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Autore: Caranil_    05/06/2012    3 recensioni
La protagonista di questa storiella senza troppe pretese è una bambola. Potrebbe sembrarvi strano, ma anche le bambole soffrono.
Millecinquecento parole di angst e drammaticità, io vi ho avvertiti!
Spero che non faccia troppo schifo ^^
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Solo una bambola di pezza

 

 

[Il soldatino vide una gran luce e sentì un gran calore, era insopportabile, ma lui non sapeva se era proprio la fiamma del fuoco o quella dell'amore. I suoi colori erano ormai sbiaditi, ma chi poteva dire se fosse per il viaggio o per la pena d'amore? Il soldatino guardò la fanciulla e lei guardò lui, e lui si sentì sciogliere, ma ancora teneva ben stretto il fucile sulla spalla. Intanto una porta si spalancò e il vento afferrò la ballerina che volò come una silfide proprio nella stufa vicino al soldatino. Sparì con una sola fiammata, e anche il soldatino si sciolse completamente. Quando il giorno dopo la domestica tolse la cenere, del soldatino trovò solo il cuoricino di stagno, della ballerina il lustrino tutto bruciacchiato e annerito.

Hans Christian Andersen – Il tenace soldatino di stagno]

 

 

 

 

La bambola di pezza, dall’alto del suo scaffale impolverato, fissava il bambino che, seduto sul tappeto davanti al caminetto acceso, giocava placidamente con il suo nuovo giocattolo. Si trattava di un orsacchiotto, che era stato chiamato Leo, e che aveva un sorriso inquietante; nonostante ciò, il bambino si era totalmente invaghito di lui, dimenticandosi quindi della sua vecchia bambola.

E dire che per più di un anno non era stato con altri che con lei, trascorrendovi tutto il tempo che poteva, giocando e ridendo, oppure raccontando eventi dolorosi e affondando il naso nella sua pancia, con le spalle scosse dai singhiozzi. Gli altri pupazzi l’avevano avvertita che quel rapporto non era poi così speciale, che ognuno di loro era stato, per un certo periodo, il preferito del bambino, e che niente la distingueva da loro.

Lei non li aveva ascoltati, e piano piano s’era abituata alla presenza del bambino, facendola diventare indispensabile per il proprio benessere. Egli le aveva dato un nome, Ros, che lei portava tutta fiera ed orgogliosa, e si sentiva stringere il cuore ogni volta che lui la chiamava, sussurrando quelle tre lettere tra le risa o tra le lacrime, o semplicemente per chiamarla quando tornava a casa da scuola.

Prima, dormiva con lui tutte le notti. Lui l’abbracciava e si addormentava con la guancia sul suo corpo, talvolta ancora scosso dalle lacrime, talaltra ancora sorridendo. Adesso, invece, nel letto accanto al bambino c’era sempre l’orsacchiotto nuovo, così carino con il suo pelo bruno pettinato impeccabilmente e il fiocchetto rosso intorno al collo. Ros si osservò l’abitino sgualcito, le cuciture del suo corpo di pezza dalle quali fuoriusciva un po’ d’imbottitura, e portò una mano al viso, dove un bottone l’aveva abbandonata, lasciandola cieca da un occhio.

Pensò che avrebbe voluto poter piangere. Poi, però, le venne in mente quello che le era stato detto nella bottega dell’artigiano che l’aveva prodotta: la missione di ogni giocattolo è di rendere felice il proprio padroncino. Tirò su col naso, imitando un gesto che aveva spesso visto fare al bambino, e si chiese come fare a compiere la sua missione, se il suo bambino non la voleva più.

Non era una bambola molto intelligente, e questo lo sapeva benissimo anche da sola: purtroppo il suo cervello di pezza non era adatto a formulare pensieri elevati, o a pianificare strategie di comportamento grazie alle quali avrebbe potuto raggiungere il suo obiettivo.

