Solo una bambola di pezza
[Il
soldatino vide una
gran luce e sentì un gran calore, era insopportabile, ma lui
non sapeva se era
proprio la fiamma del fuoco o quella dell'amore. I suoi colori erano
ormai
sbiaditi, ma chi poteva dire se fosse per il viaggio o per la pena
d'amore? Il
soldatino guardò la fanciulla e lei guardò lui, e
lui si sentì sciogliere, ma
ancora teneva ben stretto il fucile sulla spalla. Intanto una porta si
spalancò
e il vento afferrò la ballerina che volò come una
silfide proprio nella stufa
vicino al soldatino. Sparì con una sola fiammata, e anche il
soldatino si
sciolse completamente. Quando il giorno dopo la domestica tolse la
cenere, del
soldatino trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina
il lustrino tutto
bruciacchiato e annerito.
Hans
Christian Andersen
– Il tenace soldatino di stagno]
La bambola di
pezza, dall’alto del suo scaffale impolverato,
fissava il bambino che, seduto sul tappeto davanti al caminetto acceso,
giocava
placidamente con il suo nuovo giocattolo. Si trattava di un
orsacchiotto, che
era stato chiamato Leo, e che aveva
un sorriso inquietante; nonostante ciò, il bambino si era
totalmente invaghito
di lui, dimenticandosi quindi della sua vecchia bambola.
E dire che per
più di un anno non era stato con altri che con
lei, trascorrendovi tutto il tempo che poteva, giocando e ridendo,
oppure
raccontando eventi dolorosi e affondando il naso nella sua pancia, con
le
spalle scosse dai singhiozzi. Gli altri pupazzi l’avevano
avvertita che quel
rapporto non era poi così speciale, che ognuno di loro era
stato, per un certo periodo,
il preferito del bambino, e che niente la distingueva da loro.
Lei non li aveva
ascoltati, e piano piano s’era abituata alla
presenza del bambino, facendola diventare indispensabile per il proprio
benessere. Egli le aveva dato un nome, Ros, che lei portava tutta fiera
ed
orgogliosa, e si sentiva stringere il cuore ogni volta che lui la
chiamava,
sussurrando quelle tre lettere tra le risa o tra le lacrime, o
semplicemente
per chiamarla quando tornava a casa da scuola.
Prima, dormiva con
lui tutte le notti. Lui
l’abbracciava e si addormentava con la guancia sul suo corpo,
talvolta ancora
scosso dalle lacrime, talaltra ancora sorridendo. Adesso, invece, nel
letto
accanto al bambino c’era sempre l’orsacchiotto
nuovo, così carino con il suo
pelo bruno pettinato impeccabilmente e il fiocchetto rosso intorno al
collo.
Ros si osservò l’abitino sgualcito, le cuciture
del suo corpo di pezza dalle
quali fuoriusciva un po’ d’imbottitura, e
portò una mano al viso, dove un
bottone l’aveva abbandonata, lasciandola cieca da un occhio.
Pensò
che avrebbe voluto poter piangere. Poi, però, le venne
in mente quello che le era stato detto nella bottega
dell’artigiano che l’aveva
prodotta: la missione di ogni giocattolo
è di rendere felice il proprio padroncino.
Tirò su col naso, imitando un
gesto che aveva spesso visto fare al bambino, e si chiese come fare a
compiere
la sua missione, se il suo bambino non la voleva più.
Non era una
bambola molto intelligente, e questo lo sapeva
benissimo anche da sola: purtroppo il suo cervello di pezza non era
adatto a
formulare pensieri elevati, o a pianificare strategie di comportamento
grazie
alle quali avrebbe potuto raggiungere il suo obiettivo.
Era ormai un
mese che stava adagiata su quello scaffale, che
nessuno la prendeva in mano, tranne una volta sola, quando Mamma
l’aveva
sollevata per spolverare il ripiano in legno. In
quell’occasione, la donna
l’aveva soppesata per un attimo, squadrandola dalla testa ai
piedi e giudicando
le sue malconce condizioni, sicuramente chiedendosi cosa farne, poi,
però,
l’aveva rimessa a posto, con una rapida occhiata verso il
figlioletto, che
dormiva ancora.
