Muovendo una mano con fare scocciato, mugugnò: “Sì, lo so, Bharat. Non dobbiamo dare nell’occhio.”

Ritrovata a stento la calma, Joy si scostò da Morgan dopo aver annuito al suo indirizzo e, rivoltasi ai suoi indesiderati ospiti, sibilò senza troppa educazione: “Venite con noi. Conosciamo un posto dove non saremo disturbati.”

“E…” tentennò Bharat, indicando verso il cielo terso.

Un lento sogghigno si dipinse sul volto della ragazza che, strafottente, celiò: “Dispongo di amici abbastanza potenti che ci forniranno la copertura necessaria.”

Bharat, a sorpresa, le concesse un piccolo, modesto cenno del capo, come a ringraziarla per la cortesia, tanto che Joy ne rimase non poco sorpresa.

Il gesto, però, fece anche inviperire Amrita che, colpito l’uomo con forza a un braccio, ringhiò furiosa: “E smettila di essere così cortese! E’ una nostra nemica! Non siamo qui per fare salotto!”

“Ma mia signora…” tentennò Chandra, arcuando le spalle come se si aspettasse di essere battuto da un momento all’altro.

Disgustata, Amrita distolse lo sguardo dal suo suddito con fare davvero scocciato, prima di rivolgersi a Joy e dire imperiosa: “Andiamo pure nella nostra arena, mia cara e, nel frattempo, comincia pure a dire addio al tuo amante mortale, perché non lo rivedrai più.”

“Lui verrà con noi e credimi, non dovrò dirgli addio” replicò Joy, sopravanzandola e, nel frattempo, sbattendo con una certa forza la spalla contro quella della donna.

La sorpresa di Amrita, interdetta di fronte alla notizia che anche Morgan sarebbe stato presente allo scontro, diede il tempo necessario a Joy di concedersi quel piccolo sgarbo.

Chandra scrutò la sua signora con l’aria di chi si aspetta di veder esplodere una bomba da un momento all’altro, e Morgan rise di gusto.

Raggiunta la moglie raggiunse con poche, rapide falcate la sua consorte, dichiarò: “C’è un motivo, se ti ho sposata!”

“Già” sentenziò Joy, senza neppure voltarsi indietro.

Sapeva che Amrita e Bharat li avrebbero seguiti, come sapeva che non avrebbero fatto follie.

Nessuno di loro, come aveva detto giustamente Chandra, voleva attirare l’attenzione degli umani sulla loro disputa.
 
***

Dopo aver camminato per quasi un’ora a passo spedito, attraverso stretti arroyos e impervi sentieri montani, il quartetto raggiunse infine una spianata interamente circondata da alte pareti rocciose.

Era completamente deserta, e ben lontana dalla città che Joy voleva preservare assieme ai suoi ignari abitanti.

L’aria era già rovente e il sole, pur non essendo ancora a perpendicolo sulle loro teste, scaldava la pelle, facendola formicolare.

Morgan, il cappellino dei Red Sox ben piantato sulla testa, fissò con aria accigliata quella specie di arena di combattimento.

Formata da canali d’acqua rinsecchiti, cespugli ritorti e rocce rossastre dall’aspetto  inquietante, dava l’idea di essere perfetta per un duello all’ultimo sangue.

Era più che certo che, tra quegli anfratti, i crotali andassero a festa e che, nell’avvertire la presenza della loro regina, si sarebbero radunati lì attorno, impazienti.

Come a rispondere alla sua muta ipotesi, Joy mormorò: “Ben presto avremo compagnia, ma tu non dovrai preoccuparti. Il mio fuoco ti proteggerà.”

“Cosa devo fare?” gli chiese a quel punto Morgan, accigliandosi leggermente quando vide Amrita e Bharat raggiungerli all’interno della caldera.

La Manasa si guardò attorno con aria soddisfatta, annuendo più e più volte, mentre Bharat rimaneva in religioso silenzio al suo fianco, lo sguardo percorso dallo sconforto.

Joy lo aveva osservato fin dall’inizio con un certo interesse e, man mano che i minuti erano passati, l’idea che si era fatta di quell’uomo continuava a mutare come il corso delle maree.

Bharat Chandra era davvero una persona strana, e un Naga oltremodo singolare.

“Hai davvero scelto bene il luogo in cui perirai, Garuda!” esclamò elettrizzata Amrita, togliendosi con eleganza la giacca del gessato grigio che indossava.

