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Autore: OtoyaIttoki    01/06/2012    1 recensioni
La figlia di un temibile serial killer e il figlio del più grande detective del mondo si incontrano fortuitamente all'insaputa dei propri padri, innescando così uno strano "gioco" del destino. A cosa porterà tutto questo?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Beyond Birthday, Naomi Misora, Near, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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«Miho-san, è da un sacco di tempo che non ci vediamo.»

Quella voce cordiale, condita da un sorriso pre-confezionato, risultava alquanto odiosa alle mie orecchie. Non era tanto la voce a infastidirmi, quanto il suo possessore: Raye Penber, uno dei detective a capo della squadra omicidi, trasferitosi diversi anni fa in Giappone dall’America.

Fisicamente, nonostante ormai non fosse più un giovincello, era ancora prestante e quindi appetibile per tutte le donne sulla quarantina rimaste single; per quanto ne so spesso i poliziotti esercitano un certo fascino sulle rappresentanti del gentil sesso.

Se sono americani ancora meglio, dato che vengono idolatrati e considerati gli “eroi” del mondo.

Anzi, diciamo che loro si divertono a farci credere di essere così, quando in realtà sono i carnefici di molti conflitti.

Al contrario, Penber era solo il protagonista di alcuni miei conflitti interiori…roba da poco.

«Buongiorno, Penber-san.» esordii formale, accennando un inchino ed evitando volutamente di guardarlo negli occhi.

Forse perché non volevo fluttuare nel falso perbenismo che dettava la maggior parte dei miei comportamenti.

O forse perché non volevo incontrare il suo sguardo indagatore che, in un certo qual senso, mi faceva sentire nuda, priva di qualsivoglia protezione.

Quanto mi piacerebbe dire tutto ciò che mi passa per la testa e, invece, come sempre devo adeguarmi agli schemi imposti dalla società.

In fondo, anche la libertà d’espressione ha le catene come i cani.

Sono convinta che se rivelassi a Penber la mia ostilità nei suoi confronti, mia madre ne rimarrebbe delusa, e questa è l’ultima cosa che voglio.

Non merita di soffrire ancora ed è giusto che si rifaccia la vita con un uomo che la stimi e la ami.

Ma che io, a pelle, non sopporto.

Nemmeno io ricordo bene come sia riuscito ad intrufolarsi in casa nostra, tuttavia so che in passato lui e mia madre hanno collaborato insieme a diversi casi; e a quanto pare oltre ad un legame lavorativo, se n’è creato un altro nella sfera sentimentale.

Comunque, la cosa che mi fa maggiormente innervosire è la sua apparente mancanza di difetti: è bello, gentile, onesto, disponibile e riempie di attenzioni mia madre.

Senza dubbio, il principe azzurro che tutte le donne sognano.

Che nel mio subconscio provassi una punta di invidia nei suoi confronti, dato che io non avevo ancora trovato una persona tanto speciale?

Talvolta mi è capitato di chiedermi se io fossi nata da una semplice avventura, frutto di un’attrazione reciproca, o se mia madre e mio padre fossero stati innamorati.

Almeno nel momento in cui mi hanno concepito.

«Mi dispiace molto per quello che è accaduto alla tua amica Emiko. Prima abbiamo interrogato velocemente i suoi genitori e sono sconvolti quanto te.» continuò Penber, appoggiandosi al muro e sistemandosi l’impermeabile, stropicciato in alcuni punti.

Se devo essere sincera, apprezzai il fatto che volesse mantenere una certa distanza da me e che non si fosse prodigato in qualche discorso strappalacrime o dal gusto ipocrita.

Essere compatita era l’ultima cosa che volevo in quell’istante.

Cercai di ritrovare la voce e di mettere da parte i pensieri riguardanti mio padre, nonostante non riuscissi ancora a capacitarmi della scomparsa di una delle poche persone che mi erano state accanto in questi anni.

«Miho-san, immagino come ti senti, ma visto che, a detta dei coniugi Sugiyama qualche sera fa sei uscita con Emiko, vorrei farti qualche domanda. Sai, le tue informazioni possono risultare molto utili per le nostre indagini.» aggiunse con un sorriso incoraggiante.

Ecco, avevo parlato troppo presto.

Raye Penber in realtà era un gran manipolatore: con il suo finto atteggiamento comprensivo e il suo sorrisetto “pulito”, ti metteva in trappola.