***
Ros aveva
compreso, finalmente, il motivo per il quale era
stata abbandonata: sicuramente il bambino si era dimenticato della sua
esistenza! Quindi, l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era
ricordargli di
essere ancora lì.
La scimmia di
peluche che viveva sul suo stesso scaffale,
molto più anziana e impolverata di lei (e che, tra
l’altro, aveva una gran
brutta tosse) l’aveva guardata con compassione, quando aveva
capito cosa stesse
per fare, ma la bambolina non vi aveva prestato attenzione, occupata
com’era a
valutare attentamente le misure, finché c’era
ancora luce.
Quando venne la
notte e il bambino andò a dormire, Ros attuò
il suo piano: con movimenti molto affaticati, dato che i suoi muscoli
di stoffa
erano rimasti inutilizzati per molto tempo, si avvicinò al
bordo della mensola
e si lasciò cadere; come aveva previsto,
precipitò esattamente sul cuscino del
padroncino.
Ringraziò
la sua buona stella, quando si rese conto che,
quella notte, l’orsacchiotto non era nel letto: probabilmente
Mamma l’aveva
messo a lavare, e in quel momento era seduto sul davanzale della
finestra del
salotto. Anche Ros ci era stata, una volta, ed era stato bellissimo,
perché
aveva potuto vedere le stelle, sentire il soffio del vento e udire gli
animaletti notturni che uscivano dalle loro tane.
Fu scossa dai
suoi pensieri dalla mano del bambino, che, semi
addormentato, tastò con una mano ciò che era
appena atterrato accanto a lui, e,
percependo qualcosa di morbido, lo prese e lo strinse a sé.
La bambola si sentì
invasa da una tale gioia che le sembrava che le stesse per scoppiare il
cuore,
nonostante non sapesse esattamente dove fosse situato il suo cuore, in
mezzo
all’imbottitura.
La vocina del
bimbo, però, le fece immediatamente cambiare
umore. Nel sonno, emise un lamento, poi appoggiò la testa
sul corpo della
bambola e mormorò: “Leo…”
Ros si
irrigidì improvvisamente, e cercò di divincolarsi
dalla presa che la stringeva, troppo forte perché le sue
deboli braccia
potessero opporvisi con successo, dopodiché si arrese, e
restò lì, accanto a un
bambino che non voleva lei.
***
Non era affatto,
affatto soddisfatta di ciò che aveva
ottenuto con la sua sconsiderata azione della settimana precedente.
Certo, il
bambino aveva trascorso con lei ben due pomeriggi, ma aveva giocato con
lei in
maniera meccanica e quasi apatica, senza che nemmeno un sorriso
piegasse le sue
labbra, al contrario di ciò che accadeva prima,
quando le risate fluivano spontanee fuori dalla sua bocca.
Il giorno
precedente, il bambino aveva giocato con lei in
salotto, perché voleva provare il nuovo tappeto, ma poi non
l’aveva riportata
al suo posto, dimenticandosela sul tavolino, nascosta alla vista di
chiunque
dalle pile di libri, enormi rispetto a lei. Era distesa lì
da più di un giorno
e mezzo, senza che nessuno la venisse a prendere, e stavolta la bambola
era
certa che lui si fosse davvero e definitivamente scordato della sua
esistenza,
e aveva rinunciato all’idea di ricordargliela, visti i
risultati non del tutto
splendidi.
Nonostante Mamma
e Papà fossero in quella stanza a leggere,
non la videro, e, quando andarono a dormire, Ros iniziò a
credere che non
sarebbe mai tornata nella cameretta.
Fu distratta
dallo sconosciuto tepore del caminetto, che era
stato lasciato acceso e di cui non s’era accorta; ora che
finalmente era da
sola, scese a fatica dal tavolino e si avvicinò al fuoco.
Non aveva mai
visto niente di simile, nella sua breve vita, e
lo spettacolo delle fiamme che danzavano la incantò. Il
piacevole calore che
sentiva la spinse a salire sullo scalino e ad entrare nel caminetto,
tanto
vicina che ormai le lingue di fuoco le lambivano gli arti di stoffa.