Negligente, la gettò sul terreno riarso e color mattone.

“Continuo a pensare che tu abbia le idee confuse, Manasa” replicò Joy, afferrando una mano di Morgan prima di dirgli a bassa voce: “Rimani accanto alla montagna, non tentare di intervenire nella lotta. Amami come solo tu sei in grado di fare, e abbi fiducia in me.”

“Che intendi dire?” esalò Morgan, spaventato dal suo dire.

Volgendosi completamente verso di lui, dando pericolosamente le spalle ai suoi nemici, Joy gli sorrise, più sicura che mai.

Dopo essersi elevata in punta di piedi, lo baciò con delicatezza sulle labbra e mormorò: “Sei tu la mia forza, Morgan. Non l’ho mai capito, in tutte queste vite, ma ora so. Ora vedo. E’ l’amore che provo per te, e che tu provi per me, a darmi il coraggio di affrontare Manasa. Ciò che proviamo l’uno per l’altra è unico, così come Fenice è unica. Io ho vissuto tutte queste vite, ho portato luce nel mondo nel corso dei secoli solo per arrivare a te, solo per concedere a te un mondo su cui camminare, perché tu potessi unirti a me.”

“Joy, ma che stai dicendo?” sussurrò Morgan, avvolgendola in un abbraccio tremante.

La risata divertita di Amrita non scalfì in alcun modo la serenità d’animo di Joy che, senza paura, replicò al suo unico amore: “Ciò che ho sempre percepito in me, quando eravamo assieme, è ciò che vedrai oggi. Io oggi sarò la Stella del Mattino, sarò Benu in tutto il suo splendore. E questo solo grazie a te, al tuo amore per me.”

“Dovrò solo amarti?” singhiozzò Morgan, cercando di regalarle un sorriso speranzoso.

Lei annuì una sola volta, ripetendo: “Dovrai solo amarmi.”

“Niente di più facile” asserì lui con un alito di voce, mentre il suo corpo veniva ammantato dalle fiamme di Fenice.
Joy gli carezzò una guancia, lieta di sentire la calma prendere possesso del cuore del giovane che tanto amava.

Nel volgersi in direzione della sua nemica, sorrise trionfante ed esclamò: “Hai voluto sfidarmi, Manasa. Ora ne pagherai le conseguenze!”

Detto ciò, mutò forma.

Piume scarlatte le ricoprirono il corpo esile di donna, mentre lunghe remiganti si librarono dalle sue braccia, e ciuffi azzurri e rosa di lunghe penne spuntarono dalla sua chioma.

Le zanne scintillarono alla luce del sole, quando Joy sollevò rabbiosa il labbro superiore.

Ridendo di quella sua mutazione parziale, Amrita si strappò letteralmente di dosso la camicia e gridò: “Non mi fai paura, Garuda! In nessuna tua forma!”

Una lunga e sinuosa coda di serpente prese il posto delle gambe perfette di Amrita mentre Bharat, con molta meno enfasi, ricoprì il proprio corpo di squame lisce e color smeraldo.

Lentamente, le sue sembianze mutarono parzialmente in quelle di un rettile, al pari della sua signora che, ormai, era divenuta uno splendido esemplare di nagini.

Morgan, basito e sì, disgustato da quello spettacolo raccapricciante, indietreggiò fino a sfiorare con le spalle la parete del canyon in cui si trovavano.

A quel punto, si accomodò a terra a gambe incrociate e fissò lo sguardo unicamente su Joy, bellissima e fiera nel centro di quell’arena improvvisata.

I crotali che, nel frattempo, erano usciti dalle loro tane, tentarono invano di avvicinarsi all’umano che aveva invaso il loro territorio, ma vennero bloccati dalla barriera di fiamme che lo avvolgeva.

Morgan li degnò solo di un breve, disinteressato sguardo prima di tornare a puntare le iridi di pece sul suo unico amore.

Lei gli aveva chiesto solo una cosa; amarla.

E chi era, lui, per non esaudire quel piccolo desiderio?

Sorridendo con una tranquillità che non immaginava di poter provare in un momento simile, Morgan chiuse infine gli occhi per concentrarsi sui sentimenti che aveva nel cuore.

In un sussurro appena udibile, mormorò: “Io ti amo, mia Benu.”

Nel centro del canyon, già pronta a dar battaglia, Joy sorrise nell’avvertire dentro di sé l’energia di Morgan, sempre più sfolgorante, sempre più piena e forte.

