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Autore: __Stella Swan__    04/06/2012    1 recensioni
Era il nastro di Megan. Quello che aveva usato per farsi il codino, il giorno in cui era morta. Era liscio, leggermente sfilacciato sui bordi, color pesca. Il preferito di mia sorella. Ma c’era qualcosa di appiccicaticcio sul retro, perciò lo voltai. C’era un piccolo disegno, nero e grande quando la larghezza del nastro.
Era una croce, un disegno irregolare che mi sembrava di aver già visto da qualche parte. Poi mi venne in mente, come se fosse scattata la scintilla: la croce Ankh, simbolo degli egizi che rappresentava la vita. E poco più sopra della croce, c’era un’iscrizione in geroglifico: la chiave della vita eterna è la morte a se stessi.
(Estratto dal secondo capitolo)
Seguito di ICE HEART.
Storia revisionata, modificata e ri-postata col titolo "The Rose Without Thorns - La rosa senza spine". Se siete interessati leggete la versione aggiornata!
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Ice Heart Saga.'
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Kim - Il nastro.


Chiusi la porta di casa dietro le mie spalle, rimanendoci appoggiata per qualche minuto. Il casco che avevo in mano era completamente intatto, senza un minimo graffio. Avrei voluto fosse stato così anche per la moto. Come avrei spiegato a mio padre dell’incidente? Forse dovevo solo sperare che non si accorgesse di nulla.
Infilai la mano nella tasca del giubbotto e tirai fuori il nastro di Megan. Rimasi a fissarlo, pensando. Ogni tanto guardavo il mio tatuaggio sul polso. Ero confusa, molto confusa.
Mio padre comparì in cima alle scale, perciò nascosi il nastro nella tasca e mi tolsi la giacca.
«Sei arrivata», disse mentre scendeva le scale.
«Sono arrivata», risposi andando in cucina. Presi un bicchiere dalla credenza e lo riempii con un po’ d’acqua fredda. Infilai poi un’ aspirina per far passare il mal di testa.
«Non stai bene?», chiese Irvine avvicinandosi. Bevvi ad occhi chiusi la medicina e posai il bicchiere nel lavandino, dandogli una veloce risciacquata.
«Ho solo un po’ di mal di testa, tutto qui». Mi allontanai dalla cucina, stringendo il giubbotto sotto il braccio. «Papà», dissi fermandomi in salotto, «ti ricordi per caso quando mi sono fatta il tatuaggio?», chiesi. Mio padre, con aria confusa, fece due passi verso di me. Mi prese il braccio e controllò il polso in silenzio. Gli comparve una piccola ruga sulla fronte e mosse velocemente i baffi.
«Lo avevi fatto il giorno del tuo compleanno, due anni e mezzo fa. Sbaglio?», rispose insicuro. Scossi la testa.
«No hai ragione, il diciassette aprile di due anni fa, appena ho compiuto sedici anni. Anche mamma ne aveva fatto uno simile, esattamente sei mesi prima del suo compleanno. Oggi». Irvine alzò velocemente gli occhi. Non si era dimenticato che oggi sarebbe stato il compleanno di Hilda, non di certo. Non poteva essere una semplice coincidenza il fatto che avessi trovato lo stesso simbolo su un oggetto che apparteneva a mia sorella. Eravamo collegate tutte e tre da una croce egizia. Mi sentivo parecchio confusa.
«Come mai questi ragionamenti? C’è qualcosa che non va?», domandò, studiando ogni mio movimento. Posai la giacca su un divano di pelle nera, sciogliendomi dalla presa di mio padre. Decisi poi di dirgli tutta la verità. Mostrargli, per essere più precisi.
Tirai fuori dalla tasca della giacca il nastro che avevo trovato al cimitero me glielo consegnai sul palmo aperto, teso verso di me. Lo prese poi con due dita, girandolo in ogni lato per capire di che si trattasse. Quando gli venne in mente, lo vidi irrigidirsi. I suoi occhi si gonfiarono di lacrime ed io mi voltai. Non potevo di certo trattenermi dal piangere se lo avesse fatto lui. Ed io non volevo piangere. Lo avevo già fatto davanti a Gabriel, mesi prima.