Mi guardai in giro alla spasmodica ricerca di un qualche espediente che mi sottraesse a quella tortura, ma l’ambiente circostante non offriva granché: il soffitto stinto in vari punti conferiva a quel luogo, già tetro di per sé, un’atmosfera ancora più lugubre e triste; il custode, intento a masticare un chewingum e a leggere una rivista porno, non poteva certo rappresentare una “valida scappatoia” e tantomeno il gruppetto di medici e infermiere che sostavano poco distanti da noi.

Eppure, tra di loro scorsi qualcuno di famigliare.

Nia.

Prima mi aveva detto che dopo aver timbrato mi avrebbe raggiunto, tuttavia lo vidi sparire insieme ad un collega proprio nella stanza dove giaceva il cadavere di Emiko.

Dalla sua espressione tesa e preoccupata, capii che non avrebbe assistito a qualcosa di bello e che non era il caso di disturbarlo per il momento.

Probabilmente era meglio dimostrarsi accondiscendente e collaborare con Penber, il quale mi fece accomodare su una sedia, forse nel vano tentativo di farmi rilassare.

Mi vestii del mio solito manto di indifferenza e provai a mostrarmi il più sicura possibile.

«Che cosa vuole sapere esattamente?»

«In che rapporti eravate tu ed Emiko? Dove siete andate quella sera?»

Trovai finalmente il coraggio di reggere il suo sguardo e notai che era diventato impenetrabile e professionale.

In quel frangente i suoi occhi mi sembravano uguali a due iceberg: non trasmettevano alcuna emozione e io non mi sentivo affatto a mio agio.

Necessitavo della presenza di mia madre e per tentare di dissimulare la mia paura, iniziai a tormentare il lembo della mia maglietta.

Era un’abitudine che avevo sin da piccola che “fuoriusciva” soprattutto quando mia madre mi esortava ad andare a giocare con gli altri bambini.

Cavolo, sarei stata un soggetto perfetto per qualsiasi psicanalista.

«Emiko ed io eravamo compagne di classe al liceo e, data la sua bravura nel canto, era stata ingaggiata da una casa discografica che le aveva promesso di farla emergere come idol. Era da tanto tempo che non ci vedevamo, visti i suoi impegni professionali, poi settimana scorsa mi ha mandato un’e-mail[1], dove mi chiedeva di incontrarci in un pub di Ikebukuro.» gli raccontai sommariamente, mentre un sommesso vociare riempiva il corridoio della camera mortuaria.

«E in quell’occasione lei ti ha confidato qualcosa? Aveva qualche problema o qualche nemico, magari proprio nel mondo dello spettacolo?» continuò Penber, annotandosi mentalmente il nostro dialogo e cercando di tracciare una sorta di identikit di Emiko.

«No, abbiamo chiacchierato del più e del meno, e le posso assicurare che Emiko non è, anzi non era, quel genere di persona.» puntualizzai vagamente piccata dall’insinuazione del detective «è sempre stata una ragazza socievole e altruista.»

Odiavo quando la gente saltava a conclusioni affrettate o si divertiva ad “etichettare” il prossimo.

«Perdonami, Miho, non volevo essere scortese e intaccare la memoria della tua amica, però dobbiamo vagliare tutte le piste possibili per giungere al colpevole. Non escludiamo la possibilità che possa essere l’ennesima vittima di un serial killer.»

Sentendo quell’ultima frase mi si gelò il sangue nelle vene.

«Quindi…pensate che Emiko sia stata uccisa da qualcuno?»

Bevvi avidamente ogni istante di silenzio del mio interlocutore, ansiosa di ricevere una sua risposta in merito. Mi si mozzò quasi il respiro in gola, tanta era la mia agitazione.

«Può darsi.» era chiaro come il sole che Penber preferisse non sbottonarsi, anche se, a mio modo, avrei escogitato qualcosa per tenermi sempre aggiornata sui risvolti delle indagini.

Magari sfruttando proprio mia madre.

All’improvviso, venimmo entrambi distratti dallo sbattere di una porta e da Nia che, facendosi largo tra la piccola folla appostata in prossimità della camera mortuaria, andò a sbattere contro Raye Penber.

Scrutai di sfuggita la sua faccia, dove aleggiavano lo sconforto e la disperazione, al contrario dei suoi senpai che uscirono tranquillamente e compostamente dalla stanza.

