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Autore: PiccolaWriter    29/05/2012    2 recensioni
Sam ed Emily si sposano, Bella ed Edward sono spariti nel nulla, Leah cade in depressione e Jacob s'improvvisa psicoanalista.
Una raccolta di One-Shot incentrate sulla coppia Jacob/Leah, a volte un po' melodrammatica, a volte un po' ironica, senza nessun senso e nessuna pretesa.
Genere: Commedia, Drammatico, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Jacob Black, Leah Clearweater | Coppie: Jacob/Leah
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Leah era scesa dalla vecchia Golf sbattendo forte lo sportello.
Il vento aveva soffiato sui coriandoli di ruggine caduti per la botta secca, facendoli turbinare attorno ai suoi piedi. Lei, irritata com’era, non se ne era nemmeno accorta: era troppo altera, teneva le braccia strette al petto, appena sotto il seno, e stava col volto basso, il mento così incavato nel collo che quasi le sfiorava le clavicole magre, sporgenti.
Nel suo sguardo rabbuiato stava per infuriare una tempesta. Le sue labbra erano strette, una linea calda, minacciosa e carnosa. Le sopracciglia erano aggrottate sulla fronte liscia, sgombra, perché i capelli li aveva tirati all’indietro con una mano, prima, distrattamente, li aveva fissati con rabbia dietro le orecchie, di malo modo.
Erano diventati più lunghi, quasi le toccavano le spalle. Erano scarmigliati, arruffati come piume di corvo.
Ora che li guardava meglio, vide che erano un po’ lisci un po’ ondulati sulle punte, senza senso, indomabili.
Come lei.

I capelli?
Indomabili? Come lei?

Jacob scosse la testa e si riprese dall’apparente stato di trance in cui era caduto.
Cosa diamine si era ridotto a pensare - e che paragoni faceva, porca miseria! - non lo sapeva più neppure lui. Per un momento fu sconvolto da se stesso e dai suoi pensieri.
Si stava capacitando del fatto che ogni tanto gli capitava di imbambolarsi nel fissare Leah. Ogni tanto. Ogni tanto spesso, diciamo. E poi, non è che fosse voluta quella cosa, assolutamente: era una cosa che mica lui prevedeva, anzi, lo coglieva di sorpresa, pareva starsene sempre lì in agguato, pronta a sorprenderlo. Quando gli capitava di guardare per caso Leah, ma non sempre, solo ogni tanto, gli capitava di rimanersene così, inerme, senza sapere come, cominciando a concentrarsi su cose che non aveva mai notato prima in lei. Erano perlopiù sciocchezze, insomma, niente di chissà che.
La cosa fastidiosa era che non riusciva più a fare nient’altro, quando la cosa lo prendeva e lo costringeva a stare l', imbambolato, a fissarla. Senza trovare la forza di spostare gli occhi altrove, su qualunque altra cosa non la riguardasse. Era frustrante.
Ma si stava rendendo conto di un sacco di cose, diamine, un sacco di cose che prima gli erano sfuggite. Ad esempio, cose futili, come il fatto che la rabbia le allungasse gli occhi, glieli schiacciasse, le arricciasse il naso. Che quelle sopracciglia corrugate sembrassero ali arruffate di corvi, spalancate su quegli occhi da lupa arrabbiata.
Che la sua voce, quando era così a disagio, avesse il sapore d’un miscuglio di acido muriatico, tequila, sale e limone. Anzi, solo d’acido muriatico e tequila, senza nient’altro, solo quei dui con il loro saporaccio amaro che brucia il palato, il naso, e annebbia un po’ la mente.

- Non guardarmi così - aveva ringhiato lei a denti stretti, trucidandolo con un’occhiata, sentendosi i suoi occhi troppo addosso - chiudi quel catorcio e datti una mossa. Non ho intenzione di passare più tempo del dovuto in questo posto così rivoltante.