«E’ di…», balbettò.
«Sì», lo interruppi per evitargli di pronunciare quel nome che – al solo pensiero – gli faceva stringere il cuore, «è suo. L’ho trovato al cimitero, nella tomba abbandonata». Mio padre continuava a guardarlo, ogni muscolo teso. Mi avvicinai a lui, girandoglielo sul palmo in modo da fargli vedere la scritta ed il disegno.«Vedi qui? Questi simboli sono recenti secondo me. Puoi capire in che materiale sono fatti?».
Tastò prima il disegno, poi il cartiglio. Si portò poi una mano alla bocca, toccandosi ogni tanto il mento. «Sembra cera», disse.
Scossi la testa, sospirando a fondo. «No, non può essere. Quando l’ho trovato era appiccicaticcio, la cera si indurisce facilmente, in un luogo come quello è praticamente impossibile che sia rimasta semi liquida per quasi quattro anni. E’ nera e macchia», dissi facendogli vedere la mia mano. Alzò gli occhi per controllare se stessi dicendo la verità, poi tastò ancora la scritta, premendo di più. Alzò il nastro per cercare di leggere.
«Cosa c’è scritto?», chiese in un sussurro.
«La chiave della vita eterna è la morte a se stessi», risposi recitando a memoria l’iscrizione del cartiglio. Irvine spalancò gli occhi e, lentamente, mi guardò di sottecchi. Aveva la bocca aperta e non riuscì a far uscire altro se non aria. «Non so nemmeno io come faccio a decifrarlo. E’ come se fosse nella mia lingua, è assurdo. Io non ho mai studiato la scrittura egizia. Il disegno rappresenta la croce della vita Ankh, lo stesso del mio tatuaggio. E di mamma, ovvio. Ma non capisco nemmeno il perché si trovi sul nastro di Megan, o il perché io lo abbia trovato oggi, esattamente sei mesi prima del mio compleanno».
Sia io che mio padre scotemmo la testa, continuando a fissare quegli strani simboli incisi sul nastro di mia sorella. Non era possibile che ci fossero stati prima e nemmeno il giorno in cui era stata uccisa. L’unica soluzione era che fossero stati scritti poco prima del mio arrivo, come se qualcuno avesse saputo che lì era avvenuto l’omicidio, e che sarei andata in quel posto, esattamente quel giorno.
Troppe coincidenze.
«Posso scoprire di che sostanza si tratta, ma mi servirà qualche giorno», disse tenendo gli occhi fissi sull’oggetto tra le sue mani.
«Va bene», risposi abbassando la testa. Mi avvicinai alla giacca e la presi in braccio. «Non ti preoccupare, capiremo cosa significa», mi assicurò mentre stavo tornando in camera mia. Annuii sospirando e mi lasciai mio padre alle spalle.
Ringraziai il cielo che non avesse fatto domande più precise sul mal di testa. Probabilmente mi avrebbe impedito di usare la moto ancora una volta. Dovevo portarla dal meccanico, un giorno in cui non ci fosse stato. Se avessi dovuto farla aggiustare, l’avrei pagata coi soldi che mi avanzavano da quelli accumulati per l’università.
Entrai in camera e posai la giacca sull’attaccapanni. Quando mi voltai, notai che sul mio letto era appoggiata perpendicolarmente una rosa rosso sangue. La presi tra le mani e mi guardai intorno. Non c’era nessuno nella stanza e la finestra era chiusa. Portai la rosa al naso ed inspirai il suo buonissimo profumo. Non ne avevo mai sentita una così dolce. E nemmeno vista una così scura. Sembrava esser stata davvero immersa nel sangue.
Aspettai Gabriel senza mangiare, non mi sentivo affamata per colpa della medicina. Ed ero ancora troppo impegnata a pensare a cosa significasse tutto quello che mi era accaduto in giornata. L’incidente, le immagini confuse che ronzavano nella mia memoria, quel ragazzo strano che mi aveva portato la moto. Non mi spiegavo il buco nel muro, o come avessi fatto a salvarmi dopo un incidente ai centoottanta all’ora.
