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Autore: SognoDiUnaNotteDiMezzaEstate    29/05/2012    14 recensioni
Era quello che volevo, no? L’occasione giusta per mandare tutto all’aria e concedermi del tempo per me.
Avevo immaginato di mandare al diavolo il mio lavoro e la mia coinquilina tante di quelle volte che nemmeno ricordavo quando la mia insofferenza nei loro confronti fosse iniziata. Quello che non avevo immaginato, però, era di non intraprendere quel viaggio da sola; e che ad accompagnarmi sarebbe stata una delle persone da cui cercavo disperatamente di fuggire in quel momento: Edward Cullen.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Route 66

Please let me take you

Out of the darkness and into the light,

‘Cause I have faith in you

That you're gonna make it through another night.

Stop thinking about

The easy way out

There's no need to go and blow the candle out.

Because you're not done,

You're far too young,

And the best is yet to come.

Nickelback - Lullaby

15. Burns of the past

Non ricordavo molto di quel primo pomeriggio passato a Las Vegas. Oscillavo continuamente fra veglia e sonno, cogliendo attraverso le palpebre socchiuse solo qualche scorcio della camera che diventava di volta in volta sempre più buia; vedevo Edward sdraiato al mio fianco con un libro fra le mani e mi riaddormentavo per diverse ore di seguito, risvegliandomi solo per bere o cambiare posizione. Verso sera finalmente iniziai a sentirmi decisamente meglio, e ringraziai mentalmente le medicine di Carlisle quando sentii di avere perfino caldo a restare sotto le coperte. Gli occhi non bruciavano più, e il mal di testa era scomparso.

«Edward?», gracchiai, con la voce impastata dal sonno e le palpebre socchiuse.

Lo vidi voltare il capo verso di me, e appoggiare il libro sulle sue gambe. «Ehi, ti sei svegliata», disse, sorridendo. Posò la mano sulla mia fronte, controllando la temperatura. «Per fortuna la febbre è scesa. Stavo iniziando a preoccuparmi».

«Mi dispiace», biascicai, richiudendo gli occhi.

Lo sentii alzarsi dal letto, e dopo pochi secondi sedersi di nuovo accanto a me. Riaprii gli occhi, trovando un bicchiere d’acqua fredda ed una pastiglietta bianca tesi verso di me. Bevvi tutto d’un fiato, ingoiando la medicina e tornando ad appoggiarmi ai cuscini, dopo aver infilato il termometro a mercurio sotto il braccio. Edward intanto mi chiedeva se mi andava di mangiare del riso in bianco, e dopo il mio cenno affermativo si spostò verso la zona soggiorno per telefonare alla reception per ordinare la cena in camera. Ricordavo vagamente di non aver pranzato quel pomeriggio, ma non avevo molta fame; tuttavia sapevo che se volevo guarire in fretta completamente dovevo anche provvedere a nutrirmi, quindi non feci molte storie quando Edward appoggiò davanti a me un vassoio da letto con sopra un piatto enorme di risotto in bianco, accompagnato da una bottiglia d’acqua naturale. Mangiai più che potei, fino a sentirmi sazia, mentre Edward cenava seduto al tavolo davanti alla finestra. Gli unici rumori nella stanza erano quelli provenienti dal televisore acceso su un canale che trasmetteva un telequiz. Edward guardava fuori dalla vetrata, restando in silenzio; sembrava perso nei suoi pensieri, ed ero quasi certa che tutti ruotassero intorno all’incontro avuto con suo padre quel pomeriggio. Avevo paura di aver sbagliato assecondando Carlisle in questa impresa, e sebbene Edward avesse detto di non avercela affatto con me per la mia decisione temevo potesse avere dei ripensamenti. Del resto chi ero io per spingerlo ad affrontare qualcosa da cui stava evidentemente scappando? Se aveva deciso di evitare i suoi genitori doveva esserci un buon motivo, e il fatto che io non conoscessi nulla della situazione mi dava ancora meno diritto ad interferire. Ma le parole di Carlisle, il suo tono accorato e la preoccupazione che riuscivo a cogliere anche attraverso il ricevitore del telefono erano stati troppo convincenti, e non ero riuscita a negargli la possibilità di incontrare il figlio, anche se quello significava mentirgli. Se Edward fosse stato arrabbiato con me non avrei potuto lamentarmi, anzi, avrei meritato che mi rimproverasse per aver agito a sua insaputa per qualcosa che non mi riguardava.