Mai, nelle sue tante vite, il potere di Fenice era stato così dirompente, neppure nei momenti di massimo fulgore.
Aveva trovato chi la completava. Chi la rendeva davvero unica.

Quell’energia le avrebbe dato la vittoria, pur se ancora troppo giovane per sfruttare appieno i suoi doni.

Forse, una Fenice non doveva possedere un simile potere.

Forse, ciò che stava facendo andava contro ogni legge del Cosmo, non lo sapeva, ma il suo cuore le diceva che era nel giusto.

Rah le aveva detto; cerca nel tuo cuore.

E lei lo aveva fatto, trovando la risposta ai suoi dubbi e la risoluzione ai suoi problemi.

Se ciò che aveva trovato dentro di sé fosse stata la scelta giusta, lo avrebbe scoperto ben presto.

In un modo o nell’altro, lei avrebbe fatto ciò che aveva deciso.

Niente l’avrebbe fermata, neppure tutti i pantheon divini fin lì creati, e distrutti, nel corso dei millenni.

Gli occhi sempre serrati e la concentrazione portata al massimo, Morgan poté  percepire chiaramente quando la battaglia ebbe inizio.

Il terreno iniziò a tremare tutt’intorno a lui, portandolo a poggiare una mano sul terreno roccioso per non ruzzolare in malo modo.

Vicino a lui, un crotalo cercò di addentarlo, ma fu un’impresa vana.

Morgan lo sentì guizzare di lato, sibilare e muoversi nervosamente attorno alla barriera, ma null’altro.

Il potere di Joy lo teneva a distanza.

Finché lui avesse creduto in Fenice, nulla gli sarebbe successo pur se, intorno a lui, sembrava essersi scatenato l’inferno.

Pur sapendo di rischiare un infarto, Morgan socchiuse gli occhi per dare una sbirciata alla battaglia e, come aveva temuto, vedere Joy combattere come una fiera dai denti snudati, fu scioccante.

Manasa si muoveva con un’agilità di movimenti e una velocità impressionanti, tanto da rendere i suoi slanci e balzi quasi invisibili ai suoi occhi umani.

Chandra sembrava essere stato colpito, poiché riportava una profonda bruciatura al fianco, e si dimenava sul terreno sciabolando a destra e a manca la sua coda verdognola.

Il viso era contratto dal dolore che provava.

Joy, invece, appariva in tutto simile a una stella.

Rifulgeva da ogni poro della pelle e i suoi capelli, letteralmente, danzavano come fiamme libere, sfrigolando nell’aria come se percorse da una corrente a basso voltaggio.

Pari a velocità rispetto a Manasa, menava fendenti con gli artigli prominenti e si esibiva in balzi aggraziati, ogni qual volta la nemica tentava di atterrarla con dei colpi di coda.

“Coraggio, Joy” mormorò Morgan, incapace di distogliere lo sguardo, il cuore che gli martellava nel petto simile a un tamburo.

La luce della ragazza crebbe ancora di intensità, alle sue parole e Manasa, avvedendosene, sgranò un istante gli occhi prima di gridare inferocita: “Quale sortilegio hai ideato, maledetta!?”

“Nessun sortilegio, Manasa!” ghignò soddisfatta Joy, notando il risentimento della nemica crescere col passare dei minuti.

Tenendo sempre sott’occhio Chandra, che sembrava essere stato messo definitivamente fuori combattimento, Joy si concentrò principalmente su Manasa.

Pur trovando difficile ammetterlo, era veloce e agile nei movimenti e, di fatto, un bersaglio praticamente inafferrabile.

Pur con tutta la sua buona volontà, non riusciva ad afferrarla per strapparle quel maledetto cuore dal petto, unico modo per annullare la presenza di Manasa all’interno del suo involucro umano.

Non potendo usare le zanne, doveva affidarsi solo ai suoi artigli.

L’idea di morderla non le passava neppure per l’anticamera del cervello.

Se anche una sola goccia del suo sangue le fosse finita in gola, o uno dei suoi artigli l’avesse ferita, sarebbe morta dopo atroci sofferenze.

Manasa non aveva veleno solo nelle sue ghiandole velenifere, purtroppo.

“Puoi farcela, Joy!” urlò allora Morgan, incitandola a gran voce e sorridendole fiero, quando lei si volse per un istante a fissarlo.

