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Autore: Whatadaph    04/06/2012    4 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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Capitolo 7

“Speranza”


 

Beta: Unbreakable Vow <3

 




Godric’s Hollow, 30 giugno 1899

 


Mio caro Elphias,

perdonami se mi sono fatto attendere nel rispondere alle tue numerose e sentite missive, ma sono stato davvero impegnato. Qui c’è molto da fare, sai...


D’accordo, sto mentendo. A dire il vero mi sono annoiato, tanto e profondamente. Posso dire di essermi lasciato un po’ troppo andare, giacché per ben due settimane non sono mai uscito di casa. Questo di certo non ha giovato alla mia salute né al mio umore, come puoi facilmente immaginare.

 

Sono lieto che il tuo Grand Tour in giro per l’Europa si stia rivelando tanto interessante. Ho trovato molto poetiche alcune tue definizioni, specie quelle relative alle spire squamose della storia. La reputo una metafora affatto bislacca. Conferisce alla questione un certo alone di mistero molto romanzesco e affascinante. Appare chiaro da quanto tempo tu desiderassi compiere questo incantevole viaggio.

 

Le tue riflessioni filosofiche sono tutto fuorché banali. Mi piacciono. Hai usato parole di grande vividezza, amico mio. Quasi parrebbe di essere lì.

 

Come già ho accennato, mi sono annoiato. Tanto e profondamente. Non avevo più libri da leggere e – forse – ero sprofondato nella mia mestizia al punto da non avere più la forza per pensare. Sono cosciente di quanto tutto questo paia ai tuoi occhi poco credibile, affatto verosimile. Mi conosci, mi ammiri, sai chi sono. Sai quanto amo pensare e quanto penso bene. Tuttavia, ho vissuto la sgradevole esperienza di trovarmi d’improvviso privo di ogni spunto di riflessione, di ogni fonte d’ispirazione. Ho perso tutto, ho perso il mio futuro.

 

Cosa ne farò del mio futuro? Credimi se ti dico che al momento attuale non ne ho la più pallida idea. Non so che cosa farò. Non so se potrò fare qualcosa.

 

Per grazia di Dio ho trovato qualcosa da fare al momento. O meglio, ho trovato qualcuno con cui passare del tempo. O forse è stato lui a trovare me, chissà. 
Si chiama Gellert e ha il mio intelletto. Può capirmi. È alla mia stessa altezza.

 

Lui è il nipote di Bathilda Bagshot, quella vecchia amica di famiglia della quale alcune volte ti ho parlato. Non lo conosci perché frequenta Durmstrang. O meglio, frequentava: gelosi del suo talento, dei maligni l’hanno coperto di menzogne. Hanno tentato di imprigionare le sue doti, di assoggettarlo. Ma non ci sono riusciti: se n’è andato.

 

Ho deciso che Godric’s Hollow non ci riuscirà con me. Nulla potrà tarparmi le ali. Troverò il modo di farmi valere anche fra queste case grigie.

 

Stammi bene.

 

Con affetto,

 

Albus


 

****

 


 

Il sole di fine giugno inondava placido il volto di Albus, mentre se ne stava con gli occhi chiusi poggiato al muretto di casa di Bathilda. In un impeto di magnanimità si era deciso a rispondere alle lettere di Elphias, quella mattina, e non riusciva a fare a meno di sentirsi un poco in colpa per alcune frasi che aveva scritto.

 

Si chiama Gellert e ha il mio intelletto. Può capirmi. È alla mia stessa altezza – aveva indirettamente affermato che Elphias invece non lo era. C’era solo da sperare che l’amico non riuscisse a cogliere tali sottigliezze.

 

Ma in fondo era solo la verità. E poi Elphias “Fiato-di-cane” l’avrebbe perdonato sempre e comunque, no?

 

 


“Salve, Albus.”

 

Quasi l’avesse chiamato, la voce di Grindelwald si udì per il giardino. Albus si volse di scatto nel sentirsi salutare, giusto in tempo per incontrare gli occhi dell’altro, che lo fissava con un curioso luccichio nelle iridi e un astuto sorrisetto sulle labbra. Aveva la testa leggermente chinata e sembrava quasi un angelo, con i suoi ricci dorati orlati di sole.