Finito di mangiare andai in bagno a rinfrescarmi, riuscendo fortunatamente a tenermi in piedi senza che la testa girasse e le gambe dolessero, e quando tornai in camera vidi Edward ancora seduto al tavolo, il piatto davanti a lui vuoto. Mi avvicinai scendendo con cautela i due gradini che portavano al soggiorno, e arrotolai meglio le lunghe maniche della sua felpa fino ai gomiti. Vedevo il suo riflesso nel vetro, mentre osservava la via principale, illuminata da migliaia di luci colorate; i marciapiedi e le carreggiate erano colme di gente e automobili, le insegne pulsavano al ritmo della musica che sicuramente risuonava da hotel, casinò e ristoranti, e poco più in là il vulcano del Mirage stava eruttando, sprigionando una luce rosso-arancione incandescente che spiccava in mezzo a tutte le altre. I nostri sguardi si incontrarono sulla parete di vetro, e lui voltò il capo verso di me, con un cipiglio contrariato in viso.

«Dovresti riposarti», mi rimproverò.

«Davvero non sei neanche un po’ arrabbiato perché ti ho fatto venire qui da Carlisle?», proruppi, ignorando le sue parole.

Edward dischiuse le labbra, ma non disse niente.

Abbassai lo sguardo. «Adesso sto meglio, quindi se vuoi urlarmi contro o insultarmi per averti mentito puoi farlo», mormorai.

Inaspettatamente, la sua mano afferrò la mia, stringendola delicatamente. Alzai lo sguardo, incrociando il suo. I suoi occhi erano tranquilli. «Avrei preferito che me lo dicessi, è vero. All’inizio mi sono arrabbiato, ma poi ho cambiato idea».

«Perché?», gli chiesi, perplessa.

«Carlisle mi ha fatto capire alcune cose. Se non mi avessi in un certo senso costretto tu a parlargli, probabilmente a quest’ora starei ancora rimuginando su certe cose».

Rimasi in silenzio mordendomi la lingua per frenare le mie domande. Avrei voluto chiedergli cos’era successo a Chicago lo scorso inverno, forte anche della sua promessa di raccontarmi presto tutto, ma non volevo forzarlo, non dopo averlo perfino costretto ad affrontare suo padre così all’improvviso.

Le dita di Edward scivolavano sulle mie lentamente, accarezzando le nocche. «Prima mi avevi chiesto cos’era successo quest’inverno», disse dopo diversi secondi di silenzio, cogliendomi alla sprovvista. I suoi occhi cercarono i miei. «Vuoi ancora saperlo?»

Scossi il capo in segno affermativo, incapace di parlare. Non mi aspettavo si offrisse spontaneamente, non dopo tutte le volte in cui aveva cercato in ogni modo di far cadere il discorso e nascondere la verità.

Si alzò in piedi, e mi condusse fino al divano color panna, sedendosi accanto alla vetrata. Mi misi in ginocchio accanto a lui, pronta ad ascoltare.

Si passò una mano fra i capelli, vagando con lo sguardo per la stanza, fermandolo infine sul tavolino da caffè davanti a noi.

«Dopo che ci siamo lasciati le cose non sono andate proprio bene in ospedale», disse, senza incontrare il mio sguardo. «Ho iniziato a passare le mie giornate in sala operatoria, accettando sempre più casi, anche di più al giorno, per cercare di tenermi impegnato. Dopo qualche mese il dottor Denali - il caporeparto - mi costrinse a rallentare, costringendomi a prendere al massimo tre casi a settimana. Così nei giorni in cui non avevo visite né operazioni giravo per l’ospedale, oppure passavo le giornate seduto nelle gallerie delle sale operatorie». Prese un profondo respiro. «Un giorno mi ritrovai a vagare nel reparto di pediatria, quando all’improvviso sentii qualcosa sbattere contro le mie gambe. Quando mi voltai vidi una bambina di poco meno di otto anni caduta a terra, e sembrava terrorizzata da tutte le persone con indosso un camice bianco. Era scappata da una stanza prima che l’infermiera riuscisse a cambiarla e metterle il camice. Ci volle un po’ per convincerla, ma alla fine riuscii a riportarla all’infermiera, che mi spiegò che Elizabeth era stata ricoverata in attesa di trovare un donatore per il trapianto di cuore».