Era un miracolo essere ancora viva.
 
«Kim, che ti prende?». Il tono di Gabriel non mi rassicurava affatto. Significava che si sarebbe lanciato su un interrogatorio di terzo grado e non mi andava di dare troppe spiegazioni sul perché non rispondessi ai suoi attacchi. Il sudore che mi scendeva sulla fronte era congelato dalla bassa temperatura del sotterraneo, sotto la sala delle armi.
«Niente», dissi mentre paravo una sua pugnalata sul fianco destro. Si bloccò, abbassando la guardia. Io rimasi ancora in posizione di difesa e quando mi accorsi che non aveva intenzione di attaccarmi, mi rilassai anche io.
«Non è vero: ti stai limitando a difenderti e non attacchi mai. Ed eri sovrappensiero, me ne hai appena dato prova. Non eri attenta». Sbuffai, pensando che a volte sarebbe stato meglio che Gabriel non mi conoscesse così bene. Si avvicinò, sfiorandomi la mano. Io continuavo a tenere la testa bassa, fissando un punto non definito del pavimento.
«A volte vorrei che tu non te ne accorgessi», mugugnai.
«Perché non mi dici invece cosa c’è che non va?», chiese sorridendomi. Stava giocando sporco. Scossi la testa, evitando di guardarlo. Cosa che mi era impossibile, dato che mi alzò il mento col dorso della mano libera. L’altra, quella che reggeva il pugnale, era stesa lungo il fianco.
I suoi occhi azzurri lanciavano segnali di preoccupazione. Mi detestavo quando mi guardava così. Non volevo che si preoccupasse per me. Non me lo meritavo.
«Non mi va di parlarne», dissi allontanandomi da lui, sedendomi sul bordo del ring. Appoggiai i gomiti sulle ginocchia, lasciando cadere la testa nel piccolo spazio che avevo creato. Sentii il mio ragazzo seguirmi e fermarsi davanti a me. Cercò di spiarmi da uno spiraglio che avevo tra il braccio e la gamba, ma subito lo chiusi velocemente. Come una tartaruga che si nascondeva nel suo guscio.
«Kim», disse con voce troppo, troppo dolce per essere leale, «sai che non ti fa bene tenerti tutto dentro. Perché non ti sfoghi un po’ con me?». Non risposi, rimanendo impassibile. «Non ti fidi di me?», chiese.
«No!», sbottai alzando la testa. Mi guardò negli occhi, incatenandomi in quella posizione. «Non è per questo», aggiunsi poco dopo, in un sussurro. Posò il pugnale a terra e fece due passi per avvicinarsi ancora di più, fino a toccarmi con le ginocchia. Posò una mano sulla mia guancia ed io chiusi gli occhi. La mano era calda.
«Perché allora non mi vuoi dire niente, se ti fidi di me?». Non mi parlare così, disse la voce nella mia mente.
«Non voglio coinvolgerti». La mia voce era fredda quanto la sala in cui ci trovavamo. Gabriel ridacchiò e non riuscii a trattenermi dal non guardarlo. Dio solo sapeva quanto fosse bello.
«Credo che sia troppo tardi, sai?». Mi sciolse la barriera fatta di braccia e gambe che avevo costruito per appoggiarmi e s’infilò in mezzo. Mi tirò verso sé, sollevandosi lentamente sulle ginocchia, in modo da essere alla mia altezza. Il mio corpo premette contro il suo e le nostre teste si sfiorarono. Appoggiò il dorso della sua mano sulla mia guancia, mentre mi baciava. Ed io lasciai cadere a terra il pugnale, creando un suono sinistro e fastidioso che rimbombò in tutto il sotterraneo. Sconfitta del tutto, lasciai che continuasse a baciarmi, adattandomi ai suoi movimenti. Ero completamente inerme. Come una farfalla privata delle proprie ali.
Quando si allontanò di pochi centimetri, lo sentii sospirare sulla mia pelle ed ebbi un leggero brivido. Ridacchiò soddisfatto.
«Odio quando fai così», mormorai con gli occhi ancora chiusi. Aggrottò un sopracciglio.