Come se il destino avesse intenzione di invitare Leah a sfoderare tutto l’arsenale del suo delicato vocabolario, in quel momento sul marciapiede passarono due ragazze. Erano abbronzate, entrambe bionde, entrambe strizzate in abitini da Barbie, ed entrambe che camminavano - ancheggiavano ocheggiando, corresse Leah, soggiungendo che sembravano allenate a farlo - con le braccia piene di sacchetti e sacchettini laccati, che riportavano sui dorsi le firme dei negozietti più chic di Port Angeles. Ridacchiavano tra loro parlottando di chissà che: d’un tratto una delle due, da dietro i grandi occhiali da sole, si soffermò nell’osservare Leah. Sulla sua faccia abbronzata artificialmente comparve un disgusto di poco inferiore a quello che c’era stampato sul volto di Leah, nei suoi occhi di brace. Stizzosa, la Quileute ricambiò con un’occhiataccia da brividi, e quell’altra, stupita, spostò lo sguardo su Jacob, fissando le sue braccia muscolose molto più del necessario. Dapprima sorpreso, poi compiaciuto, Jacob le assecondò mostrando loro il più Jacobico dei suoi sorrisi. Quella diede di gomito all’altra, ma poi con un risolino le due si allontanarono.
Leah sbuffò forte dal naso e gli aveva già dato le spalle. Brutto segno.
Jacob sospirò, pentendosi di ciò che aveva fatto - cioé l'idiota - girò la chiave nella toppa per chiudere la macchina e poi seguì lei che, spedita e rigida, a passo di marcia, ancora più disgustata da quello che aveva appena visto, già stava facendo ingresso per la prima volta in un centro commerciale.

- E spero sia l’ultima della mia vita - aveva masticato disgustata, sottovoce, sovrappensiero.

Una musichetta allegra accompagnò l’apertura delle porte automatiche, poi una sferzata d’aria condizionata li schiaffeggiò. Jacob le si avvicinò, ma lei non lo stava guardando. Si era stretta ancora di più le braccia sotto il seno, aveva abbassato un po’ le spalle e si guardava intorno con inquietudine.

- Dove diamine siamo? In un freezer?

- La tua temperatura corporea è di quarantadue gradi centigradi come minimo, Leah. Come fai a sentire freddo?

- Non sento freddo, infatti - berciò irritata - è che mi danno fastidio le temperature innaturali.

Jacob sospirò, ma decise che scuotere la testa e alzare pazientemente gli occhi al cielo sarebbe stato migliore che tentare di malmenarla pubblicamente. Anche perché lei, di certo, appena capite le sue intenzioni violente, non si sarebbe fatta sfiorare con un dito ed anzi sarebbe partita subito all’attacco. Già se l’immaginava, lei, con le labbra arricciate a scoprire i denti, col petto ansante mentre la rabbia le montava dentro, e cominciava a possederla. Con la furia che le incendiava gli occhi, quegli occhi che assottigliavano ancora di più, oscurandosi, ed i suoi polsi, i suoi polsi sottili scossi dai tremori del corpo, della lupa che le ringhiava già nella gola...
Oddio, di nuovo.

- Ehm - balbettò, per distrarsi - da dove cominciamo?

- Non so.

- Che ti serve?

- Tutto. Le scarpe, l’abito, la borsa.

- A che può servirti una borsa ad un matrimonio?

- Non lo so! E’ stata mia madre a dirmelo. Oh, ti prego, non cominciare, sono voluta venire qui con te per non sentirmi messa sotto pressione da una donna che si sforzi di capire qualcosa di abbigliamento, a differenza di me. Adesso ti metti a fare anche questioni?

- E cosa vuoi che faccia?

- Limitati al supporto morale - sibilò, con una sorrisetto tirato ed una scrollata di spalle.