Trattenni il fiato, mordendomi con forza il labbro inferiore per tacere. Che fosse quella bambina la Lizzy di cui parlava nel sonno?

Edward riprese a parlare, con lo sguardo perso nei ricordi. «Scoprire che quella bambina di soli sette anni si trovava in una situazione simile fece scattare qualcosa in me. Forse anche perché ero l’unico medico che non la spaventava mi aveva spinto ad interessarmi ancora di più al suo caso, e in poco tempo riuscii grazie al dottor Denali a diventare il cardiologo di Elizabeth. I suoi genitori lavoravano tutto il giorno, e spesso la lasciavano da sola, così iniziai a passare le giornate nella sua camera, rinunciando a diversi casi per farle compagnia. Era incredibilmente intelligente, e anche se aveva paura di quello che le stava succedendo riusciva a mantenere la calma quando arrivava il momento delle analisi e i test. Credo sia stata l’unica persona con cui abbia davvero parlato in quel periodo».

Edward rimase in silenzio a lungo, con i pugni stretti sulle ginocchia. Nei suoi occhi e nel suo sorriso mentre parlava di Elizabeth potevo leggere un affetto profondo, una tenerezza che mi faceva sorridere a mia volta.

«Poi cos’è successo?», gli chiesi dopo diversi minuti di silenzio.

Edward chiuse gli occhi. Quando li riaprì il verde delle iridi sembrava essersi incupito. «Passarono i mesi, e non c’era ancora traccia di un donatore compatibile. Le condizioni di Lizzy peggioravano giorno dopo giorno, e il suo cuore non avrebbe retto ancora a lungo. Quando finalmente arrivò la conferma di un donatore la feci preparare per andare subito in sala operatoria, e a quel punto Lizzy iniziò a urlare, implorandomi di aspettare a iniziare affinché i suoi genitori potessero tornare in ospedale e lei potesse salutarli. Non avrei dovuto farlo, ma aspettai per qualche minuto, sperando che i genitori arrivassero, ma Lizzy perse conoscenza e il suo cuore cedette. Iniziai subito l’operazione, sostituendo il cuore con quello del donatore, ma non ci fu più nulla da fare». Sentii la gola stringersi in un nodo, mentre le parole di Edward scivolavano atone su di me. «Alle quattro e trentaquattro del pomeriggio del 24 Marzo 2012 dichiarai il suo decesso».

Il silenzio scese nuovamente nella stanza. Mi umettai le labbra con la punta della lingua, sentendo la gola secca stretta dolorosamente. «Edward», sussurrai, «non è stata colpa tua».

«Ah no?», ribatté, con la stessa voce atona di prima.

«No», risposi, sporgendomi verso di lui. Posai la mano sul suo braccio, cercando il suo sguardo ma non trovandolo. «Hai detto anche tu che le sue condizioni erano peggiorate. Non puoi darti una colpa per una cosa simile. Non sei stato tu a decidere che quel donatore arrivasse così tardi».

«Tu non capisci», sussurrò Edward, e questa volta la sua voce tremò. «Se non avessi aspettato quei cinque minuti… se non fossi stato così coinvolto da Lizzy probabilmente lei sarebbe ancora viva. Se non avessi chiesto a Denali di farmi diventare il suo cardiologo ora quella bambina avrebbe otto anni e quei genitori non avrebbero perso la propria figlia».

Strinsi il suo braccio con più forza, e infine presi il suo volto fra le mie mani, costringendolo a guardarmi. «Non puoi saperlo», dissi con forza, cercando di mantenere un tono di voce asciutto, per non cedere alle lacrime. «Non sei responsabile per la sua scomparsa, Edward. Tu hai solo cercato di fare la cosa migliore, di esaudire quello che poteva essere il suo ultimo desiderio e di salvarle la vita come meglio potevi. Non sei Dio, hai fatto tutto quello che potevi per lei».