«Così come?», chiese innocentemente.
«Così. Mi fai venire voglia di dire sì a tutto».
«A tutto?». Annuii e Gabriel iniziò a ridere. Scossi la testa e subito mi baciò di nuovo.
«Quindi mi dirai cosa c’è che non va?», chiese sfiorandomi le labbra. Un altro bacio.
«Non è qualcosa che devi ascoltare. E’ qualcosa che devi vedere», risposi mentre infilavo le dita tra i suoi capelli. Mi strinse i fianchi e mi fece alzare, mente continuavamo a baciarci. Lasciai il pugnale a terra e lo condussi fuori dal sotterrato.
Attraversammo l’armeria ed entrammo nel laboratorio, dove mio padre stava prelevando dei campioni di quella sostanza che avevamo trovato sul nastro di Megan. Quando ci fermammo al tavolo da lavoro, nessuno fiatò. Presi l’oggetto e lo consegnai tra le mani di Gabriel, che subito assottigliò gli occhi per guardarlo bene. Per qualche secondo osservò la superficie, poi lo girò da ogni lato, sfiorando il bordo rovinato e soffermandosi sui disegni. Mio padre ci guardava da sotto gli occhiali ed ogni tanto tornava al suo lavoro.
«Cos’è?», chiese Gabriel. Sospirai chiudendo gli occhi, dopo aver lanciato un’occhiata furtiva a mio padre. Irvine, come se avesse recepito il segnale, si allontanò dal tavolo.
«E’ il nastro che portava Megan al cimitero, il giorno che è stata uccisa», sussurrai. Il mio ragazzo si voltò verso mio padre e rimase a guardarlo per qualche istante.
«E dov’era?».
«Alla tomba abbandonata. Ci sono andata oggi».
«Stiamo cercando di capire di che materiale sono le incisioni», disse Irvine, riavvicinandosi con un vetrino sporco di nero in mano.
Gabriel annuì. «Sembra il simbolo del tuo tatuaggio», disse avvicinando il nastro agli occhi.
«E’ proprio così. La croce Ankh, simbolo della vita», dissi.
«E questo?», chiese indicando le scritte, «sembra un cartiglio. Chissà cosa c’è scritto».
«La chiave della vita eterna è la morte a se stessi». Esattamente come reagì mio padre, il mio ragazzo sollevò di scatto la testa, guardandomi con occhi sbarrati dallo stupore. Sembravano anche più azzurri del solito. Guardammo entrambi il mio tatuaggio, sospirando.
«E perché volete capire il materiale?», chiese confuso.
«Credo che Kim sostenga che sia recente», spiegò mio padre.
«Cera non può essere, perché altrimenti si sarebbe seccato velocemente in quattro anni. Invece, quando l’ho trovato, era ancora parzialmente liquido. Io non credo che sia recente, perché nessuno oltre a noi sapeva che mia sorella era morta lì», dissi mentre mio padre s’irrigidiva e sbiancava improvvisamente. Mi morsi la lingua, cercando di proseguire in maniera più calma e pacata. «Voglio dire, non è possibile. Nessuno può essere entrato prima di me e non è cera. Voglio capire da dove proviene il materiale».
«Okay», rispose Gabriel posando il nastro e grattandosi la testa, «e dopo che lo avrai scoperto che hai intenzione di fare?». Percepii gli occhi di mio padre su di me, mentre continuavo a fissare la croce tatuata sul mio braccio.
«Non lo so», ammisi sospirando. «Così come non so il perché io riesca a leggere i geroglifici».
«Tua madre li sapeva leggere», intervenne Irvine.
Strinsi i denti per il nervoso. Ero troppo confusa ed i dubbi non diminuivano, ma sembravano moltiplicarsi così come le zanzare. «Mamma era archeologa, è normale che lo sapesse. Era specializzata in egittologia, la cosa non mi sorprende, ma non mi ha mai insegnato leggere i geroglifici. Certo, sapevo il significato di alcuni simboli, come la croce Ankh o il pilastro Dgeb, simbolo della fertilità. Ma non ho mai letto cartigli, erano troppo complicati persino per me. Ci deve essere una spiegazione».