 

Albus pensò che fosse bello, così etereo e longilineo, con quel collo flessuoso e quasi femmineo a fare capolino dal colletto blu scuro della giubba che indossava.

 

“Salve, Gellert,” rispose quietamente, sostenendo il suo sguardo.

 

Fiato-di-cane non aveva importanza alcuna, decise.

 

“Ho pensato che fosse inutile portare i libri con noi,” lo informò Gellert in tono rilassato. “Dopo dovremmo comunque passare di qui, tanto vale che te li dia più tardi.”

 

Albus si disse d’accordo, riflettendo su quanto fosse piacevole parlare con qualcuno che non chiedeva notizie sulla sua salute, che non gli domandava come stesse. Nelle ultime settimane si era più volte ritrovato a detestare tale genere di interrogativi: milioni di domande a cui dare sempre la stessa, bugiarda risposta. Bene... come poteva star bene, con Kendra nella tomba e il suo futuro fatto a pezzi?

 

Albus Dumbledore, colui che ha sempre la soluzione in tasca.


“Gellert,” esordì improvvisamente, dopo che ebbero camminato in silenzio l’uno di fianco all’altro per parecchi minuti, “ti hanno mai chiesto come stessi pur conoscendo perfettamente la risposta?”

 

L’altro parve avere un brevissimo momento di esitazione, prima di poggiare il piede sinistro al suolo per un altro passo e volgersi dunque in direzione di Albus.

 

“Sì,” disse semplicemente, guardandolo con occhi strani.

 

“In che occasione?” domandò Dumbledore a bruciapelo.

 

Gellert emise una sorta di sorrisetto amaro. “Zia Bathilda,” rispose, “quando sono stato espulso. Il maestro di Pozioni, quando Thomas è morto.”

 

Albus avrebbe voluto chiedere a Gellert chi fosse quel Thomas, ma si trattenne. Non voleva essere indiscreto... sarebbe stato come se l’altro gli avesse domandato di Kendra. Sgradevole, quindi.

 

“Non amo quando me lo chiedono,” proseguì Gellert d’improvviso, quasi stesse pensando a voce alta. “Il più delle volte chi lo domanda neanche ascolta la risposta.”

 

A quelle parole, il cuore di Albus diede in un misterioso sussulto – la gola si strinse in una sorta di nodo felice e triste al tempo stesso. Era così strano, così curioso... così particolare parlare con qualcuno la cui mente seguisse gli stessi intricati percorsi della sua. Era esaltante, sorprendente, disarmante. Vero e reale – quando pareva quasi un sogno.

 

“Lo chiedono tanto per dire,” si ritrovò a mormorare in risposta. “Per non sentirsi a disagio restando in silenzio.”

 

“Andiamo.”

 

Gellert afferrò improvvisamente la sua manica destra, all’altezza del gomito, pronunciando quella parola quasi tra i denti. Non trattenne però le dita sul suo braccio: fu solamente una breve stretta, al seguito della quale aveva preso a camminare più velocemente sulla stessa strada percorsa il giorno prima. Albus si affrettò a imitarlo, pensando ammirato a quanto doveva essere spiccata la memoria visiva di Gellert, se era in grado di ripetere con tanta sicurezza un percorso da lui compiuto solo una volta prima di quel momento. Era un’altra qualità che condividevano – sarebbe stato più facile del previsto, non farsi tarpare le ali da quell’esercito di case grigie.

 

Forse il destino aveva condotto Gellert a Godric’s Hollow proprio per trarre Albus in salvo, per portarlo via da lì.


 

Ariana.



Certo, Ariana. Sarebbe sempre stato necessario prendersi cura di lei. Ma mancavano solo due anni al momento in cui Aberforth avrebbe finito la scuola, e allora ci sarebbe stato lui a badare alla sorella. Albus sarebbe stato libero di spiegare le sue ali e...

No. Non poteva infrangere la promessa fatta a Kendra.


 

Albus, ci penserai tu ad Ariana, quando io non ci sarò più. Vero?”

 

“Naturalmente, madre. Te lo prometto.”



Era parso così facile, allora, forse perché sembrava impossibile. Kendra, morire? Non l’avrebbe mai fatto. Era troppo ferma, troppo stabile e sicura e madre per andarsene.