Lui se ne stava lì a gambe incrociate, seduto sul terreno duro e inospitale, completamente circondando da non meno di una ventina di serpenti – del tutto intenzionati a morderlo – e le sorrideva fiducioso.

Era pieno del suo amore per lei, e ferocemente convinto che potesse farcela.

Joy non poté far altro che sorridergli di rimando, mentre una nuova sferzata di energia le invadeva le carni, facendola sfolgorare come una stella appena nata.

Coprendosi gli occhi con un braccio per non ustionarsi le retine, di fronte a un simile scintillio dorato, Manasa tornò con lo sguardo al compagno della sua nemica prima di ghignare soddisfatta.

“Non so come tu ci sia riuscita, ma non avresti dovuto portarlo qui, così vicino al mio veleno! Ora morirà, e tu lo seguirai!”

Detto ciò, emise un grido ad alta frequenza che passò del tutto inosservato a Morgan, ma che Joy percepì con estrema chiarezza.

Questo la portò a gridare spaventata in direzione del marito che, letteralmente, venne ricoperto da una marea di serpenti, spuntati da ogni dove e unitisi a quelli già presenti sul campo.

La fiamma che ricopriva Morgan sfrigolò e scomparve alla vista – ricoperta da quell’ondata di rettili.

Manasa rise sguaiata, di fronte all’ansia manifesta della sua nemica.

Joy mosse per diretta conseguenza i primi passi per raggiungere il suo compagno, esponendo quindi se stessa al pericolo.

Il colpo di Manasa non tardò ad arrivare.

Come un fulmine, giunse alle spalle della sua nemica e la colpì con la coda, scaraventandola a terra prima di gettarsi su di lei per azzannarla al collo.

Lesta, nonostante il dolore alle costole per il colpo ricevuto, Joy afferrò Manasa alle braccia per tenere le sue zanne prominenti a distanza di sicurezza dal suo collo.

Con lo sguardo, però, cercò di raggiungere il punto in cui sapeva trovarsi Morgan.

Una risata mefistofelica salì alla gola di Manasa che, eccitata nel sentire l’odore della paura risalire verso di lei dal corpo disteso a terra di Garuda, esclamò: “Non lo vedrai morire, mi spiace!”

“Neppure tu, megera dei miei stivali!” ringhiò dietro di loro, a sorpresa, Morgan.

Ritto in piedi e sfolgorante della fiamma di Fenice, che ancora ardeva intorno a lui, Morgan stringeva tra le mani uno dei tanti serpenti che Manasa gli aveva lanciato contro.

Il rettile, morto al pari degli altri – che si trovavano stesi sul terreno brullo, era pendulo e inoffensivo nella mano del giovane.

Gettando il serpente morto contro il volto di Manasa, Morgan si mise in posizione di attesa, i pugni levati e le gambe flesse e, determinato, le sputò contro con rabbia: “Non potrai mai batterci, finché avremo fiducia l’uno nell’altra!”

“Lo vedremo!” strillò Manasa, cercando di scostarsi da Garuda per attaccare il mortale che, spavaldo, se ne stava a poche decine di metri da lei, pronto a dar battaglia.

Joy ne approfittò per replicare al suo attacco e, sollevata una mano, le aprì uno squarcio nelle carni con gli artigli.

Un attimo dopo, si allontanò per non rimanere invischiata nel suo sangue venefico.

Manasa lanciò un grido di rabbia e dolore verso il cielo, dove il sole sempre più a picco splendeva su di loro con i suoi raggi implacabili.

Ansante ma soddisfatta del risultato, Joy si concesse un attimo per lanciare un sorriso sollevato a Morgan che, strizzandole un occhio, esclamò: “Combatti tranquilla! Io sono okay, qualsiasi cosa mi lanci contro la megera!”

Annuendo mentre Manasa si portava una mano al fianco dolorante, Joy le si rivolse con astio e sentenziò: “Come vedi, neppure i mortali hanno timore di te!”

“Ne avrai tu, quando il mio veleno entrerà in circolo, sciocca Garuda!” replicò Manasa, cominciando a ridere mentre stille di sangue uscivano dalla sua bocca.

Il colpo era andato a fondo, perforandole un polmone, ma Manasa non sembrava preoccupata per la propria ferita.

Era soddisfatta per il piccolo taglio che Garuda aveva sul braccio, retaggio del loro precedente scontro e punto in cui, finalmente, era riuscita a incidere la sua carne con uno dei suoi artigli.