Vidi mio padre voltarsi, appena cercai i suoi occhi. Non capivo il motivo, ma nemmeno lui mi sembrava capirci qualcosa. Continuava a grattarsi il mento, camminando nervosamente su e giù per il laboratorio. Sembrava quasi avesse paura di dirmi qualcosa. Lo guardai circospetta, mentre Gabriel si avvicinava alle ricerche.
«Quanto ci vuole prima che scopriamo di che si tratta?».
«Non lo so», rispose sinceramente Irvine, «potrebbe darsi giorni, settimane, mesi. I primi test dicono che non si tratta di cera, olio, petrolio o grasso. Credo sarà più difficile di quanto sperassi». Sospirai, portandomi le mani sui fianchi.
«Andiamo», dissi a Gabriel, prendendo la giacca lunga ed avviandomi verso la porta.
«Andate a caccia?», chiese mio padre.
«Sì», risposi freddamente. Il mio ragazzo, senza fiatare, mi seguì nell’armeria. Presi la balestra ed il feretro pieno di frecce. Controllai poi quanta acqua santa mi era rimasta. Sarei dovuta andarne a prendere altra in chiesa, in quei giorni, o sarei rimasta senza.
«Ti comporti in modo strano», disse Gabriel alle mie spalle, mentre prendeva la Socom da nove millimetri e la riempiva con pallottole di frassino, arma mortale per i vampiri.
«Mi sento strana», risposi acida, «come se non sapessi più chi sono». Gabriel mise una mano sulla mia, obbligandomi a guardarlo.
«Non preoccuparti, lo capiremo. Cerca di non pensarci, ti farai venire l’ansia». Sorrisi, sistemando una freccia nella balestra. La nascosi poi sotto la giacca, scrocchiandomi un dito alla volta.
«Credo di averla già», dissi mentre uscivamo.
Per fortuna non pioveva ancora. Si avvicinava la mezzanotte e le strade diventavano sempre più spopolate. Incredibile per dei comuni abitanti di Londra pensare che dei vampiri assetati di sangue potessero terrorizzare la loro città. Tutti avrebbero creduto di essere impazziti, o semplicemente di delirare per aver bevuto un bicchiere di vino in più.
L’aria non si era ancora calmata dal pomeriggio e mi schiaffeggiava i capelli davanti agli occhi. Ero ben vigile, con la mente sgombra. Quando dovevo cacciare ero la serietà fatta persona, la concentrazione al cento per cento. Me l’aveva insegnato mamma, non potevo permettermi di pensare ad altro mentre uccidevo un vampiro. Dovevo ascoltare tutto l’odio che provavo per loro e nient’altro. Dovevo far finta di essere da sola, perché se solo avessi pensato che il mio ragazzo camminava con una pistola accanto a me, mi sarebbe aumentata l’ansia. Ed ero già abbastanza ansiosa per i fatti miei.
«Sembra una notte calma», sussurrò Gabriel.
«L’apparenza inganna», risposi prontamente. Ecco la vecchia Kim, la Principessa di Ghiaccio che camminava nella notte buia e minacciosa. Sentivo, mentre procedevo, che il sensore di pericolo diventava sempre più acuto. La mia dote naturale non falliva mai. O quasi.
Ripensai poi a quel ragazzo nuovo, Derek Santo, e al modo in cui sentivo il pericolo in lui. Era l’unico caso in cui il mio sesto senso sbagliava e non capivo bene il perché. Forse era perché non capivo più niente, in quel periodo.
Strano pensare che tutto ciò era accaduto esattamente sei mesi prima del mio compleanno, il giorno in cui avrebbe compiuto gli anni mia madre. Forse il numero diciassette portava davvero sfortuna. Perlomeno alla mia famiglia.
Io e Gabriel entrammo in un piccolo parco giochi deserto. Il mio istinto mi portava lì. Estrassi la balestra dalla sua custodia, sotto la mia giacca, e la tenni davanti al petto, pronta a sparare. Gabriel, invece, prese la pistola e se la portò all’altezza del viso, mentre controllava ogni angolo intorno a sé. Sentimmo poi dei passi davanti a noi e ci bloccammo all’istante.
