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Autore: ElizabethLovelace    24/12/2006    3 recensioni
I Malandrini rimasti e chi è ora al loro fianco dovranno fare i conti con i ricordi divertenti e tristi del passato... le loro vite torneranno a intrecciarsi per decidere cosa fare una volta per tutte di ciò che è stato. La chiave? Elizabeth Lovelace... sospesa fra un passato ed un presente che Harry &Co. trovano indecifrabili: chi è, da dove viene? Come può essere... ciò che è?
Inserita quasi esattamente nel 5° e 6° libro della rowling.
GRAZIE per seguirmi ancora così tanto, prometto che oltre alle revisioni dei primi capitoli posterò prestissimo anche i tre conclusivi!!! Ma GRAZIE
Genere: Romantico, Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: I Malandrini, Il trio protagonista, Nuovo personaggio, Remus Lupin, Severus Piton, Sirius Black
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Rieccomi. Ci ho messo un po', questa volta, ma nel frattempo ho anche cominciato a ritoccare l'inizio come avevo detto... non so se qualcuno se ne sia accorto, ma le modifiche sono state fatte ai primi quattro (modifica del 26/12, prima erano 2, NdA) capitoli per il momento. Cosa vi sembra? Beh, a tutti voi un bellissimo e caldo Natale. Conosco fin troppa gente che avrà un brutto Natale, quest'anno, allora tutto quello che posso fare per renderlo di un millimetro più carino per chi mi legge è... scrivere, no? Un bacio! Novella.

Profezie, 65.


173.
Aveva fatto un sogno, mentre era svenuta. Breve. Harry era il suo bambino, il suo preziosissimo bambino, e cercava di arrampicarsi sul lettone nel quale lei si trovava, per raggiungerla. Rideva con quella voce cristallina che solo i bambini molto piccoli riescono ad avere, una voce che le faceva piacevolmente il solletico. Lei, chissà perché, non lo aiutava; restava sdraiata a guardare il soffitto, emozionata come di fronte ad un nuovo gioco, così ad un certo punto Harry aveva iniziato a piagnucolare perché lei lo prendesse in braccio per farlo salire.
Quando si era voltata a guardarlo era Sirius che le chiedeva aiuto, cercando di salire su quel letto.
Lei aveva sentito le lacrime pungerle gli occhi, perché sapeva che non poteva aiutarlo in alcun modo. No. Avrebbe dovuto ucciderlo.

Si era ripresa senza sollevare le palpebre, percependo sabbia ovunque: tra i vestiti, a strisciare la pelle, perfino nelle mutande; in altre occasioni l’avrebbe trovato divertente, era il tipo di cose che a Hogwarts faceva disperare Lily. Era il tipo di cose che a Hogwarts aveva fatto innamorare Sirius – oltre, chiaramente, al suo saper dimostrare apertamente i sentimenti e blah blah. Davvero, l’avrebbe trovato spassoso se non si fosse sentita nel contempo così ammaccata: non l’avrebbe saputo definire di preciso, ma sentiva dolori dappertutto, come dopo un pestaggio, e la situazione non aveva proprio niente di avventuroso o eccitante o glorioso.
Dovrei alzarmi, aveva pensato. Quantomeno aprire gli occhi.
Aveva provato a stiracchiare silenziosamente le dita dei piedi, ma qualcosa non andava. Ow.
Dovrei alzarmi
, si era ripetuta. Ha l’aria di essere tardi. Le sue gambe, però, erano bloccate. Aveva provato a concentrarsi: forse qualcuno l’aveva catturata? Era svenuta... poteva essersi trattato di uno Stupeficium o qualcosa del genere? Sarà più saggio non lasciare che intuiscano che sono sveglia.
Aveva mantenuto gli occhi ben serrati. Dopo un altro minuto, però, si era spazientita, non riuscendo a non muoversi un poco. James, stava per dire, toglimi questa maledetta sabbia di dosso! Poi aveva ricordato. Harry. Sogno. Bambino. Sirius.
Morti.

La parte comica è che questa è forse la mia prima frase ragionevole.
In quel momento aveva sentito che qualcuno le accarezzava la testa, intuendo così che le sue gambe erano bloccate perché qualcuno ci si era seduto sopra; poi una piccola goccia salata era piombata dall’alto sul suo naso, scivolando verso il collo. L’immagine di una mano che si ritraeva precipitosamente era apparsa sfocata ai suoi occhi, mentre li riapriva confusa. Una donna sorrideva commossa di fronte a lei; probabilmente era stata al suo capezzale finché non si era ripresa. Bessie era riuscita a formulare nebulosamente un “...Remus?” col pensiero. L’aveva vista, l’aveva sentita ed avrebbe voluto tornare a letto: c’era ancora, in effetti, ma in un modo ormai irreparabilmente distinto. Avrebbe voluto infilarsi sotto il lenzuolo e tirarlo su fino al mento.