Jacob sospirò ancora e si passò una mano sulla nuca. Cominciò a camminare tra la gente con Leah al fianco, cominciò a guardarsi intorno. Non c’era niente che attirasse la sua attenzione, i negozi gli sembravano tutti uguali, le facce che gli sfilavano accanto pure, i visi che trasmettevano nei grandi teleschermi appesi in alto, accanto alle lunghe scale mobili, non gli dicevano nulla. Lo annoiavano. Era quella la vita di città? La trovò piuttosto noiosa.
D’improvviso un’odore caldo e familiare gli giunse sotto il naso: si voltò di botto, era stata una folata proveniente dal condizionatore lassù, puntato su di loro, a spingergli in faccia l’odore di Leah. Per un momento il centro commerciale scomparve, c’era solo lei. Non sembrava essersi accorta di nulla, nemmeno del fatto che Jacob la stesse fissando di nuovo; adesso Leah camminava con più scioltezza e sembrava che stesse cominciando a sentirsi a proprio agio, lì dentro. Le sue labbra si erano ammorbidite, non erano più una linea retta e fissa, adesso si modellavano e si increspavano piano in un mezzo sorriso. I suoi occhi si guardavano attorno curiosi, si incollavano ad una vetrina per poi fuggire su un’altra più appariscente, più luminosa. Guizzavano rapidi sulle grandi scritte che catturavano la sua attenzione, il sentore delicato delle essenze la attirava sulla soglia delle profumerie - ma lei arretrava all’ultimo passo, timorosa, e poi tornava ad esplorare con lo sguardo qualcos’altro.

- Qui c’è scritto boutique - fece Jacob, fermandosi e tirandola piano a sé.

Leah alzò gli occhi al cielo, scrollandosi la sua mano dal braccio coi suoi modi gentili.

- So leggere, grazie.

- Entriamo?

Leah gli rivolse un’occhiata truce ma ingoiò il rospo ed entrò. Volente o nolente, avrebbe dovuto comprare qualcosa da mettersi addosso, non avrebbe mica potuto presentarsi alla cerimonia in short e camicia a quadretti.
Jacob la guardò mentre il disagio ricominciava a riaffiorare sui suoi tratti. Fissava terrorizzata le file di abiti multicolore alle pareti, nelle varie zone dell’ambiente: tutti quei colori sembravano averla abbagliata, intimorita. Il colmo fu quando dal nulla sbucò una sorridente commessa, che con i suoi modi gentili cercò di capire cosa stesse cercando la nuova possibile cliente. Cominciò a farle domande del tipo quanto prendi di misura? e Leah, zitta e con le labbra di nuovo contratte, si limitava a guardarla di traverso, con uno sguardo tra il confuso e il malfidato, come se le avesse parlato in aramaico antico.
Jacob si girava, fingendo d’interessarsi a qualche capo in particolare, per non farsi vedere da Leah mentre si tratteneva i singhiozzi delle risate. Dovette ficcarsi il pugno in bocca, tra i denti, quando ad un certo punto la commessa mise sul banco un abitino in pizzo, a dir poco succinto, cortissimo, senza spalline, con delle trasparenze evidenti laddove non avrebbero dovuto esserci, ma di un delizioso color carta da zucchero, molto di moda per questa stagione estiva! - come tenne a precisare la commessa.
Era impossibile non ridere dell’espressione imbarazzata della Quileute, delle sue guance scure che cominciavano a colorarsi, diventando inverosimilmente ancora più scure, come cioccolato fondente; era impossibile non trovare buffo il modo in cui increspava la fronte, in evidente difficoltà di comunicazione, e come si portasse nervosamente i capelli ribelli dietro le orecchie. E quelli, come per dispetto, le scivolavano sempre via, davanti gli occhi, quasi a farlo apposta.
Era troppo buffa.
Leah si stampò un sorrisetto tiratissimo sulla bocca, prima mormorando un debole non credo sia il mio genere alla commessa già mortificata dalle risate trattenute da Jacob. Poi si girò di scatto per fulminare Jacob con un’occhiata, serrando la mascella con profonda irritazione.

- Probabilmente questo è più il tuo genere, vero Jake? - disse, fra denti stretti.

