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Autore: heles_allgood    03/06/2012    0 recensioni
(Volevo ringraziare la mia immagine, che è l'unica cosa che conta)
Genere: Comico, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Casa Memphis” risponde la mia governante tata tuttofare Angie.
La adoro.
Ha un tono di voce così profondo, che al telefono può tranquillamente essere scambiata per un uomo.
A volte lo fa.
Quando magari c’è qualche giornalista un po’ troppo insistente, o qualche altro rompicoglioni della stessa razza. Ci divertiamo un casino. Con le che si spaccia per un uomo e minaccia di prendere il malcapitato dall’altra parte della cornetta a calci nel culo se non la smette di chiamare.
Di solito funziona. Almeno per un paio di giorni.
Senza perdermi troppo in chiacchiere, le chiedo se è arrivata la mia specchiera Luigi XV, comprata direttamente dalla Francia. La aspetto ormai da dieci giorni, e mi avevano assicurato, no meglio, mi avevano garantito che sarebbe arrivata in meno di una settimana, con un carico privato. Ancora non ho visto nulla. Tranne la sparizione dei miei 105 mila dollari, tasse escluse.
Questa cosa sta cominciando a darmi pesantemente sui nervi. La risposta di Angie è, ancora una volta, negativa.
Cazzo.
Non ci posso credere. La mia specchiera con intarsi floreali fatti a mano appartenuta prima alla regina Maria Antonietta e poi a una delle amanti di Napoleone, con tanto di garanzia di autenticità, deve ancora prendere il volo da quella cazzo di Europa. Potrei decidere di aver sopportato abbastanza e di aver pazientato a sufficienza, e prendere un aereo per la fottutissima Francia subito dopo la fine di questo stupido show.
Cazzo.
Le informazioni di servizio sono servite solo per peggiorare di una tacca il mio umore. Prima che io possa riattaccare e cercare di nuovo il conforto della fede, Angie contribuisce ad aggravare di un’altra tacca il mio umore, con altre informazioni di servizio dai contorni pessimi.
Leon, il più piccolo dei miei figli, ha vomitato sul mio tappeto zebrato del salotto. Quella zebra è stata appositamente scelta da me durante un giro in Africa, in mezzo a un branco di un centinaio di zebre, proprio per finire come tappeto per il mio salotto. Adoro quel tappeto. E ora quel piccolo mostro ci ha vomitato su.
Angie mi assicura che con bicarbonato e succo di limone verrà via senza problemi. Me lo auguro per lei o si ritroverà un tappeto macchiato e un figlio come liquidazione per il suo onesto e onorato servizio a casa Memphis.
Le dico che per quando sarò a casa non dovrà esserci più traccia del ricordino di quel piccolo insolente sul tappeto del mio salotto. Riattacco e cerco di nuovo il tizio di prima. Quello che mi ha dato la Pall Mall. Solo che stavolta ho meno fortuna.
E anche se urlo e strepito che voglio una sigaretta, la voce del regista che urla che manca un minuto alla diretta, copre la mia che urla a pieni polmoni.
È ora di salire sul palco
Un’ultima preghiera alla mia croce e si parte.
Se inciampo o cado o mi dimentico le parole posso anche abbandonare la serata. Specie se lo faccio alla prima canzone. Deve essere tutto spettacolare. Non ci sono margini di errore.
Cinquanta secondi.
Corro con i piedi intrappolati in queste dannate scarpe, dall’improbabile tacco a forma di pin up anni ’50, verso la pedana che mi farà salire sul palco vero e proprio. I miei ballerini mi seguono. Sono più in forma di me, soprattutto le ragazze, che, come noto con una punta di disgusto, sono prive del benché minimo segno di cellulite o della più piccola smagliatura.
Trentasei secondi.
Salgo sulla pedana rotonda che mi eleverà ancora una volta di fronte al mio pubblico, i piedi proprio sopra la x disegnata con nastro adesivo argentato.
L’idea è quella dell’ascesa. Dopo la calata negli inferi, rappresentati da droga, rehab e filmini porno, ecco il ritorno verso l’antico splendore, ecco il rientro nella luce della gloria e nel calore della fama. La salita, che è sempre faticosa e impervia, ma che non per questo non da soddisfazioni. Eccomi di nuovo di fronte a voi, pronti a urlare per me e cantare con me e adorare ogni mio singolo gesto.
Trenta secondi.
Ultimo accessorio prima che la mia riabilitazione abbia inizio. Un mantello di raso nero, lungo fino ai piedi, circondato da un colletto alto poco meno di mezzo metro, rigido come cemento armato e tempestato di Swarovski, che ricorda molto Dracula, cappello a cilindro e bastone da passeggio con un pomolo bianco al posto dell’impugnatura.
Diciassette secondi. 
Solo alla prima esibizione perderò pezzi come un serpente durante la muta.
Tredici secondi.
Io e i miei ballerini urliamo forte tre volte merda, e ci fermiamo, ciascuno al proprio posto, fermi come statue.
Sette secondi.