No. Meglio al naso.
Lei però era ancora lì. Devo essere fuori di testa, aveva riflettuto, provando a richiudere gli occhi. Niente. Nel momento in cui li aveva riaperti, lei era ancora crudelmente lì.
Vorrei gettarti verso qualcosa, aveva pensato. Non per farti male; solo perché anche tu ti prenda uno spavento terribile. C’era, nella stanza, una specie di odore di sangue; gentile in qualche modo, e forse era ciò che ti faceva sentire peggio nel percepirlo. C’era odore di sangue e di lago e di piume, e di una certa urgenza di affrontare le cose. Bessie aveva fatto un suono come uno schiocco; come se il fiato emesso e lo spazio che aveva a disposizione per farlo uscire si trovassero in disaccordo. Stupidamente, aveva provato ad annuire.
E va bene, si era incoraggiata. Se non è crollato fino adesso, non sarà questa la fine del mondo, no?
Si era interrotta quando la donna le aveva mormorato soltanto “Dai.”
Bessie, in un secondo, si era sentita preda di un’impotenza grandiosa. Aveva provato per intero la terrificante condanna che è amare una persona, quando l’amore non basta.
Mamma”, aveva detto. E per la prima volta quella parola aveva avuto fra le sue labbra soltanto il significato originario. Nient’altro.
“Devi alzarti Betsy” l’aveva incoraggiata indicando il resto del castello, e tutto quello che idealmente c’era fuori. “Hai molto da fare ora.”
Lei si era tirata su con la schiena, puntandosi sui gomiti. “Ma allora... tu capisci?”
Sua madre aveva provato a posarle di nuovo quella mano sulla testa; ci aveva ripensato, esitando a mezz’aria prima di riporla in grembo. “L’ho sempre fatto. Forse non come ti aspettavi tu, forse non come avresti preferito, ma l’ho sempre fatto. Sono tua madre. Sei tu che eri sempre così impegnata a sfuggirmi che non ti sei mai chiesta chi fossi veramente.”
Bessie, incoerentemente con la situazione, aveva considerato che in fondo era stata fortunata. Non è che avesse dovuto sopportare molti annunci orribili come, per esempio, era toccato a Remus. Non per le persone più importanti. Se n’era andata prima di loro.
Sono sempre spaventosamente stupidi, i momenti della vita reale. Se fossi stata sveglia, di sicuro sarebbero venuti ad informarmi durante una battaglia a cuscinate o mentre provavo a truccare Sirius per Halloween, o magari mentre facevamo il bagno insieme nel regno delle bolle di sapone.
C’è qualcosa di crudele nella vita, nel modo che ha di farti sapere le cose. Nel tuo modo stupido e sguaiato di chiedere “Come va?” a chi arriva, e per qualche strano motivo sei più amichevole del solito, da pacca sulle spalle e “perdonami, ho i capelli sgocciolanti”, per capirci... e poi loro ti guardano come se dietro di te si aprisse il vuoto e stessero per spingerti giù, e quando te lo dicono è come se ti avessero appena sorpreso in mutande.
“E adesso... cosa c’è di diverso?”
Parlava piano, Bessie; come se con la sua voce temesse di risvegliare qualcosa.
“Ho smesso di provare a tenere il tuo passo quando ho capito che non era per me che ti comportavi così, Betsy: era per te. Allora ho capito che ne avevi bisogno, per trovarti in qualche modo.”
“Che cosa c’è di diverso?” aveva insistito, piano ma testardamente.
“Voglio farti vedere una cosa” aveva risposto lei, ed il tono morbido della voce si era confuso con il frusciare di un foglietto che aveva estratto dalla tasca. Aveva lasciato che lei lo prendesse, dopo averlo lisciato un po’ nervosamente coi palmi delle mani contro le ginocchia. Bessie era rimasta alcuni minuti a fissare quelle poche righe scritte di fretta. Alcuni lunghi, interminabili minuti.
Trovava ingiusto come per l’ennesima volta, senza poter scegliere, senza potersi preparare, avesse l’impressione di non andare più bene per lo spazio in cui era sempre stata. Come se gli angoli fossero diversi e le linee fossero diventate tratteggi; certe proporzioni potevano cambiare di colpo, e il soffitto che pareva lontanissimo era ora basso da far paura.