«Ma non è bastato», disse fra i denti lui. Potevo vedere i suoi occhi divenire lucidi davanti ai miei.

«Tu ci hai provato con tutte le tue forze. Non potevi sapere come sarebbe finita. Nessuno lo sa mai. L’importante è che hai tentato di salvarla, e sono sicura che anche lei te lo direbbe se potesse», sussurrai.

Edward mi attirò a sé, facendomi sedere sulle sue gambe e appoggiando la testa sulla mia spalla. Accarezzai i suoi capelli lentamente, sentendolo inquieto. «Sareste andate d’accordo voi due», sussurrò dopo alcuni secondi di silenzio. «A volte quando le parlavo mi sembrava di avere una versione bambinesca di te davanti agli occhi, anche se lei aveva i capelli biondi e gli occhi verdi. Diceva sempre che le sarebbe piaciuto conoscerti».

Aggrottai le sopracciglia. «Le hai parlato di me?»

«Ti ho detto che è la persona con cui ho parlato di più in quel periodo. Le piaceva ascoltare, e spesso mi chiedeva della mia vita fuori dall’ospedale per distrarsi. Era molto curiosa», disse.

«Mi sarebbe piaciuto conoscerla», mormorai, «sembra una bambina stupenda».

Sentii la sua presa stringersi leggermente. «Lo era».

Ora che conoscevo la verità mi sentivo in colpa per quella curiosità quasi morbosa che mi aveva assillato intorno al nome di Lizzy. Riuscivo a capire il dolore muto che di tanto in tanto traspariva dagli occhi di Edward, capivo le sue frasi lasciate in sospeso e le sue lacrime di quella notte al Grand Canyon. Mi sentivo anche in colpa per averlo costretto a rivivere quell’esperienza traumatica per due volte nello stesso giorno, dato che Carlisle con ogni probabilità era venuto a parlargli proprio di quello.

«Come mai Carlisle voleva parlarti?»

«Voleva convincermi a tornare a lavoro», rispose dopo un breve sospiro.

«Quindi non sei in ferie adesso», sussurrai.

«No. Mi sono licenziato».

Trattenni il respiro.

«O almeno ci ho provato», aggiunse immediatamente. «Il dottor Denali mi ha sospeso dal mio incarico a tempo indeterminato. Vuole che superi il test psicologico per tornare a lavorare, ma non ne ho alcuna intenzione».

«Non vuoi più fare il cardiologo?», gli domandai, spaventata.

«Non lo so. Non credo», rispose, sottovoce. «Guarda dove sono arrivato seguendo questa strada. Una bambina di sette anni ha perso la vita, e ho perso te. Forse dovrei cercare un altro lavoro».

«Tu sei un medico, Edward. Hai studiato tutta la vita per esserlo, non puoi voler mandare tutto all’aria così».

«Non sono nemmeno riuscito a capire che avevi l’influenza questa mattina. Questo la dice lunga su che razza di medico sono. Sarebbe meglio per tutti se mi ritirassi, credimi», bofonchiò seccamente contro la mia spalla.

«Tutti facciamo degli errori, Edward. Questo non significa che appena li commettiamo dobbiamo cambiare rotta, però», dissi, preoccupata.

Questa volta Edward non ribatté.

«Vuoi andare a dormire?», mi chiese qualche minuto dopo, sollevando il capo dalla mia spalla. La sua voce era spezzata.

Annuii, e scivolai giù dalle sue gambe, alzandomi in piedi. Edward raggiunse il tavolo, sistemò i piatti della cena sul carrello del servizio in camera e si diresse verso la porta per lasciare il tutto nel corridoio. Mentre si allontanava andai verso il letto, sfilandomi la felpa, ormai troppo pesante e calda per i miei gusti. E lì, sulla spalla, dove Edward aveva nascosto il viso solo pochi minuti prima, scorsi le macchie scure lasciate dalle sue lacrime silenziose, che spiccavano sul tessuto grigio come gocce di sangue.