Era ormai un mese che stava adagiata su quello scaffale, che nessuno la prendeva in mano, tranne una volta sola, quando Mamma l’aveva sollevata per spolverare il ripiano in legno. In quell’occasione, la donna l’aveva soppesata per un attimo, squadrandola dalla testa ai piedi e giudicando le sue malconce condizioni, sicuramente chiedendosi cosa farne, poi, però, l’aveva rimessa a posto, con una rapida occhiata verso il figlioletto, che dormiva ancora.

***

Ros aveva compreso, finalmente, il motivo per il quale era stata abbandonata: sicuramente il bambino si era dimenticato della sua esistenza! Quindi, l’unica cosa che avrebbe dovuto fare era ricordargli di essere ancora lì.

La scimmia di peluche che viveva sul suo stesso scaffale, molto più anziana e impolverata di lei (e che, tra l’altro, aveva una gran brutta tosse) l’aveva guardata con compassione, quando aveva capito cosa stesse per fare, ma la bambolina non vi aveva prestato attenzione, occupata com’era a valutare attentamente le misure, finché c’era ancora luce.

Quando venne la notte e il bambino andò a dormire, Ros attuò il suo piano: con movimenti molto affaticati, dato che i suoi muscoli di stoffa erano rimasti inutilizzati per molto tempo, si avvicinò al bordo della mensola e si lasciò cadere; come aveva previsto, precipitò esattamente sul cuscino del padroncino.

Ringraziò la sua buona stella, quando si rese conto che, quella notte, l’orsacchiotto non era nel letto: probabilmente Mamma l’aveva messo a lavare, e in quel momento era seduto sul davanzale della finestra del salotto. Anche Ros ci era stata, una volta, ed era stato bellissimo, perché aveva potuto vedere le stelle, sentire il soffio del vento e udire gli animaletti notturni che uscivano dalle loro tane.

Fu scossa dai suoi pensieri dalla mano del bambino, che, semi addormentato, tastò con una mano ciò che era appena atterrato accanto a lui, e, percependo qualcosa di morbido, lo prese e lo strinse a sé. La bambola si sentì invasa da una tale gioia che le sembrava che le stesse per scoppiare il cuore, nonostante non sapesse esattamente dove fosse situato il suo cuore, in mezzo all’imbottitura.

La vocina del bimbo, però, le fece immediatamente cambiare umore. Nel sonno, emise un lamento, poi appoggiò la testa sul corpo della bambola e mormorò: “Leo…

Ros si irrigidì improvvisamente, e cercò di divincolarsi dalla presa che la stringeva, troppo forte perché le sue deboli braccia potessero opporvisi con successo, dopodiché si arrese, e restò lì, accanto a un bambino che non voleva lei.

***

Non era affatto, affatto soddisfatta di ciò che aveva ottenuto con la sua sconsiderata azione della settimana precedente. Certo, il bambino aveva trascorso con lei ben due pomeriggi, ma aveva giocato con lei in maniera meccanica e quasi apatica, senza che nemmeno un sorriso piegasse le sue labbra, al contrario di ciò che accadeva prima, quando le risate fluivano spontanee fuori dalla sua bocca.

Il giorno precedente, il bambino aveva giocato con lei in salotto, perché voleva provare il nuovo tappeto, ma poi non l’aveva riportata al suo posto, dimenticandosela sul tavolino, nascosta alla vista di chiunque dalle pile di libri, enormi rispetto a lei. Era distesa lì da più di un giorno e mezzo, senza che nessuno la venisse a prendere, e stavolta la bambola era certa che lui si fosse davvero e definitivamente scordato della sua esistenza, e aveva rinunciato all’idea di ricordargliela, visti i risultati non del tutto splendidi.

Nonostante Mamma e Papà fossero in quella stanza a leggere, non la videro, e, quando andarono a dormire, Ros iniziò a credere che non sarebbe mai tornata nella cameretta.

Fu distratta dallo sconosciuto tepore del caminetto, che era stato lasciato acceso e di cui non s’era accorta; ora che finalmente era da sola, scese a fatica dal tavolino e si avvicinò al fuoco.