Gnickle”, aveva detto, e le era sembrato di sentire qualcuno bussare. Si era voltata verso la porta, ma nessuno la stava cercando. I miei vestiti, aveva pensato. I miei vestiti mi stanno stretti.
“Che cos’è?” aveva domandato poi, secca, senza alzare gli occhi verso di lei.
“Quella è la tua profezia, Elizabeth”. Sua madre continuava a lisciare un inesistente foglietto di carta contro le gambe mentre parlava, e ancora la sua voce ed il frusciare della carta sembravano confondersi. Aveva i capelli tirati indietro; la facevano più elegante e un po’ più pallida. “Diceva... che avresti chiuso gli occhi contro i desideri di tua madre, e non li avresti più visti. Mi dispiace di aver tenuto così tanto a che tu mi seguissi”, aveva continuato in un soffio; si era poi bloccata, incapace di proseguire. Aveva lasciato vagare lo sguardo per la stanza di quella scuola che in fondo conosceva così poco; tra le foglie di una pianta fresca. “Avevo il terrore di perderti, Elizabeth. Ti vedevo così... testarda sulle tue posizioni, io... temevo che ti allontanassi... che non fossi più al sicuro... a causa di questa.”
Era calato il silenzio tra le due donne. Bessie non sembrava avere nessuna intenzione di parlare o di guardarla, rannicchiata su quel letto troppo grande come una bambola senz’occhi lasciata da sola al buio.
“All’inizio, ti giuro che era solo questo” aveva spiegato con tono accorato. “Poi non so... man mano che si andava avanti gli eventi mi trascinavano, c’era questo mondo che andava sempre più allo sfascio e in me aumentava il bisogno di tenerlo sotto controllo perché non sapevo dove ti avevo fatta nascere... e avevo solo te al mondo, e non accettavo che volessi così tanto distinguerti da me, come se dovessi vergognarmi per quello che ero!” La voce le si era sollevata di qualche ottava. “Ce l’avevi con me in un modo completamente distruttivo, e anche se poi ho capito che erano le tue paure per te stessa a parlare ed agire, anche se ero io la madre ed avrei dovuto avere pazienza, proprio non ce la facevo! Non era giusto, Elizabeth... so di non essere perfetta come tuo padre, voi due siete sempre stati in sintonia e io restavo lì a guardarvi e a cercare di mantenere un po’ di ordine nella nostra vita--” si era interrotta con un rapido singulto. Bessie aveva aperto e richiuso la bocca senza decidersi a parlare, mentre lei scuoteva il capo.
“Mi spiace per quel giorno all’ospedale” aveva ripreso con un filo di voce. “Ero... oh cielo, non lo so. È terribile quello che ho detto, non cerco di cambiare le cose sai... ma mi ero sentita come se alla fine, dopo essermi sentita lasciata in disparte per tutto quel tempo, avessi dovuto farti ammettere che avevo ragione. Era come se quello che ti era successo mi avesse rassicurato che non ero stata una madre così terribile come volevi farmi credere.... Dio,” aveva sospirato soffiandosi il naso “mi sentivo come se la mia vita fosse stata legittimata dalla disgrazia capitata alla mia unica figlia!” aveva annunciato quasi con terrore, sbarrando gli occhi a quella verità.
La cosa bella era che in tutte quelle parole non le aveva mai, mai chiesto come si sentisse. Bessie aveva bisogno che nessuno le chiedesse come si sentiva. O che la guardassero preoccupati. Le era straordinariamente grata per non averla guardata preoccupata. Un’altra cosa bella era che non si era scusata, non aveva in nessun modo preso le distanze, comportandosi da madre. Tutte quelle debolezze erano così poco da madre e questo, straordinariamente, la riappacificava con lei; Bessie sentiva che piano piano stava ricucendo qualcosa. È tutto a posto, aveva pensato.
Non è tutto a posto, non lo è davvero. Vorrei che ci fosse qualcosa da poter fare.
Tonks anni prima le diceva che lei e Lily certe volte parlavano di più con quello che omettevano che con quello che lasciavano ai discorsi; versi, balbettii, un sopracciglio che si muoveva così. Le faceva strano ora sentire qualcosa di simile proprio con sua madre, dopo Lily sua madre. È buffo.
Sentiva, però, che in qualche fantastico modo non serviva. Non serve che io glielo dica.