Cacciai indietro l’istinto di piangere e mi ritirai sotto le coperte, aspettando Edward. Quando mi raggiunse lasciai che le sue braccia mi circondassero, premendomi contro di lui e intrecciando le gambe alle sue. Avrei voluto dirgli tante cose in quel momento: che io ero lì con lui e non l’avrei lasciato, che doveva smetterla di torturarsi con la convinzione errata di aver ucciso Lizzy, e che ero certa che lei - se davvero era simile a me - l’aveva perdonato e non lo accusava di nulla. Ma non dissi nulla di tutto ciò, incapace di trovare le parole giuste per non turbarlo ulteriormente. Ricambiai la sua stretta più forte che potevo, sperando che in essa Edward cogliesse parte di ciò che provavo, e capisse che per lui c’ero e ci sarei sempre stata.

 

Ci risvegliammo il mattino dopo nella posizione in cui ci eravamo addormentati, con una fioca luce che filtrava dalle tende tirate bene davanti alla vetrata che avvolgeva la stanza in una semioscurità piacevole. Non c’erano rumori intorno a noi, solo silenzio e pace. Ruotai nell’abbraccio di Edward, fino a ritrovarmi con il viso davanti al suo. I suoi occhi erano spalancati, e mi osservavano indecifrabili. Con la punta delle dita sfiorai le ombre scure sotto i suoi occhi, chiedendomi se avesse dormito o fosse rimasto a pensare a Lizzy e a quello che era successo.

«Stai bene?», gli chiesi, con la voce ridotta a un sussurro.

Un angolo delle sue labbra si piegò verso l’alto. «Dovrei essere io a chiedertelo», mormorò divertito. Avvicinò il viso al mio, posando le labbra sulla mia fronte, testando la mia temperatura. «Non hai più la febbre per fortuna».

«Sto bene, infatti», gli assicurai, stringendo un braccio intorno al suo busto. «E tu?»

«Sto bene», disse a sua volta, chinando il capo per incontrare il mio sguardo. Sfiorai le sue labbra con le mie, stringendomi a lui. Le sue mani trovarono il mio viso e i miei capelli, intrecciandosi ad essi e tenendomi ferma mentre si spingeva contro di me, fino a farmi rotolare con la schiena sul materasso. Allacciai le gambe intorno al suo bacino, premendo le dita nella sua schiena, fino a quando i nostri corpi non furono l’uno contro l’altro, mentre la sua lingua scivolava sulla mia e reprimeva un gemito nella mia bocca. Si staccò lentamente, passando una mano fra i miei capelli, tirando indietro le ciocche dalla mia fronte. Sospirò contro le mie labbra. «Andiamo a fare un giro dei casinò?», sussurrò, scivolando con la bocca attraverso la mia guancia, risalendo verso la tempia.

«Adesso?», fiatai, infilando la punta delle dita sotto l’orlo della sua maglietta, sfiorando la pelle della sua schiena.

Lo sentii trattenere una risata. «Oppure possiamo rimanere qui ancora un po’», mormorò, e contro la tempia avvertii il suo sorriso malizioso, mentre con una mano accarezzava la pelle del fianco da sotto la mia maglietta, spostandosi sempre di più verso l’altro. Trattenni il fiato quando sentii le sue dita passare sopra le costole, e piegai il capo per incontrare le sue labbra. Facendo leva sulle sue spalle lo spinsi a rotolare sul fianco, fino a invertire le nostre posizioni e a trovarmi stesa sul suo petto, con le gambe intrecciate alle sue.

Prima che la situazione mi sfuggisse di mano mi allontanai, e con un balzo scesi dal letto, dirigendomi verso il bagno. Lanciai un’occhiata ad Edward, che mi osservava con un sopracciglio inarcato e l’espressione interdetta. Feci un sorrisino. «Non volevi andare a vedere i casinò? Las Vegas ci aspetta», dissi, ripetendo le stesse parole che solo il mattino prima aveva detto lui, quando non volevo alzarmi dal letto.

Mi chiusi in bagno, mentre Edward si lasciava andare contro i cuscini sospirando.