«Dovrà abituarsi.» sentii mormorare qualcuno di loro, mentre si toglieva la mascherina ed avvisava Penber dei risultati dell’autopsia.

La facevano facile, loro.

Abituarsi alla morte era tutt’altro che un gioco da ragazzi e io ne sapevo qualcosa.

Io stessa avevo visto la durata vitale di Emiko diminuire poco a poco.

Eppure non potevo rivelare a nessuno questo particolare, altrimenti mi avrebbero sicuramente preso per pazza.

Non so cosa mi spinse verso il bagno, dove Nia si era nascosto: con tutta probabilità volevo sdebitarmi con lui per avermi accompagnato all’ospedale.

E tutto sommato, mi aveva anche fornito il pretesto per allontanarmi dall’amante di mia madre; dovevo ringraziarlo anche per questo.

Un conato, due conati e tre conati.

Infine il silenzio.

«Hai bisogno di una mano o di un dito?» azzardai goffamente, appoggiandomi alla porta della toilette e sbirciando all’interno per controllare le sue condizioni

«Ah, Miho sei tu…no, ti ringrazio. Vedi, io sono a dir poco terrorizzato dalla morte e ogni volta che mi tocca fare questo genere di cose, sto male.»

La sua voce era debole, quasi un sussurro e il suo corpo piegato su stesso a causa degli spasmi.

Scommetto che se avessi accennato al mio potere, sarebbe svenuto seduta stante.

Ciò nonostante, non me la sentivo di colpevolizzarlo: noi esseri umani siamo spaventati dall’ignoto, da ciò che non conosciamo, quindi il suo comportamento era del tutto naturale.

«E’ stato orribile deturpare il corpo di quella povera ragazza…» si bloccò prontamente, come se si fosse reso conto di aver detto un’assurdità «scusa, dimenticavo che si tratta di una tua amica. Tu piuttosto come stai?»

Era ancora presto per elaborare un giudizio su di lui, ma Nia mi sembrava eccessivamente sensibile. Avevo imparato a mie spese che una sensibilità troppo spiccata, ti rende vulnerabile e vittima del prossimo, quindi comprendevo molto bene la sua sofferenza.

Mi sembrava quasi di rivedere la me stessa di qualche anno fa, prima che cambiassi “pelle”.

«Sto. Cos’è emerso dall’autopsia?» gli domandai, dopo aver deglutito un paio di volte.

«Sembrerebbe che si tratti di suicidio. Sul comodino della sua stanza da letto e’ stato trovato un blister di tranquillanti vuoto.»

Non riuscivo a credere a ciò che avevo appena sentito: una ragazza solare ed estroversa come Emiko aveva deciso di farla finita senza una motivazione più che convincente?

Condannavo a priori l’atto del suicidio, però non contemplavo una simile possibilità.

No, i medici si sbagliavano sicuramente.

Nia si sbagliava.

Dovevo scoprire com’era andata veramente e sapevo che c’era un solo modo per farlo: scavare nella vita privata di Emiko per ricostruire le sue ultime ore di vita.

«Miho, vorrei chiederti una cosa: stamattina ero sovrappensiero e non ci ho fatto molto caso, comunque sul mio badge non è riportato il mio nome per tutelare la privacy. Mmh, come hai fatto ad indovinarlo?» mi domandò Nia, osservandomi incuriosito.

«E adesso cosa mi invento?»

Ero talmente intenta ad escogitare una scusa plausibile che non mi accorsi minimamente di uno strano infermiere, dalla postura incurvata e dai capelli corvini che gli coprivano gli occhi, particolarmente interessato al nostro discorso.

 

 

 

Ringraziamenti et similia:

Salve a tutti e scusate la mia scomparsa, ma maggio è stato un mese completamente dedito allo studio e ho avuto davvero poco tempo libero.

Questo capitolo è stato un esperimento, dato che l’ho scritto sul treno, di ritorno da Trieste e con lo sguardo verso il castello di Miramare che, ahimè, non ho potuto visitare.

Spero che la mia storia vi piaccia ancora e grazie ancora una volta a chi ha commentato lo scorso capitolo^^

Yours sincerely,

Otoya Ittoki

 

 



[1] In Giappone, se non sbaglio, i cellulari non inviano sms, bensì e-mail.

  
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