Quando, molti silenzi dopo, Bessie aveva risposto alzando gli occhi verso di lei, non era stato per parlare dello stesso argomento. Non direttamente almeno, ma sua madre aveva capito; aveva capito quella richiesta di sostegno come può comprenderla solo una madre dagli occhi di sua figlia, dalla luce d’attesa e di inconsapevole fiducia. Aveva capito quel ritorno.
“...Credi veramente che sia stato lui, mamma?”
Due lacrime le minacciavano gli occhi, già arrossati dalla commozione. Sua madre aveva sospirato.
“La vita non è solo profezie, Betsy. Tu hai fatto le tue scelte, è questo che ti ha portato ad essere la persona che sei. Allo stesso modo la vita non è soltanto quello che si può vedere; tu non sei quello che gli altri pensano tu sia, o sarai.” Le aveva passato due dita sotto il mento. Bessie non ricordava che lei l’avesse mai chiamata Betsy. “Tieniti la tua fiducia, Elizabeth.”
Bessie restava a guardarla, in silenzio. Aveva scosso il capo con desolazione.
“Ma anche se gli credo, mamma, anche se gli voglio bene... se lo incontrassi lo ucciderei. Questo lo so.”
Si tormentava nervosamente le dita, mentre i capelli si striavano inconsciamente d’argento.
“Betsy... forse è ora di usare quella cosa di Silente.”



174.
Quando era tornata di là si appoggiava al braccio della madre come una convalescente. Il sorriso con cui aveva accolto gli sguardi stanchi o preoccupati dei presenti era grave, ma in qualche modo consapevole, più adulto. Si era avvicinata al signor Weasley.
“Arthur” aveva mormorato. “Bill...?”
Lui le aveva indicato un corridoio che si snodava al centro della scuola. “Quarta porta a destra.”
Si era mossa verso la stanza del ferito senza altre parole, con la leggerezza di una farfalla.

Aveva mosso due passi incerta nella penombra della stanza, che aveva raggiunto con passo molto meno leggiadro appena si era sottratta agli sguardi dei presenti. Soltanto un piede era calzato da ciabatta, così zoppicava leggermente, come una bambina piccola ancora assonnata ed ancora intenta a restare dritta su due piedi; guardava verso l’interno, mordendosi un labbro nel controluce della porta prima di avvicinarsi al letto su cui stava adagiato il ragazzo.
“Credo che la pianta nella mia stanza abbia cercato di uccidermi”, aveva annunciato. Non si era soffermata a pensare quanto quell’affermazione potesse suonare eccentrica, da un punto di vista appena ragionevole. In effetti, Silente era morto, quindi non faticava ad aspettarsi che l’ordine naturale delle cose venisse stravolto. Bill, però, non rispondeva.
“Una pianta feroce” aveva specificato, rendendosi conto un po’ troppo tardi della gaffe. Aveva tossicchiato per disperdere l’effetto di quelle parole.
Lì accanto, sopra una cassapanca con le zampe di leone, stava uno dei ridicoli, storici cappelli di Silente: era enorme, di velluto rosso porpora con una specie di banana in centro del colore dell’oro. Bessie aveva vagamente notato che la cassapanca aveva anche le zanne. Uno strampalato cappello di Silente su una cassapanca sbucata dalla giungla: la situazione, vista da un di fuori appena razionale, doveva apparire grottesca.
Non aveva resistito, comunque, provandosi il copricapo la cui falda anteriore le era finita davanti agli occhi; si era pavoneggiata come se si stesse ammirando allo specchio, civettuola aveva domandato: “Come sto?”
Bill, però, non rispondeva.
In effetti, non la stava vedendo.
“Non fa niente. Magari hai voglia di un po’ di budino?” aveva aggiunto d’un tratto, dopo che con la coda dell’occhio aveva notato il piattino accanto ad un bicchiere di pillole e tutta una serie di fasce, lì sul comodino di fianco al letto. “Sembra bello fresco.”
Dal camino sul lato destro della stanza era crollato il ceppo che stava sopra agli altri, sbriciolandosi in una serie di scintille sfolgoranti come tante piccole farfalle rosse. Le piaceva, il rumore del caminetto, anche se l’inverno era passato da un pezzo. “È confortante che tu non possa chiedermi di che diavolo sto parlando, o come posso pensare al budino in un momento come questo!”, aveva asserito sicura. “Sono così stanca di pensare!”