 

Il sole di Las Vegas era bollente. Anche con cappellino e occhiali da sole potevo sentire i raggi battere con forza sulla testa, e l’afa desertica che assediava la via principale non permetteva di respirare. Venditori ambulanti erano appostati ad ogni angolo sotto un ombrellone, con casse di ghiaccio colme di bottiglie d’acqua e bibite, che in pochi minuti venivano esaurite. Iniziammo il nostro giro dei casinò a partire dal Circus Circus, un complesso più piccolo di quelli degli altri hotel più centrali, costruito come un vero tendone da circo, dentro al quale si trovava un piccolo lunapark al chiuso: c’erano bancarelle a premi, trapezisti che saltavano da una parte all’altra appesi a funi e ganci nel soffitto, un roller coaster che si intrecciava in aria e un enorme palcoscenico dove clown di ogni tipo si esibivano circondati dai tavoli d’azzardo e le slot-machine. Il soffitto era buio, illuminato dalle luci delle bancarelle e dai proiettori del palco, e la musica era quella tipica dei lunapark, accompagnata dalle risate sguaiate dei clown e quelle divertite degli spettatori. Sebbene fosse un posto quasi infantile, c’erano pochissimi bambini.

Edward cercò di insegnarmi a sparare con il fucile ad aria compressa di una bancarella, il cui scopo era quello di abbattere quante più lattine disposte possibili per vincere un peluche. Quando terminammo il giro del casinò avevamo collezionato quattro diversi peluche piccoli, ed un Topolino gigante che Edward aveva vinto nel gioco della pesca dei cigni, riuscendo a raggiungere il livello massimo. In una qualsiasi altra città sarebbe stato strano e buffo vedere un uomo di trent’anni girare per le strade con un topo gigante sulla schiena, ma a Las Vegas tutto ciò che era curioso o insolito sembrava essere la norma.

Ci fermammo davanti al Treasure Island, dove si trovava una passerella di legno con parapetti di corda che si affacciavano su una piscina ampia, in cui galleggiava un’enorme nave dei pirati, con dietro la ricostruzione di una cittadina in cui si muovevano alcune donne in vestiti d’epoca. Lo spettacolo durò poco più di un quarto d’ora, con finti colpi di cannone e schizzi d’acqua che arrivavano a bagnare anche il pubblico, e piratesse in abiti succinti che ballavano sui parapetti delle navi tenendosi alle corde.

Subito dopo tornammo all’hotel per lasciare alla reception i pupazzi, e riprendemmo il nostro giro dei casinò, saltando il Mirage - l’hotel che aveva come attrazione principale il vulcano - per poter tornare a vedere lo spettacolo dell’eruzione una volta tramontato il sole. Attraversammo la strada e ci avventurammo per i giardini del Caesars Palace, che intervallava zone verdi con fontane che riproducevano quelle d’epoca a zone di pietra grigia e bianca, che ricostruivano i fori romani e i templi antichi; dopo aver attraversato anche un teatro in pietra entrammo nell’hotel, dalla zona dei negozi che si allungava fino alla Flamingo Avenue al piano terra. Sostanzialmente era distribuita come l’area commerciale del The Venetian, senza il canale che percorreva le vie principali e con molte più fontane in stile rinascimentale sistemate al centro delle piazze situate all’incrocio delle varie vie. Ci fermammo a pranzare proprio in una di queste piazze, al centro della quale una fontana di bronzo rappresentante il dio romano del mare - Nettuno -, avvolta da un leggero fumo bianco che fuoriusciva dalle bocche da cui fluiva anche l’acqua a cascate nelle vasche sottostanti. Intorno alla piazza le pareti erano costituite da un enorme acquario che andava dal pavimento al soffitto, e pullulava di pesci di ogni forma, colore e dimensioni; bambini e adulti si accalcavano contro le pareti per osservare i piccoli animaletti nuotare nell’acqua, e di tanto in tanto c’era il bagliore dei flash fotografici.