Joy si affrettò ad abbassare lo sguardo sul suo braccio ricoperto di piume e, sgomenta, fissò il punto in cui alcune di esse avevano già iniziato a staccarsi, come morte.

Evidente sulla pelle libera da piumaggio, un piccolo taglio in corrispondenza dell’ulna stillava sangue rosso e scuro.

Crollando a terra, la coda ormai scomparsa e sostituita da gambe ricoperte di ecchimosi e tagli più o meno vistosi, Manasa ridacchiò soddisfatta ed esalò: “Io guarirò, seppur a fatica, dalle ferite che mi hai inflitto, ma tu perirai per colpa del veleno che ti sta scivolando lentamente nelle vene, e il tuo uomo ti seguirà non appena ti sarai trasformata in cenere! Non avrei potuto desiderare niente di meglio!”

Mordendosi un labbro mentre un lieve pizzicore iniziava a espandersi lungo il braccio, Joy lanciò uno sguardo preoccupato in direzione di Morgan.

Lesto, il giovane le si avvicinò, non appena la fiamma intorno a lui iniziò a scemare.

La risata di Manasa continuò ad ammorbare l’aria satura di calore e polvere mentre Joy, sempre più preoccupata, lanciava occhiate alterne alla sua nemica e al suo uomo.

Fu però Chandra ad attirare tutta la sua attenzione quando, a sorpresa, si rialzò da terra come se tutto il dolore per le ferite riportate fosse scemato di colpo.

Con una freddezza inaspettata, si avvoltolò attorno al corpo dolente della sua regina e ne bloccò qualsiasi movimento.

Manasa lo fissò senza capire, iniziando a divincolarsi per liberarsi, troppo debole per farlo ma ben intenzionata a non rimanere un attimo di più legata a lui.

Rivoltosi a Garuda, incurante delle intenzioni della sua regina, Chandra esclamò: “Non lasciarci nelle sue mani, ti prego! Liberaci!”

Sgomenta e sorpresa da quelle parole, Joy lo fissò senza capire per alcuni attimi prima di annuire e, afferrata la mano di Morgan, mormorò: “Sorreggimi e, mi raccomando, tieni gli occhi chiusi.”

Lui annuì, troppo sconvolto anche solo per parlare.

Manasa continuò a divincolarsi dalla presa del suo suddito che, imperterrito, la tratteneva a terra nonostante le sue invettive e le sue minacce.

Joy fissò astiosa la sua nemica, asserendo: “Persino i tuoi sudditi vogliono la tua morte! E io sarò ben felice di accontentarli, perché non meriti che io ti risparmi!”

Gli occhi sgranati per la follia che ormai sembrava averla presa, Manasa esplose in una risata isterica e replicò: “Risparmiarmi? Morirai nel tentativo, e io vi ucciderò tutti! Tutti!”

Joy non la ascoltò, pur sapendo che c’era della verità nelle sue parole e, in un sussurro dolcissimo, disse al marito: “Ricordati che ti ho amato sinceramente e che, solo grazie a te, abbiamo vinto.”

“Joy!” esclamò Morgan, voltandosi verso di lei con il terrore negli occhi d’ossidiana, prima di essere costretto a serrarli per la luce intensa che si sprigionò dalla moglie.

Il giovane si coprì il viso con il braccio sinistro, libero, mentre la mano destra era ancora serrata a quella di Joy.
Gridò il nome dell’amata, mentre una luce simile a quella di una stella invase l’intero canyon, dissolvendo i serpenti presenti e il corpo ferito di Manasa.

La dea, investita da quella tempesta di energia primigenia, non poté nulla per fermarla, o anche solo per difendersi.

Il suo corpo svaporò in mille e mille particelle infinitesimali mentre Bharat Chandra, risparmiato da quel bang sonico – che aveva ridotto in polvere il corpo umano della sua divinità – crollò a terra nuovamente uomo.

Tramortito, il naga iniziò a tossire e sputare sangue mentre tutt’intorno, poco alla volta, l’energia iniziò a scemare e perdere di intensità.

Morgan, ancora immobile accanto a Joy, percepì con non poco terrore il lento ma progressivo abbassamento della temperatura corporea dell’amata.

Quando fu abbastanza sicuro che, riaprendo gli occhi, non sarebbe rimasto accecato dalla luce, fissò lo sguardo sulla moglie prima di afferrarla lesto quando, di colpo, scivolò verso terra, del tutto priva di forze.

“Joy! Joy!” esclamò Morgan, tenendola contro di sé.