Le luci si spengono. Il mio momento sta per arrivare. Il pubblico sarà solo per me. Ultima sistemata al microfono. Presa salda sul bastone da passeggio, sguardo basso, il mantello copre ogni singolo centimetro di vestito, Didì lo sistema l’ultima volta e io lo caccio con un sibilo, così sparisce.
Due secondi.
La pedana comincia a vibrare, il macchinario si è acceso.
Ci siamo.
Un boato di fuochi d’artificio annuncia che lo show sta per iniziare. Sento le urla sovraeccitate dei fan e gli applausi di cortesia del pubblico in sala. Vip invidiosi e i loro amici imbucati. La solita fauna offerta dallo show biz. Nulla di che.
Ci muoviamo verso l’alto. Vedo il pavimento del palco che scorre davanti ai miei occhi. Si intravede la platea in mezzo al fumo profumato di borotalco. Vedo degli striscioni ma non capisco cosa ci sia scritto. Devo concentrarmi sulla mia esibizione e sulle parole della canzone. Non canto in playback stasera. Quindi non posso stonare e non posso nemmeno dimenticare le parole. Ho provato per tre mesi ogni singolo passo, ogni singola nota, ogni singola espressione facciale di questo cazzo di spettacolo. Questo è il mio rientro e deve essere fatto in grande stile. Non posso permettere alla nuova arrivata di usurpare il mio posto come se nulla fosse. Deve capire che la regina del pop si è solo presa una vacanza dai suoi sudditi, ma non ha mai lasciato la sua corona.
La pedana si ferma sotto i miei piedi.
Parte la base musicale.
Conto le battute e inizio a cantare.  
Ho i riflettori puntati su di me. Sono avvolta dal fumo. Non vedo il pubblico delle prime file. Vedo solo i fan sulle gradinate alte che sovrastano il parterre. Vedo molti striscioni col mio nome. Sento urlare Brit da ogni direzione. Ma so che lei c’è. So che è li. Davanti a me. A pochi centimetri ormai da me. Lo so. Lo sento. La sento.
E la odio.
Rabbia e odio. E mesi e mesi di dieta e prove e studio e preparazione. Non fallirò. Non stasera. Non davanti a lei. Non me lo posso permettere.
Ho faticato per essere di nuovo qui. Tanto. Non posso permettere a una stupida ragazzina a malapena maggiorenne di portarmi via la scena.
È la mia serata. Non la sua.
Che ci entri lei in una cazzo di clinica di rehab dove non ti fanno nemmeno bere il caffè e non ti permettono quasi di fumare, prima di provare a portarmi via il posto.
Che si schianti lei con una macchina nuova appena uscita dal concessionario contro il camion dei rifiuti per sfuggire ai paparazzi che vogliono vedere come ti sei bruciata i capelli prima di provare a portarmi via il posto.
Che si sottoponga lei a cicli di sanguisughe e urino-terapia per migliorare il colore della pelle e l’afflusso sanguigno e far sparire qualche ruga di troppo prima di provare a portarmi via il posto.
È la mia serata.
Conosco i passi. Conosco le coreografie. So dove vanno le braccia in qualsiasi movimento. So come deve essere l’espressione del mio viso a ogni singola sillaba. So come deve stare la mia gola a ogni singola nota. So tutto. Sono pronta.
E mi muovo. Lungo il palco, tra i miei ballerini, tra le sedie e le altalene di scena. Mi sposto. Salto. Mi siedo. Muovo gambe e braccia. Sorrido.
Il cilindro è il primo che vola via. Va lanciato in mezzo alla folla.
La prendo di mira di proposito, ma non riesco a colpirla. Il cilindro plana elegantemente ai suoi piedi, come il bouquet della sposa a un matrimonio.
Credimi, cocca. Non sarai tu la prossima. Non in questa vita almeno.
Due ballerini si avvicinano, e mi sfilano il mantello tempestato di Swarovski. Quello ovviamente non lo posso lanciare perché costa la bellezza di 250 mila dollari. Se lo metto all’asta verrà venduto ad almeno tre volte il suo prezzo. Così forse, finalmente, potrei comprarmi quell’isoletta nell’arcipelago delle Fiji che voglio da un paio di settimane.
Il pubblico è in delirio quando vede il mio vestito. Non se lo aspettava, lo so. Si aspettavano il solito costume ridottissimo e striminzito. Non questa cosa ricercata e molto, molto chic.
Ammetto che Steven e Didì stavolta hanno fatto un ottimo lavoro.
Le odio quelle due maledette checche, ma quando ci si mettono sono davvero due geni.
La folla è in delirio. Urlano tutti per me. Cantano con me. Applaudono per me. È  semplicemente stupendo.
Io non sbaglio una sola nota.
Continuo a muovermi, a ballare, a seguire i passi. Controllo il fiato, l’intonazione, l’espressione del viso. Poi mi lancio in un fuori programma. Durante il bridge della mia canzone, scendo le scale che portano in platea, abbandonando coreografia, ballerini e mimica facciale, per dirigermi verso di lei.
La folla impazzisce. Ormai non sento nemmeno più la mia voce. Neanche attraverso gli auricolari.