Una volta pranzato andammo al Bellagio, fermandoci a bere qualcosa nel piccolo giardino dell’hotel, racchiuso fra quattro pareti ed una cupola di vetro e ferro. All’interno c’era anche una piccola ruota panoramica gialla e arancione, e nelle aiuole c’erano innaffiatoi enormi appesi per aria che spruzzavano acqua sulle piante, mentre alcune gabbie di pappagalli erano posizionate agli angoli della serra. Le piante e i fiori erano sistemati in composizioni coloratissime, e anche in giro per l’hotel si potevano vedere aiuole decorate da mongolfiere, fontane e ombrelli colorati. Nel lago davanti all’ingresso le fontane erano costantemente in funzione, e sulle balaustre si accalcavano frotte di turisti con macchinette fotografiche alla mano.

Successivamente andammo al New York-New York, e convinsi Edward a fare un giro sulle montagne russe che si intrecciavano intorno alle ricostruzioni di grattacieli fino all’aria aperta, per poi tornare all’interno sopra alle slot-machine del casinò. Finito il breve giro di negozi andammo anche a vedere velocemente i due hotel più lontani degli altri, ovvero l’Excalibur e il Luxor, che osservammo dall’esterno senza però entrare, decidendo di andare direttamente agli MGM, dove si trovava una sala con pareti di vetro dentro al quale erano tenuti due leoni in carne ed ossa. Arrivammo proprio nel momento in cui un addetto si recava all’interno della gabbia per portargli da mangiare, e mi stupii nel vedere quanto fossero docili ma al tempo stesso pericolosi con le loro zanne bianchissime in bella vista. Subito dopo ci mettemmo anche in fila per fare la foto con il leoncino, sdraiato su una piattaforma grigia. Ritirammo la nostra fotografia al bancone, e poi entrammo al Paris, dove restammo più a lungo a girare per le stradine mentre la musica delle fisarmoniche risuonava dai locali. Ci fermammo a mangiare qualcosa e a riposarci, scoprendo con grande sorpresa che era già sera. Quando uscimmo il cielo era già buio, e le strade brillavano di mille insegne diverse. Un autobus con luci al neon e tende rosse passò con la musica a tutto volume accanto a noi, e attraverso le vetrine che aveva al posto delle fiancate vidi diverse ragazze fare la strip-dance attaccate ai pali. Ai lati della strada, oltre ai consueti venditori di bibite, erano apparse altre persone, che tendevano biglietti riportanti donne mezze nude e insegne di locali a luci rosse. Quando Edward se ne ritrovò uno fra le mani lesse lo slogan riportato sotto il nome del locale, divertito. Gli strappai il foglietto di mano, accartocciandolo e gettandolo nel primo bidone che trovai con un gesto stizzito. Lui rise.

Tornammo al The Venetian, portammo i nostri acquisti della giornata in camera e poi scendemmo alla zona dei locali del resort per andare a cena. Quando terminammo decidemmo di fare un giro per il casinò, affollato giorno e notte.

Passammo accanto a un tavolo d’azzardo dietro al quale si trovava un’automobile su un piedistallo. Era una spider di quelle di lusso, che costava un occhio della testa. Non era la prima che vedevo messa in gioco quel giorno.

Ci fermammo vicino a delle slot-machine, ma dopo un paio di giocate andate in fumo rinunciai a perdere altri soldi con quelle macchinette infernali. Invece, seguii Edward fino ai tavoli da gioco, dove diversi uomini stavano giocando a black jack, alcuni affiancati da donne in abiti succinti che non ero proprio sicura conoscessero veramente. Mi strinsi al fianco di Edward, vedendo gli sguardi delle ragazze vagare dagli uomini di mezza età che accompagnavano al mio ragazzo.

«Che ne dici?», mi chiese Edward, strappandomi ai miei pensieri. «Proviamo?»

Guardai la mazzetta di fishes che teneva in mano, e annuii lievemente, dicendomi che non c’era niente di male a provare per una volta. Una cameriera del bar si avvicinò al banco, chiedendo se qualcuno voleva qualcosa. Dato che mi sembrava ridicolo ordinare qualcosa di analcolico in quella situazione optai per la prima cosa che mi venne in mente e che avevo sentito ordinare da Edward, ovvero un Manhattan.