Il pulviscolo che un tempo era stato il corpo mortale di Manasa, iniziò a decadere a terra, assieme ai resti dei crotali divorati dalla luce della Stella del Mattino.

Calde lacrime scivolarono sul viso straziato dall’ansia di Morgan che, scrollando il corpo inerme di Joy, continuò a chiamarla invano, dondolando avanti e indietro con lei tra le braccia.

Ora tornata del tutto umana, era ricoperta da più lividi ed escoriazioni di quanti lui potesse sopportare di vedere.

“Parlami, ti prego…” singhiozzò Morgan, poggiando delicatamente un dito in corrispondenza della giugulare per cercarne il battito cardiaco.

Debole, niente più di un battito d’ali, ma era lì, presente.

Ma per quanto ancora?

Rialzatosi a fatica, lo stress di quella giornata epocale ora interamente riversato sulle sue spalle, Morgan la tenne tra le braccia, inconsolabile.

Ci vollero diversi attimi, prima che si rendesse conto della presenza di Bharat Chandra, a pochi metri da lui.

Il suo volto, emaciato e stanco, presentava diversi tagli sanguinanti e gli abiti, laceri e ricoperti di polvere, pendevano dal suo corpo martoriato come sacchi informi.

Sollevate le mani, quasi scarnificate dalla forza primigenia che aveva colpito la sua signora, l’uomo mormorò conciliante: “Non voglio farvi del male. Non io!”

Sospettoso, Morgan si guardò intorno per un istante, quasi a volersi accertare che Manasa fosse effettivamente scomparsa, prima di ringhiare: “Se ti ha risparmiato, c’è un motivo. Ma non farmi venire voglia di completare ciò che lei ha lasciato a metà.”

Bharat fu lesto a scuotere il capo, prima di dire, rivolgendo uno sguardo ansioso in direzione di Joy: “So come curare il veleno di Manasa, ma dobbiamo sbrigarci.”

Morgan annuì, non potendo fare altro che fidarsi di quell’uomo che, a sorpresa, aveva corso il rischio di venire falcidiato dal potere di Joy, pur di eliminare la sua regina.

“Se lei morirà, tu farai la sua stessa fine” gli promise Morgan, iniziando a risalire la parete del canyon con un unico scopo; portare in salvo Joy.
 
***

La luce della sera iniziò a scemare all’orizzonte, sostituita dal manto scuro della notte punteggiata di stelle.

Alla televisione, notizie sulla mirabile tempesta magnetica che aveva colpito la Terra si susseguivano su tutti i canali, assieme al terremoto che aveva colpito la zona di Phoenix.

I sismografi avevano registrato una Magnitudo Richter di 6.2, e gli scienziati più esperti in materia si erano dichiarati sorpresi da un simile evento.

Esso era scaturito dal nulla, e senza alcuna scossa di avvertimento a precedere l’evento.

Il fatto che non vi fossero state neppure delle scosse di assestamento, incuriosì la comunità scientifica ma questo, a Morgan, poco interessò.

Non avrebbero mai trovato la risposta ai loro quesiti perché, di quello che era successo in quel canyon, non rimaneva più traccia.

Tornando con lo sguardo alla flebo attaccata al braccio di Joy, Morgan sospirò nel sorseggiare l’ennesimo caffè nero che si era preparato.

Da quando Chandra le aveva infilato l’ago nella vena, promettendogli che quell’intruglio le avrebbe salvato la vita, non aveva fatto altro.

A onor del vero, quel liquido azzurrognolo e vagamente denso, sembrava averla davvero strappata dalle grinfie del nero baratro su cui si era sporta nel dare il colpo di grazia a Manasa.

I passi strascicati di Chandra lo portarono a voltarsi verso di lui e, subito, lo sguardo si fece guardingo.

Tolti gli abiti ormai distrutti, Chandra aveva accettato di buon grado quelli che Morgan gli aveva consegnato al loro arrivo a casa.

Dopo aver sistemato Joy a letto, e aver controllato che le sue funzioni vitali non fossero cambiate, aveva iniziato a seguire le istruzioni di Chandra.

Stando alle sue parole, quell’intruglio misterioso avrebbe salvato Garuda dalla morte.

Le mani ora avvolte in strette fasciature, lievemente macchiate di sangue e pronte ormai per essere cambiate, l’indiano si avvicinò al letto della ragazza, chiedendo: “Qualche cambiamento?”