 

È facile fare una promessa, quando si è convinti che mai ci si troverà a doverla mantenere.

 

“Cos’hai per la testa?” chiese Gellert all’improvviso, quando ormai erano giunti all’altezza delle ultime case del villaggio.

 

Albus si soffermò a guardarlo per qualche istante prima di rispondere: “Mia madre. Mia sorella.”

 

Gellert annuì e tacque.

 

Non mi chiede nulla, pensò Dumbledore, aspetta che sia io a volermi confidare.

 

Il tatto dimostrato dall’altro giungeva decisamente gradito – Albus sopportava poco le persone troppo invadenti, e per ciò che riguardava la sua famiglia era già di natura riservato. Tuttavia, doveva ammettere che tanta delicatezza da parte di una figura brillante quanto Gellert Grindelwald non lo stupiva affatto: somigliava molto al modo in cui lui stesso si sarebbe comportato, dopotutto.

 

Di una cosa era certo: Gellert cercava di rendersi amabile.

 

Pensò a quanto dovesse essersi sentito solo, a Durmstrang. Pensò a quanto lui stesso si fosse sempre sentito tale, fin dai suoi primi giorni a Hogwarts – neanche nel luogo che aveva fatto la sua felicità era riuscito a sfuggire dalla propria solitudine. Nei primi giorni al castello scozzese aveva percepito diffidenza da ogni dove... Lui stesso era stato sospettoso nei confronti di tutti, convinto com’era che tutti sapessero che Percival Dumbledore si trovava ad Azkaban. Aveva infatti stretto amicizia con Elphias Doge, messo in disparte da tutti a causa dei segni che il Vaiolo di Drago aveva lasciato sul suo volto. Poco alla volta, poi, coloro che circondavano Albus avevano iniziato a notare il suo incredibile talento, mentre lui si guadagnava la stima degli insegnanti e l’ammirazione dei compagni di classe. Non era stato necessario molto tempo affinché divenisse lo studente migliore della scuola.

 

Infine, l’iniziale diffidenza aveva finito per sostituirsi alla consapevolezza di essere sempre un gradino sopra agli altri. Vedeva oltre le nubi, certo, ma sulla colonna c’era posto per un solo eremita.


 

 

Lanciò un’occhiata a Gellert, che camminava al suo fianco, guardandosi attorno con curiosità. Si ritrovò a pensare che la solitudine, se condivisa, sarebbe forse potuta diventare compagnia.


 

 

****

 

 


 

“Hai amici, Albus?”

 

Sotto ai loro occhi, il campo di grano era sfiorato dal sole. Gellert era appollaiato in cima alla malmessa staccionata che lo recintava, e scrutava Albus con il capo leggermente inclinato.

 

Il giovane Dumbledore ricordò improvvisamente che si conoscevano da appena tre giorni, e che perciò quel genere di domanda era perfettamente naturale e opportuno.

 

“Sì,” rispose, dopo averci pensato su per qualche istante. “Uno, credo.”

 

Gellert annuì, sollevando il mento a guardare il cielo. Strinse le dita attorno al legno della staccionata e allungò la schiena all’indietro, quasi volesse lasciarsi cadere. Albus si accorse che aveva gli occhi chiusi appena in tempo per cogliere il momento in cui li spalancò di scatto e lo guardò fisso, senza tirarsi su. I riccioli biondi dondolavano nel vuoto come molle libere dietro la sua testa.

 

“È tuo fratello il tuo amico?” chiese Gellert.

 

“Come sai che ho un fratello?” replicò Albus.

 

“Lo immagini perfettamente,” lo rimbeccò l’altro, “me l’ha detto Bathilda.”

 

Le labbra di Albus si incresparono in qualcosa di simile a un lieve sorriso. “Lo immaginavo,” concesse.

 

“Volevi cambiare discorso,” aggiunse Gellert.

 

Albus inarcò le sopracciglia e soppesò per alcuni istanti l’espressione dell’altro prima di annuire.

 

“Non ti piace parlare di tuo fratello o sbaglio?” domandò Grindelwald serenamente, tirandosi di nuovo su. I suoi capelli gli ricaddero scomposti sulla fronte, lui li scacciò con la mano.

 

Albus sospirò. “Non è questo,” disse. “Solo che non siamo propriamente amici, ecco.”