Non aveva mai visto niente di simile, nella sua breve vita, e lo spettacolo delle fiamme che danzavano la incantò. Il piacevole calore che sentiva la spinse a salire sullo scalino e ad entrare nel caminetto, tanto vicina che ormai le lingue di fuoco le lambivano gli arti di stoffa.

Non sentiva dolore, o, almeno, non molto: solo un lieve fastidio. Ricordava che il bambino le aveva detto, una volta, che le fiamme erano pericolose, perché bruciavano e facevano morire qualunque cosa. Si sforzò di capire cosa volesse dire morire: era forse come addormentarsi? In ogni caso, sapeva che si trattava di un cambiamento della sua condizione, e che, se dopo la morte ci fosse stata ancora, sicuramente non avrebbe ricordato nulla.

E dato che il fuoco sembrava non farle male, dato che la cosa che desiderava di più era dimenticare tutto, e non provare più niente, si incamminò tra le braci ardenti, con le fiamme guizzanti che si riflettevano nel suo unico occhio, che non vedeva altro che rosso. Rosso del fuoco che l’avrebbe mangiata, rosso dell’amore che non era riuscita a cancellare, rosso del suo vestitino scucito, rosso del suo nome.

Rosso delle lacrime che non poteva versare, ma che se avesse versato sarebbero state rosse.

Si accoccolò in un angolo, godendosi le fiamme che lambivano la sua pelle. Avevano consumato tutto lo strato esterno di stoffa, e oh, ora sì che sentiva il dolore, ora sì che avrebbe potuto gridare per il dolore.

Non gridò. Sforzò le sue labbra a piegarsi in un sorriso amaro.

Nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, rifletté. Dopotutto, era solo una bambola di pezza.

Però, lei avrebbe sentito la mancanza di molte, molte cose.

Un’unica lacrima scivolò fuori dal suo occhio di bottone, percorrendo la sua guancia di ruvida stoffa bruciata, adagiandosi sulle labbra che ancora sorridevano, cucite con filo rosso (rosso, rosso, c’era qualcosa che non fosse rosso?) sulla sua pelle bigia, e poi fu baciata via da una lingua di fuoco.

***

Il mattino dopo, quando la padrona di casa si dedicò alla pulizia del caminetto, non si stupì troppo di trovarvi un bottone. A volte, infatti, capitava che piccoli oggetti fossero accidentalmente gettati nel fuoco, tanto più che, sotto di esso, vi era quella che sembrava stoffa bruciata, sicuramente un fazzoletto che suo marito aveva buttato via, o perché si era rovinato o perché non ne aveva più bisogno; probabilmente lo sfortunato bottone si era ritrovato nella sua stessa tasca.

Non collegò questo ritrovamento alla bambola di suo figlio, quella che aveva il vestitino semiscucito e un occhio solo, né comprese cosa intendesse il bambino, quando le chiese, qualche giorno più tardi, se sapesse dove potesse trovarsi una certa Ros.

Nemmeno sapeva chi fosse, questa Ros. Probabilmente era una sua amica immaginaria, o un giocattolo che aveva dimenticato da qualche parte.

 

 

 

[1500 parole]

 

 

Note

Non c’è molto da dire, in realtà. Lavoro a questa storia da più di due mesi, ormai, e ovviamente nella stesura originale era totalmente diversa da come è venuta adesso. Altrettanto ovviamente, ho scritto la metà delle cose che volevo scrivere, non è assolutamente di mio gradimento, però hey, almeno l’ho scritta, e questo è già un grande traguardo.

C’è davvero tanto di me, qui dentro. Chi mi conosce, sa che il nome Ros per me ha una particolare valenza.

Leo, invece, è il nome del mio orsetto preferito, perché, dopotutto, io sono ancora una bambina dentro v.v

Ringrazio il mio Funghetto, Algedi, non solo per la rilettura superrapida, ma anche per il solo fatto che lei continui a respirare in questo mondo orribile, e che continui a starmi accanto v.v Love ya, girl!

Grazie per aver letto, e grazie a chiunque lascerà un commento ^^’

   
 
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