Quattro partite dopo, Edward aveva vinto tutti i soldi degli altri giocatori, che si erano ritirati e avevano lasciato il posto ad altre persone, che continuavano ad aggiungere soldi in palio, sperando di fare il colpaccio e guadagnarsi il gruzzoletto che Edward aveva messo su in poche partite. Vidi i suoi occhi scrutare quelli degli altri uomini, poi tornare alle carte che teneva in mano e a quelle che erano disposte sul banco. Era il suo turno. Mandai giù un altro sorso di quello che era un bicchiere di cui ormai avevo perso il conto, chiedendone un altro alla cameriera. Non potevo fare molto per Edward in quella situazione, così restavo al suo fianco soffocando l’ansia nei bicchieri.

Gli altri tre uomini mostrarono le loro carte, e uno di loro scoppiò a ridere, mostrando una combinazione vincente. Edward aspettò qualche secondo, poi scoprì la sua mano, e l’altro smise di ridere, mentre il banchiere annunciava la sua vittoria, iniziando a spostare le fishes da lui a quelle di Edward, che ormai aveva collezionato una piccola montagna. Lasciai andare un piccolo grido di sorpresa, attaccandomi al suo braccio.

«Non posso crederci!», continuavo a dire, ogni volta che il banco annunciava Edward come vincitore. Lui sorrideva, fermandosi solo per bere un bicchiere di whisky.

Gli uomini intorno a lui continuavano a cambiare tranne uno, che rimase seduto lì, ad un posto da Edward, mentre le cameriere facevano avanti e indietro con i bicchieri colmi di cocktail. Dopo un’altra partita l’uomo che era rimasto per tutto il tempo a giocare era ormai senza fishes. Ero certa che si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato infuriato, ma con mia enorme sorpresa mise in gioco una piccola scatoletta di raso, che aprì per mostrare a tutti i partecipanti quale fosse la sua posta in gioco. Credevo che Edward se ne sarebbe andato, ma decise di restare, e quando vidi che alla fine della partita parte delle sue fishes tornarono nelle mani di quell’altro uomo pensai che fosse arrivato il momento di andarsene, prima che Edward perdesse tutto quello che aveva guadagnato.

«Aspetta», mi disse, prima che mi alzassi. «Solo un’altra partita. Fidati di me».

Non potei fare altro che restare al suo fianco, e quando lo vidi mettere tutto quello che aveva sul banco in palio sperai di affogare nell’alcol del mio bicchiere.

 

Mi risvegliai a causa della luce del sole, che filtrava attraverso la finestra, le cui tende erano rimaste spalancate. Grugnii, coprendomi gli occhi, provando una scarica di dolore alle tempie. Quando provai a spalancare le palpebre pochi minuti dopo, capii di avere indosso ancora gli abiti della sera precedente, e sentii la bocca e la gola secca. Accanto a me scorsi il profilo di Edward, sdraiato a pancia in giù e con una mano ancorata al mio fianco, a tenerci vicini. Era ancora addormentato e anche lui non si era cambiato prima di addormentarsi.

Passai una mano piacevolmente fredda sulla fronte, sperando di scacciare il pulsare doloroso del mal di testa, inutilmente. Il mio sguardo si soffermò su di essa, la mia mano sinistra, e su un piccolo cerchio di metallo sovrastato da un diamante che fino a ieri ero certa non ci fosse, posizionato sull’anulare.

I miei occhi si sgranarono, e un urlo lasciò le mie labbra prima di riuscire a fermarlo.

***************************************************

Il Diario di Bella - blog dove potete vedere immagini dei luoghi visitati nel corso della storia.

Salveee!

Chiedo scusa per il ritardo di questa settimana, ma lo scorso weekend sono stata fuori città e non ho avuto il tempo di scrivere nulla.

Spero che finalmente tutti i dubbi su Lizzy siano stati cancellati. Ovviamente la situazione di Edward non è ancora sistemata, ma già il fatto di aver raccontato tutto a Bella è un bel passo avanti. Ora cosa sarà successo durante la notte al casinò? :D A voi le ipotesi!

Grazie mille come sempre a tutti coloro che continuano a seguire e anche ai nuovi lettori :*****

Alla prossima settimana :D

   
 
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