Non sentiva
dolore, o, almeno, non molto: solo un lieve
fastidio. Ricordava che il bambino le aveva detto, una volta, che le
fiamme
erano pericolose, perché bruciavano e facevano morire
qualunque cosa. Si sforzò
di capire cosa volesse dire morire:
era forse come addormentarsi? In ogni caso, sapeva che si trattava di
un
cambiamento della sua condizione, e che, se dopo la morte ci fosse
stata
ancora, sicuramente non avrebbe ricordato nulla.
E dato che il
fuoco sembrava non farle male, dato che la cosa
che desiderava di più era dimenticare tutto, e non provare
più niente, si
incamminò tra le braci ardenti, con le fiamme guizzanti che
si riflettevano nel
suo unico occhio, che non vedeva altro che rosso. Rosso del fuoco che
l’avrebbe
mangiata, rosso dell’amore che non era riuscita a cancellare,
rosso del suo
vestitino scucito, rosso del suo nome.
Rosso delle
lacrime che non poteva versare, ma che se avesse
versato sarebbero state rosse.
Si
accoccolò in un angolo, godendosi le fiamme che lambivano
la sua pelle. Avevano consumato tutto lo strato esterno di stoffa, e
oh, ora sì che sentiva
il dolore, ora sì che
avrebbe potuto gridare per il dolore.
Non
gridò. Sforzò le sue labbra a piegarsi in un
sorriso
amaro.
Nessuno avrebbe
sentito la sua mancanza, rifletté. Dopotutto,
era solo una bambola di pezza.
Però,
lei avrebbe sentito la mancanza di molte, molte cose.
Un’unica
lacrima scivolò fuori dal suo occhio di bottone,
percorrendo la sua guancia di ruvida stoffa bruciata, adagiandosi sulle
labbra
che ancora sorridevano, cucite con filo rosso (rosso,
rosso, c’era qualcosa che non fosse rosso?) sulla
sua pelle
bigia, e poi fu baciata via da una lingua di fuoco.
***
Il mattino dopo,
quando la padrona di casa si dedicò alla
pulizia del caminetto, non si stupì troppo di trovarvi un
bottone. A volte,
infatti, capitava che piccoli oggetti fossero accidentalmente gettati
nel
fuoco, tanto più che, sotto di esso, vi era quella che
sembrava stoffa
bruciata, sicuramente un fazzoletto che suo marito aveva buttato via, o
perché
si era rovinato o perché non ne aveva più
bisogno; probabilmente lo sfortunato
bottone si era ritrovato nella sua stessa tasca.
Non
collegò questo ritrovamento alla bambola di suo figlio,
quella che aveva il vestitino semiscucito e un occhio solo,
né comprese cosa
intendesse il bambino, quando le chiese, qualche giorno più
tardi, se sapesse
dove potesse trovarsi una certa Ros.
Nemmeno sapeva
chi fosse, questa Ros. Probabilmente era una
sua amica immaginaria, o un giocattolo che aveva dimenticato da qualche
parte.
[1500 parole]
Note
Non
c’è molto da dire, in realtà. Lavoro a
questa
storia da più di due mesi, ormai, e ovviamente nella stesura
originale era
totalmente diversa da come è venuta adesso. Altrettanto
ovviamente, ho scritto
la metà delle cose che volevo scrivere, non è
assolutamente di mio gradimento,
però hey, almeno l’ho scritta, e questo
è già un grande traguardo.
C’è
davvero tanto di me, qui dentro. Chi mi conosce,
sa che il nome Ros per me ha una
particolare valenza.
Leo, invece,
è il nome del mio orsetto preferito,
perché, dopotutto, io sono ancora una bambina dentro v.v
Ringrazio il mio
Funghetto, Algedi, non solo per la
rilettura superrapida, ma anche per il solo
fatto che lei continui a respirare in questo mondo orribile, e che
continui a
starmi accanto v.v Love ya, girl!
Grazie per aver letto, e
grazie a chiunque lascerà un
commento ^^’