Una giovane vampira comparì ai nostri occhi, più bella del sole. La camminata lenta, l’aspetto della ragazza smarrita. Un deja-vu. Guardai di sottecchi Gabriel, ancora completamente concentrato. Non era stato catturato dalla malia della vampira. Non ancora.
«Mi sono persa», cantò la ragazza coperta da una semplice vestaglia da notte blu scuro, «potreste aiutarmi a trovare la strada?».
Questa l’ho già sentita, pensai. «Per l’inferno? Te la mostro subito», dissi. La vampira scattò su un lato e riuscii a colpirla alla spalla, inchiodandola contro un muretto a pochi metri da noi. Io e Gabriel ci avvicinammo, rimanendo leggermente distanti, per sicurezza. La vampira rantolava aiuto, mentre qualche scintilla compariva intorno alla ferita della freccia. Cercò di colpirmi con il braccio sano, ma subito le conficcai un’altra freccia nella mano. Urlò ancora più acutamente, obbligando il mio ragazzo a tapparsi le orecchie.
«Non credevo fossi così crudele, Sarah», mugugnò tossendo.
Inarcai un sopracciglio, soffocando una risata. «Mi dispiace, credo tu abbia sbagliato ammazzavampiri. Sei stata sfortunata». Scosse la testa ridendo.
«No, Sarah. Non ci sono dubbi su chi sia la figlia di Hilda Drake. Non mi sbaglio affatto». Qualcosa nelle sue parole attirarono la mia attenzione: il nome di mia madre. M’irrigidii ed arretrai di un passo, mentre il mio ragazzo si avvicinava a me. Lo sentii toccarmi la schiena.
«Come conosci mia madre?», chiesi rendendo i miei occhi ad una fessura. La vampira rise e scosse la testa. Irritata, la sollevai da terra per la veste e mi avvicinai pericolosamente al suo viso. Riuscivo a vedere i canini ben affilati. «Come la conosci?», le richiesi.
«Victor ha trovato pane per i propri denti. O sangue, forse è più appropriato. Hai un profumo così dolce…», disse continuando a ridere.
Strinsi la presa, mentre l’ira comincia ad accecarmi. «Anche tu sei stata trasformata da Victor?».
Alzò la testa, fulminandomi con quegli occhi celesti. I suoi poteri stavano diminuendo e il potere della malia non aveva più effetto su di me. «Anche tu lo sarai presto, mia cara principessa». Non vedendoci più dall’odio, estrassi un’altra freccia dal feretro e gliela conficcai nel cuore. Strinsi bene e le sue urla erano musica per le mie orecchie. Gabriel mi fece allontanare e le lanciò qualche goccia d’acqua santa. In pochi istanti, la bellissima vampira non era niente di più che un mucchietto di cenere ai nostri piedi.
Rimasi a fissarla a lungo, continuando a non capire.
Perché mi aveva chiamata Sarah? E come faceva a sapere che Hilda fosse mia madre? La mia situazione non cambiava affatto. E mi aveva pure chiamata principessa...
«Stai bene?», chiese Gabriel mentre ritirava la boccetta che aveva usato.
«Sì», risposi sospirando. «Fisicamente sto bene».
«Ti ha chiamata Sarah...».
 Mi voltai verso lui e vidi che mi stava fissando preoccupato. Mi leccai le labbra e chiusi gli occhi. «Si sarà sbagliata», conclusi.
«Ma sapeva di tua madre...».
«Lo so», sbottai irritata, «ma no ho idea di cosa centri. Io non mi chiamo Sarah», dissi esplicitando per bene il nome che mi aveva attribuito la vampira. «E tantomeno sono una principessa».
Gabriel si avvicinò, appoggiando le mani sulle mie spalle. Mi alzò la testa e scrutò ogni movimento del mio viso, ogni battito di ciglia. Respirai a fondo il suo profumo, cercando di tranquillizzarmi. Era l’unica persona al mondo che aveva il potere di rilassarmi. «Andiamo a casa», disse.