Per ogni eventualità, ne tastò il polso. Era regolare.

Morgan scosse il capo e, fissandolo dubbioso, gli chiese sinteticamente: “Perché?”

Bharat Chandra gli rivolse un sorriso stanco, prima di afferrare l’altra sedia posta accanto al letto dove riposava Joy.

Accomodatosi pesantemente su di essa, asserì: “A quale ‘perché’ vuoi che io risponda?”

“A tutti, perché immagino siano diversi” scrollò le spalle Morgan, lo sguardo che, a momenti alterni, correva dal volto emaciato di Chandra a quello terreo di Joy.

Un sospiro tremulo scaturì dalle labbra spaccate e secche di Bharat che, scuotendo mestamente il capo, mormorò: “Niente di tutto ciò che è accaduto, avrebbe dovuto avvenire. Risparmiai la vita di tuo padre perché trovai stupido e inutile eliminarlo.”

Si passò una mano tra i capelli bruciacchiati, prima di proseguire.

“Lo resi inoffensivo tramite il mio veleno, impedendogli di fatto di nuocerci. Manasa avrebbe voluto ben altra sorte, per lui, ma la convinsi che la sua morte ci avrebbe portato troppa attenzione addosso, ed era l’ultima cosa che volevamo. Tutto mi sarei immaginato, però, che lui incontrasse Garuda!”

Nel dirlo, fissò lo sguardo sul viso inerme di Joy.

“Quando ricevetti la telefonata di tuo padre, un mese fa, compresi che evitare lo scontro era ormai impossibile. Manasa avrebbe voluto distruggere Garuda a ogni costo e, con essa, anche tuo padre che, per la seconda volta, minacciava la nostra sicurezza. Fu sconvolta dall’apprendere della presenza di una Pizia dentro di lui. Era infuriata.”

“Lo immagino” sogghignò Morgan, terminando il suo caffè.

Alla televisione, lo speaker stava dando i risultati delle partite di football.

“Il suo primo pensiero fu di distruggere tutto, di eliminare a piè pari Lincoln City, solo per fare un dispetto a Garuda. Anche in quel caso, le ricordai che, prima di tutto, dovevamo pensare alla segretezza della nostra missione. Scoperchiare una città nelle vesti di un mostro, non era esattamente il modo migliore per rimanere lontani dalla notorietà.”

Sorrise senza allegria, mentre le mani si intrecciavano tra loro, nervosamente.

“No di sicuro” asserì Morgan.

“La convinsi a convogliare la sua rabbia solo su Garuda e, senza attendere oltre, la caricai sul primo volo per Phoenix, con la speranza che Amrita si contenesse a sufficienza per giungere qui senza fare danno ad alcuno.”

“Parli di Amrita… non di Manasa” gli fece notare Morgan, accigliandosi.

“Manasa non è cattiva. Amrita, sì. Lo è sempre stata. Era crudele per diletto e per carattere. Lo spirito di Manasa non può plasmare i suoi involucri, così dovette concedere i suoi poteri alla bambina insofferente e capricciosa che era Amrita.”

Bharat sospirò, scuotendo il capo con espressione afflitta.

“Per quanto mi è stato possibile, in questi anni, ho cercato di contenere i danni che avrebbe potuto causare al mondo ma, con la notizia della comparsa di Garuda, non c’è stato più modo di fermarla. La voleva morta.”

“E ora, che succederà?” si informò Morgan.

“Manasa rinascerà nel corpo di una nuova Nagini e, fino a che ella non sarà abbastanza matura per prendere le redini del suo regno, governerà la sua sostituta. Indira sarà una brava regina ad interim, puoi credermi.”

I suoi occhi si illuminarono, al solo parlarne.

“Per questo, hai colto l’occasione al volo. Ti sei fatto ferire subito per uscire di scena e, quando hai visto la tua regina nei guai, ne hai approfittato per servirla su un piatto d’argento a Joy” mormorò Morgan, annuendo più volte.

“Esatto. Anche se non vado fiero di questo, era l’unico modo per salvare il mio popolo, e lei” assentì Bharat, lanciando uno sguardo sinceramente grato a Joy. “Non mi aspettavo mi avrebbe risparmiato. Ero pronto a perdere la vita, pur di liberare i Naga dalla presenza di Amrita, ma Garuda mi ha salvato dalla Stella del Mattino.”

“Sapevi che ne era in grado?” chiese allora Morgan, vagamente incuriosito.