 

“Non andate d’accordo?”

 

“Affatto.”

 

“Quindi non è lui l’amico del quale mi parlavi,” constatò infine Gellert. “Chi è, dunque?”

 

Albus deglutì leggermente. “Si chiama Elphias Doge.”

 

“E siete amici.”

 

“È quello che ho detto.”

 

“Che tipo è?”

 

Sulle prime, Dumbledore non seppe bene come rispondere a tale interrogativo, ma nel giro di pochi secondi gli salirono alla mente due aggettivi perfettamente calzanti, perciò li pronunciò. “Premuroso e fedele.”

 

“Ha cervello?” chiese Gellert. Stava ponendo una domanda dopo l’altra, quasi si trattasse di un interrogatorio, ma nonostante ciò riusciva in qualche modo a non risultare inopportuno.

 

“Entro certi limiti,” rispose Albus, cauto.

 

“Ti vuole bene?”

 

“Mi adora.”

 

“Gli vuoi bene?”

 

Quest’ultima domanda lasciò Albus un poco spiazzato. Tentò di rispondere con sincerità: “Gli sono affezionato.”

 

“Dunque è una presenza tutto sommato gradevole ma non indispensabile, che stravede per te, che dal canto tuo gli sei affezionato come lo si può essere a un cagnolino di compagnia abbastanza sveglio,” commentò Gellert. Non disse queste parole con causticità, bensì in tono leggero, quasi stesse parlando del tempo.

 

Albus riconobbe suo malgrado che aveva ragione, perciò non lo contraddisse.

 

“Quindi,” concluse Gellert, “non siete amici.” Lo guardò, rivolgendogli  un inaspettato sorriso. “Vuoi essere mio amico?” chiese.




****




Gellert,

cosa vuol dire essere amici?

A. D.






Albus,

suppongo voglia dire tenersi compagnia. Parlare, fare progetti per il futuro. Avere bisogno l’uno dell’altro. Volersi bene, non semplicemente essersi affezionati. Avere un legame. Sorridere, a volte. Avere delle insicurezze, forse. Essere felici in molti momenti. Costruire qualcosa.

Tu cosa ne pensi?

G.







Gellert,

vuol dire non essere soli, credo. Essere apprezzati. Avere qualcuno che non pensi che tu possa sempre cavartela da solo. Non richiedere nulla in cambio e ricevere qualcosa in cambio comunque. Tu hai mai avuto un amico?

A.







Credo di sì.







Gellert,

stai parlando di quel Thomas, vero?

A. D.







Albus,

il tuo intuito è notevole.

G.







Gellert,

non era difficile capirlo. Quando hai nominato il suo nome l’hai fatto con un tono abbastanza particolare. Lui era alla tua altezza? Ti aiutava a non sentirti solo?

A.







Albus,

a dire il vero non so. Ero ancora un ragazzino. Mi aiutava a non sentirmi solo, sì. Parlavamo di molte cose interessanti.

G.







Me ne racconterai qualcuna, spero.

Albus







Albus,

penso proprio che lo farò.

Ho apprezzato molto il fatto che tu non mi abbia rivolto troppe domande in merito, oggi. Hai dimostrato un notevole intuito anche in questo, così come una particolare sensibilità nei confronti delle psicologie altrui. È abbastanza raro, e per di più la mia non è una personalità semplice.

G.







Gellert,

non volevo essere indiscreto. Penso che un amico debba pensare anche al bene altrui, al modo giusto di dire le cose e al momento adatto per porre determinate questioni. Non credi?

Credo che saremo grandi amici.

A.D.








Lo credo anche io.

G.








Note dell’Atroce Autrice


Bene, sono riuscita a postare (grazie anche al betaggio a tempo record di Giulia <3).

Beh, il rapporto fra questi due comincia a evolversi, e credo sia giunto il momento di spendere due paroline sulla lunghezza di questa long. Ovviamente non procederò sempre un giorno alla volta... ci sarà ogni tanto il salto di qualche giorno quando Albus e Gellert cominceranno a conoscersi meglio. Diciamo che dovrebbero essere una trentina di capitoli complessivi secondo i miei piani – forse qualcuno in più, forse qualcuno in meno.

Ovviamente spero che vi piaccia.

Bisous,

Daphne









   
 
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