Tornammo velocemente sui nostri passi, evitando di cacciare altri vampiri per quella notte. Gabriel vedeva che ero troppo stanca, almeno mentalmente, e non voleva farmi correre dei rischi semplicemente perché ero distratta a pensare ai fatti miei.
Lo lasciai entrare e tirai dritta verso camera mia. Notai che il laboratorio era chiuso a chiave e non s’intravedeva nessuna luce da sotto la porta. Mio padre era già andato a dormire, per fortuna. L’unica cosa positiva era che da quando Gabriel stava con me, si concedeva qualche ora in più di sonno, andando a dormire verso l’una di notte piuttosto che alle tre o alle quattro. Lui aveva buon senso, al contrario di me.
Mi lasciai cadere sul letto, dopo aver tolto la balestra ed averla appoggiata sulla scrivania. Il mio ragazzo posò la pistola e socchiuse la porta. Anche se la camera di mio padre si trovava al secondo piano, non voleva che ci sentisse. Eravamo molto cauti quando eravamo ancora svegli solamente noi due. Si sedette accanto a me.
«Vuoi una camomilla?», mi chiese. Avevo le mani davanti agli occhi, anche se la luce era spenta. La camera era illuminata grazie ad un lampione sulla strada.
Scossi la testa, rifiutando. «No, è meglio di no, intanto non ha effetto su di me. Se ne bevo troppa rischio di diventare allergica», risposi.
«Ma tu ti devi rilassare», disse togliendomi le mani dalla faccia ed appoggiandosi su un gomito. Fece muovere il letto e di conseguenza anche me. Tenevo ancora gli occhi chiusi.
«Non riesco a rilassarmi, sono troppo assente col cervello oggi». Non rispose e non sentii alcun rumore. In camera mia faceva quasi caldo, ma non mi lamentavo. Non avevo voglia di togliere la dolcevita e rimanere in maniche corte. Presto mi accorsi di essere più stanca di quanto avessi pensato. Probabilmente era anche per il ritorno movimentato dal cimitero, quel pomeriggio. Mi strinsi nelle spalle, sentendomi in colpa per non aver detto niente a Gabriel riguardo l’incidente.
«Mmm», lo sentii mugugnare, «forse avresti bisogno di una distrazione». Tirai su la schiena, rimanendo seduta a gambe incrociate sul bordo del letto. Infilai una mano in mezzo ai capelli scompigliati, cercando di metterli a posto, inutilmente.
«Non c’è niente che possa distrarmi», mi lamentai.
«Ne sei sicura?», disse con un sorriso malizioso. Mezza addormentata, mi voltai verso Gabriel, con la fronte corrugata. In un secondo, ero avvinghiata a lui, mentre mi teneva la testa ben salda tra le sue mani. Prima mi sfiorò le labbra, poi mi baciò, respirando lentamente. Sciolsi le gambe ancora incrociate e scalciai le scarpe sul pavimento, mentre il mio corpo si allungava sul letto, fino ad arrivare con la testa sul cuscino.
Gabriel lasciò scendere una mano sul mio fianco, fino ad arrivare all’inizio dei jeans, mentre con l’altra mi faceva il solletico sulla guancia. Io lo strinsi forte all’altezza del collo, avvicinandolo sempre più a me. Come se fossimo stati in mancanza d’ossigeno, le nostre labbra si socchiusero e presero una boccata d’aria, per poi trovarsi di nuovo a modellarsi l’una sull’altra. Di nuovo quel senso di calore si stava espandendo come un rogo dentro il mio corpo, mi sentivo pizzicare le labbra e la lingua ed iniziavo a sudare.
Mi tolsi freneticamente la maglia e la lanciai al bordo del letto, mentre Gabriel mi morse il labbro inferiore, tirandomi verso sé e baciandomi sempre più aggressivamente, senza mai farmi male. Con le labbra, percorse poi tutto il collo fino all’incavo della spalla. Ormai non ero più in me.