Il pubblico vuole qualcosa che faccia scalpore. Il pubblico vuole sempre qualcosa che faccia scalpore. Qualcosa che faccia scandalo. Qualcosa di cui parlare. Qualcosa di cui parlare per non parlare delle proprie disgrazie quotidiane. Lo so bene. Lo facevo anche io.
Io, invece, voglio qualcosa che venga ricordato come uno dei momenti più spettacolari di questa premiazione. E di tutte quelle che la seguiranno.
Un occhio di bue mi acceca dalle spalle in su. Non mi interessa.
Vedo gli sguardi attoniti e curiosi dei vicini di posto. Posso immaginare il mio manager che trattiene il fiato fino a diventare blu. Posso sentire i battiti del cuore dei miei fan.
Il padrino di “The Godfather” sarebbe fiera di me.
Mi avvicino a lei, appoggio entrambe le mani sui braccioli della poltrona in cui è seduta, con un vestito al limite del pacchiano e dello stile, posso vedere il suo sguardo vacuo da mucca al macello, la vedo mentre trattiene il fiato, gira appena la testa quasi in cerca di aiuto dai vicini, socchiude di poco le labbra ricoperte da un improbabile colore viola, in tinta con il suo vestito, trasgredendo ancora una volta a ogni regola dello show biz, le sorrido nel modo più glaciale che mi riesca di produrre e poi la bacio.
Silenzio.
Il tempo sospende il suo corso per una frazione di secondo.
In questo momento se un ago cadesse dalle mani di una delle sarte ne sentirei l’eco, senza dubbio.
Vedo i suoi occhi spalancarsi per lo stupore. Posso distinguere nettamente il contorno delle sue lenti a contatto e la pupilla che si restringe.
Questo si chiama “il bacio della morte”.
Questo viene dato a chi è condannato dalla mafia.
E credimi, cocca. I tuoi giorni sono ormai contanti. La regina del pop è tornata.
Il boato che esplode intorno a noi ha la potenza di una bomba nucleare. È semplicemente incredibile. Non ho mai sentito un frastuono simile. È talmente forte che mi sembra di stare in una bolla di silenzio.
Mi rialzo. Percorro il mio pubblico con lo sguardo. Sorrido e faccio un piccolo inchino. Poi torno velocemente sul palco e riprendo a cantare. Sono rimasti solo gli ultimi due ritornelli.
La polvere degli angeli mi scorre nelle vene a velocità supersonica, ogni cosa mi arriva amplificata, i suoni, le luci, i dettagli dei visi, dei vestiti, sta andando tutto come dovrebbe. Non posso sbagliare ora.
Non è contemplato.
Riprendo anche la coreografia, rientrando alla perfezione al passo coi miei ballerini. Ho di nuovo il controllo delle espressioni del mio viso. Ci sono. Ormai ce l’ho fatta.
Canto le ultime parole del ritornello, faccio gli ultimi due passi, e chiudo la coreografia in una posa plastica, da mantenere per cinque secondi, mentre la folla tuona e l’occhio di bue resta fisso su di me.
Ho il fiato corto, e respiro con la bocca. Sento il sudore che mi scorre lungo la schiena. Le gambe che tremano leggermente per lo sforzo. E il pubblico in delirio solo per me.
Questo si chiama “ritorno in grande stile”.
Questo viene concesso alle grandi star.
Abbandono la posa plastica. Ho ancora il fiatone e ho ancora il sudore che mi cala lungo la schiena. Ma facendo un rapido bilancio della situazione direi che non sarebbe mai potuta andare meglio di così.
Non ci sono state cadute, non ci sono state fuoriuscite di parti corporee non previste, non ci sono state rotture nel vestito, non ci sono state stecche o mancanze di fiato.
Non posso fare altro che guardare il pubblico e sollevare le braccia al cielo in segno di vittoria, sorridendo e godendomi la mia standing ovation. Sono tutti in piedi. Solo per me. Un applauso che somiglia a un fiume in piena che straripa.
Sorrido mentre il respiro ritorna piano piano alla normalità, e percorro il pubblico con lo sguardo. Li guardo tutti, uno per uno. Li guardo a lungo. Tanto loro non smettono di applaudire e io non ho nessuna intenzione di fermarli. Me lo merito questo applauso. Me lo merito tutto, fino all’ultimo clap clap.
Sorridono tutti. Così io sorrido a loro. Mentre il cuore pompa con la forza di un uragano. Sorride anche lei. Con i suoi capelli finto biondi e quegli occhi azzurri che non possono essere suoi. Ha sicuramente delle lenti a contatto colorate. Sembra veramente la mia brutta copia. Solo io ho occhi del genere. Non esiste nessun altro al mondo che abbia occhi di quel colore.
Mi viene portato il microfono da uno dei miei ballerini, ora di salutare il pubblico come si deve, ringraziarlo per l’affetto e la fiducia che ancora sanno donarmi, ringraziarli per essere presenti alla serata e garantirgli che sarà il miglior spettacolo a cui abbiano mai assistito in vita loro. È ora di cominciare la serata.
   
 
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