Colpito e affondato.
La commessa si coprì educatamente la bocca col dorso della mano per non ridergli in faccia, e Leah, soddisfatta della sua risposta, si voltò orgogliosa verso il bancone, con un sorrisetto malefico stampato in bocca, quella bocca maledettamente carnosa, quella bocca maledettamente desiderabile, quella bocca dalle labbra increspate, imbronciate, adesso trionfanti, adesso un po’ più arricciate, presuntuose; labbra umide, calde, arrossate, morse ora dai denti bianchi, dalle sue piccole zanne, adesso lasciate in pace, soffici... Cavolo, di nuovo?
Jacob cercò di riprendersi, senza accorgersene s’era imbambolato di nuovo. Si morse la lingua e staccò a forza gli occhi da quelle labbra che lo stavano ossessionando, capaci di essere dolci come la cannella e di sputare fuori cose più amare di uno yogurt andato a male.
Vide che Leah aveva preso tra le mani un altro abitino, era sempre di pizzo ma un po’ più coprente di quello di prima, se lo spingeva addosso, sul petto, e si guardava con la testa inclinata allo specchio.

- Vuoi provarlo sì o no, arpia?

Guardandolo attraverso il riflesso dello specchio, Leah gli fece una linguaccia.

- Un attimo di pazienza. Appena finisco, te lo faccio provare.

La commessa ridacchiò ancora. Cominciava a stare sui nervi a Jacob, che si guardò attorno scocciato, sbuffando. Quando si voltò Leah non c’era più, e nemmeno la commessa. Seguì l’odore acre e fastidioso del profumo usato dalla commessa - una colonia troppo pesante - e trovò in un corridoio la scia di Leah, più familiare, leggera e piacevole. Muschio, pioggia, frutti di bosco, legna, cotone, caramello, qualcos’altro. La aspirò tutta, fermandosi di fronte alla porticina del camerino. La sentiva trafficare con qualcosa.

- Attenta a non strappare nulla. Chi rompe paga.

- Umpf, lo-lo so!

Jacob poggiò una mano sulla porticina.

- Hai bisogno di una... uhm, mano?

Leah aprì la porta d’improvviso, lasciandolo per un momento così, ancora chino sulla maniglia, con le spalle irrigidite e l’espressione sorpresa. La vide come non l’aveva mai vista prima: indossava finalmente un abito degno di tale nome. Era di quella stoffa che pareva pizzo ma non lo era, era una stoffa leggera, ricamata, di un color pesca delicato. Scivolava sulle sue forme, avvolgendole perfettamente ai fianchi torniti, al seno piccolo. Le lasciava scoperte le gambe abbronzate dal ginocchio in giù, la scollatura era molto modesta davanti, ma quando Leah si volse, dandogli le spalle per farsi dare una mano, Jacob ammirò la profonda scollatura che le lasciava nuda metà schiena.

- Alzami la cerniera - bofonchiò, spingendosi con una mano l’abitino verso il basso, con l’altra tenendosi la cerniera.

Jacob fece appena in tempo ad incontrare i suoi occhi neri nello specchio del camerino, prima di fare ciò che lei non gli avrebbe impedito di fare. Le poggiò una mano su quella pelle scura, nuda, bollente, e con l’altra le prese un fianco e la spinse dentro il camerino, tirandosi la porticina e facendo scattare la serratura. Erano chiusi lì dentro, in quel poco spazio, lei con la schiena nuda contro la superficie dello specchio, incollata a lui, coi suoi capelli scarmigliati, sugli occhi aperti, incollati alle labbra dischiuse.

- Che-diavolo-ti-salta-in-ment... - sibilò lei, prima che lui la zittisse svelto con un bacio da affamato.

La schiacciò ancora di più contro lo specchio. Le mani calde di Jacob, freneticamente, andarono alla ricerca della cerniera per metà chiusa, aprendola immediatamente, e poi scesero sulle sue spalle, ad abbassare con non molta delicatezza l’abito per liberarle la pelle. Leah sussultò quando la sua lingua ardente le carezzò il palato, quando le sue mani brusche la toccarono con una brama che non avrebbe mai immaginato.
Il camerino si riempì dei loro ansimi bassi, spezzati, che mettevano a tacere l’uno nella bocca dell’altro.
E, dopo un po’, anche della colonia pesante della commessa, appostata davanti la porticina chiusa.

- Ehm, signorina, andava bene la misura, o vuole farlo provare al suo amico?








   
 
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