«Gabriel, fermati o non mi fermerò più io», dissi tra un sospiro e l’altro. Non riuscivo a star ferma, l’adrenalina stava agitando tutto il mio corpo. Una mia mano afferrò i capelli di Gabriel e lo tirò di nuovo sulle mie labbra, obbligandolo a baciarmi. Lui ridacchiava divertito.
«E chi dice che voglio fermarti?», chiese maliziosamente. Lo feci cadere su un lato, trovandomi sopra di lui. Le sue braccia si strinsero intorno alla mia vita, facendomi incollare al suo petto marmoreo.
«Gabriel», dissi mentre mi baciava. Mi allontanai da lui, tenendolo inchiodato al letto con le mani. Mi guardava divertito e confuso allo stesso tempo. Probabilmente si stava chiedendo il perché lo avessi fermato. Cercò di toccarmi con una mano, ma subito gliela tenni ferma accanto al viso. «Non sto scherzando, non spingiamoci troppo in là», dissi col fiatone.
Anche lui faceva respiri corti ed affannati, come se avesse appena corso la maratona. «Hai paura?», chiese con un sorriso da sfida. Ricambiai con la stessa moneta, poi le mie labbra diventarono un’unica linea dritta.
«Ho paura di non sapermi controllare», confessai.
«Non mi uccidi mica. E poi non ti devi preoccupare, ci sono io».
«Appunto per questo: so che tu non faresti niente per fermarmi. Non alzeresti nemmeno un dito».
Aggrottò la fronte ed allentai la presa dei suoi polsi. «Volerti non è un peccato», disse serio.
«Ma è un peccato se domani a scuola non riusciremo a reggerci in piedi. Davvero Gabriel, non ora, non stasera. Lo sai benissimo che lo voglio quanto te, se non di più. Ma oggi è una giornata troppo strana. Non mi sento me stessa». Abbassai lo sguardo, sconfitta. Non volevo ferirlo, ma sapevo che, infondo, lo avevo appena fatto. Gabriel prese le mie mani e le baciò sulle nocche.
«Non preoccuparti, ti capisco perfettamente. Succederà quando sarai pronta, io posso aspettare. Per il momento, sono riuscito a distrarti un po’ e sono contento», disse accennando un sorriso sincero. Alzai anche io un angolo della bocca.
«Certo che lo hai fatto, fin troppo bene». Mi abbassai sul suo corpo e gli diedi un bacio prima sulla fronte, poi sulla bocca. Mi lasciai scivolare sul suo fianco, rimanendo tra le sue braccia. Mi sentivo così al sicuro abbracciata a lui. «Rimani a dormire qui?», chiesi.
Lo sentii sospirare. «Dici sul serio?». Annuii senza fiatare. Mi sentivo troppo stanca. «E se tuo padre lo scopre?».
«Non ti preoccupare, non verrà a controllare. Basta che chiudiamo la porta, poi non si accorgerà di niente. E comunque, cosa dovrebbe dire? Credo sia solamente contento che qualcuno rimanga a proteggermi durante la notte. Ha più paura quando rimango da sola, come ieri sera o oggi».
«Allora accetto volentieri», rispose. Si tolse anche lui le scarpe e si coricò bene sul letto, mentre io andavo ad infilarmi i pantaloni della tuta ed una maglietta che usavo in casa. Quando uscii dal bagno, mi rannicchiai sotto le coperte, accanto a lui. Mi strinse forte, scaldando ogni parte del mio corpo.
«Sei così fredda», commentò ad occhi chiusi, dopo un lungo sospiro.
«La Principessa di Ghiaccio», sogghignai. Ora quel soprannome mi suonava tanto ridicolo quanto appropriato.
«No, la principessa e basta. La mia principessa che ha bisogno di essere scaldata».
«Ci pensi tu?», chiesi.
Ridacchiò divertito, tanto che mi sentii traballare sul suo petto. «Mi tocca. Non che mi dispiaccia stringerti», disse tra i miei capelli. Mi baciò poi la testa, mentre io mi mettevo comoda tra le sue braccia, abbracciandogli il petto ed appoggiandomici con la testa. «Buona notte», mi sussurrò. Alzai la testa e mi sfiorò le labbra appena prima che cadessi nel mondo dei sogni.
  
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