Annuendo, Bharat si limitò a dire: “Conosci il tuo nemico.”

A Morgan sfuggì un risolino ironico, commentando: “Sun Tsu. L’arte della guerra.

“Esatto.”

Con un sospiro stanco, Morgan si passò le mani sul viso prima di alzarsi dalla sedia, avvicinarsi a Joy e deporle un bacio sulla fronte, ancora fredda e umida.

Sembrava così inerme, debole e indifesa quando, dodici ore prima, gli era parsa una stella splendente e ammantata di un potere quasi inspiegabile.

“Faccio una telefonata. La tieni d’occhio tu?” si arrischiò a dire Morgan, lanciando uno sguardo obliquo in direzione di Bharat.

L’uomo si illuminò in viso, annuendo grato, e mormorò: “Sì, mi prenderò cura di lei fino al tuo ritorno.”

“Bene” esalò Morgan, uscendo dalla stanza con passo fiacco.

Avrebbe dovuto farsi una doccia, cambiarsi, ma non voleva passare troppo tempo lontano da lei.

La sua igiene personale avrebbe dovuto aspettare.

Ora era tempo di avvisare chi di dovere. Anche se era ben poco, ciò che poteva dire.

Il capo poggiato contro il muro del corridoio, troppo stanco anche per reggersi in piedi, Morgan accostò il cellulare all’orecchio e, quando udì la voce ansiosa di Alex, mormorò: “Abbiamo vinto.”

“Morgan… sembra che ti abbia calpestato una mandria di bufali. Tu come stai? E Leen?” esclamò ansioso Alex.

“Io sto bene. Stanco morto, ma sano. Joy… beh… sta guarendo” sussurrò Morgan, strizzando gli occhi per non piangere.

Era vero? O si stava solo illudendo?

“In che senso, Morgan? Cos’è successo?” esalò Alex, la voce ridotta a un sussurro.

“La tua mano come sta?” chiese Morgan, eludendo la sua domanda.

“La sto massacrando da un bel po’ di ore. Ho un prurito assurdo, perché?” gli domandò nervosamente Alex, accigliandosi.

“Un po’ di veleno di quella megera le è entrato in circolo, ma la stiamo curando con un antidoto, e Chandra dice che dovrebbe riprendersi” sospirò Morgan, pronto alle inevitabili reprimende del giovane avvocato.

“Che diavolo c’entra lui, adesso?! E che ci fa accanto a Leen? Sei pazzo!?” sbottò Alex, alzando di parecchie ottave il tono di voce.

“Senti, avvocato, è stata Joy a risparmiarlo, ed è stato lui ad aiutarla a uccidere Manasa e, a quanto pare, quell’intruglio che le sta dando la mantiene in vita. Che altro potevo fare, spiegamelo?!”

A quel punto, la rabbia, la frustrazione e il dolore di Morgan esplosero in tutta la loro forza, investendo come un’onda di piena Alex.

“Sono qui, da solo, senza sapere un’acca di magia, o di quello che potrebbe aiutarla a farla stare meglio. L’unico che sa di queste cose era un mio nemico? Beh, non mi interessa un accidente! Basta che la salvi! Scusa se non sapevo più a che santo votarmi, quando ho preso Chandra in casa con me!”

Alex rimase in silenzio per un minuto buono, prima di sospirare e mormorare spiacente: “Scusami tu. Non avrei dovuto aggredirti a quel modo. Tu conosci la situazione meglio di me, e io non ho nessuna ragione di accusarti di non avere abbastanza cura di Leen. So quanto la ami, perciò… insomma, mi spiace. Sono stato un idiota.”

Morgan disse soltanto: “Torno da lei. Tu avvisa gli altri.”

“Morgan…” esalò Alex.

La comunicazione venne interrotta e, ad Alex, non restò altro che fissare impotente il suo cellulare.

Forse, aveva davvero esagerato, con Morgan.

Nel rientrare nella stanza da letto, il giovane pompiere si appoggiò stancamente contro la porta, prima di asciugarsi una lacrima ribelle e mormorare: “Niente?”

“Ha sussurrato il tuo nome, prima. E’ un buon segno. Significa che sta tornando” gli espose Bharat, con un sorriso speranzoso.

“Tornando da dove?” esalò Morgan, impallidendo leggermente.

“Dal luogo in cui le anime si riuniscono per ricevere il giudizio divino” gli spiegò Bharat. “Evidentemente, non era ancora il suo tempo.”


 

  
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