Aveva finito col sedersi sulla sedia lasciata libera al suo capezzale; lì accanto c’era anche una poltrona di pelle rossa dall’aria invitante, ma Bessie non voleva stare comoda. Preferiva ricordarsi quello che era successo tutto il tempo. Gli aveva sistemato le lenzuola amorevolmente. “La pianta. Quella in camera. Penso dovrei darle un nome.” Aveva scrollato la chioma scura. “Cioè, non un nome vero e proprio... o forse sì. Si è conquistata il mio affetto. Non fare così”, aveva aggiunto improvvisamente. “Non credo volesse uccidermi davvero. Si fanno cose strane, quando ci si sente soli.”
Aveva fatto una smorfia, una specie di sorrisetto mal riuscito. “Tipo affezionarsi ad una pianta, dici?”
Si era alzata in piedi, muovendo qualche passo incerto su quella ciabatta sola; era tornata verso il cappello, poi aveva preferito lasciarlo perdere. Forse avrebbe dovuto ficcarlo in qualche armadio... o forse no. Era tornata a sedersi.
“Ti è mai capitato di non avere la più pallida idea di cosa aspettarti da... da...?” si era arresa, infilando l’indice nel budino che aveva ceduto alla pressione con un adorabile plonf. Era rimasta per molto tempo a guardarlo, seduta accanto a lui come una madre che legge le favole della buonanotte al suo bambino.
“Dovresti svegliarti. Mi manchi.”
Gli aveva stretto forte una mano tra le sue, chiedendosi se potesse sentirla, se l’avrebbe mai più sentita allo stesso modo.
“Dovresti promettermi che sarai sempre tu”, aveva aggiunto con un leggero tremito della voce che indicava come la piccola, deliziosa recita stesse ormai iniziando a scricchiolare in favore della realtà. Caro, forte Bill! Quante volte l’aveva presa in giro, coccolata, sostenuta. Quante volte avevano giocato, e quante altre si erano spalleggiati testardamente.
“O almeno che, se non lo sarai, ti lascerai amare lo stesso.”
Aveva tossicchiato, cercando di nuovo di guadagnare tempo mentre si guardava intorno come se solo in quel momento si fosse accorta di trovarsi in quella stanza.
“Sono preoccupata, sai Bill? Non so, esattamente... mi è capitato spesso di dover attraversare momenti difficili, nella vita, ma mai come oggi di trovarmi di fronte a... a una specie di nebbia, con... una specie... di abisso spalancato di fronte a me. Era Silente. Lui c’era sempre a trattenerti per una spalla dal precipitare. Credo fosse lui. Io... non so davvero cosa fare ora, con tutto quello che riguarda questa guerra, e quello che devo decidere, ci sono Remus e Sirius, e Silente che non c’è più, e tutto questo... è semplicemente troppo, capisci? Chi si prenderà cura di Harry ora? Mio Dio!” aveva esclamato, prendendosi il capo tra le mani. “Non ci sono proprio abituata, a questo tipo di abisso! La mia vita è sempre stata a-abissale... come si dice a-abissale? Insomma, dovevo proprio fare strike?”
Fleur era rimasta fino a quel momento un poco scostata, in silenzio; le aveva lasciato rispettosamente il suo spazio, e Bessie le aveva parlato senza voltarsi.
“Mi sa che ho detto ‘abisso’ troppe volte” aveva ridacchiato, piano. “Ho anche inventato una nuova parola. Sirius me lo rimproverava, anche se credo gli piacesse.” E poi: “È strano come uno stesso posto dopo così poche ore possa sembrarti tanto diverso, uh?” aveva commentato guardandosi intorno. Fleur aveva fatto un passo in avanti, con il suo strascicato accento francese.
“Credo in onglese si chiami prospettiva.”
Bessie, alzandosi, le aveva sorriso amichevolmente.
“Sai... se fossi stata ad Hogwarts, saresti stata sicuramente una Grifondoro!” aveva annunciato, e Fleur aveva compreso l’importanza di quell’assicurazione. Aveva sorriso.



175.
Era tornata di nuovo dagli altri, ma questa volta il caos regnava sovrano nella stanza. All’inizio, mentre si avvicinava alla porta, si era preoccupata perché temeva che stesse succedendo qualcosa di brutto: aveva anche estratto la bacchetta, camminando con circospezione rasente ai muri. Magari un’altra pianta...?, aveva tentato, senza risultarsi convincente neppure per un istante. Appena raggiunta la porta, però, la scena a cui aveva assistito era Remus mezzo affogato tra un’enorme massa di capelli castano-rossicci che lo stringevano come se non si vedessero da una vita.
In effetti, non si vedevano da una vita.
“Lloyd”, aveva mormorato tra le labbra.



  
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