Crossover
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Autore: Registe    10/06/2012    3 recensioni
Seconda storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone". Sono passati tre anni dagli avvenimenti narrati ne "Il Castello dell'Oblio", e i membri dell'Organizzazione hanno perduto gran parte dei loro poteri e sono ridotti a vagare per il loro mondo primitivo come vagabondi o ladruncoli qualunque. Auron e Mu invece si sono uniti alla Resistenza contro il Grande Satana, anche se Auron non e' ancora riuscito a dimenticare la breve storia d'amore vissuta con Zachar tre anni prima. Nella Galassia Mistobaan, ancora sotto l'influsso del condizionamento, e' diventato il fedele braccio destro dell'Imperatore. Ma il Grande Satana non intende rimanere a guardare, e tentera' con ogni mezzo in suo potere di riprendersi il suo servitore...
Genere: Avventura, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anime/Manga, Film, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 2 - Metà della vita


Old Vearn

Il Grande Satana Baan




Il sole era già sparito dietro le cime degli alberi, e i laghi della Foresta Nera si animavano dei suoi bagliori rossastri per l’ultima volta prima di inabissarsi nell’oscurità della notte. C’era un’insolita pace nell’aria estiva, come se tutte le creature della foresta avessero deciso di comune accordo di fermarsi e riposare. Una falce di luna si affacciava timidamente da dietro le montagne, seguita poco a poco dal suo manto di notte e di stelle.
Tante leggende si narravano su quel su quel luogo magico e antico: si diceva che fosse il rifugio di un misterioso principe immortale, che aveva versato così tante lacrime per la perdita del suo unico amore da dare vita con esse al grande fiume padre di quelle terre. Si diceva che gli alberi avessero vita propria e parlassero tra di loro, e c’era chi giurava di essersi perso nella foresta e di aver udito, portata dal vento, la voce del principe sussurrare “io sono in ogni foglia”. Si diceva che gli alberi fossero protetti da fatine minuscole ma potentissime, e che chiunque provasse ad abbatterli o anche solo a danneggiarli faceva una brutta fine.
In tempi più recenti si narrava poi anche un’altra storia, quella di un medico girovago dal carattere insopportabile che aveva eletto quel luogo solitario a sua perenne dimora. Era una storia sicuramente più prosaica delle altre e molto meno favolosa, ma anche l’unica vera. Il medico girovago in questione aveva utilizzato tante volte il legname della Foresta Nera per accendersi il fuoco, ma nessun Ent, driade o Oddish di sorta era mai venuto alla sua grotta a protestare.
“Però trovo che queste leggende abbiano il loro fascino, non è vero padron Vexen?”.
Camus sedeva a gambe incrociate sul suo giaciglio, sfogliando un antico librone di fiabe che aveva recuperato in uno dei mercatini dell’usato tipici di quella regione. Appoggiato contro le rocce all’ingresso della grotta, Vexen gli dava le spalle, così che Camus ne vedeva solamente la schiena illuminata dalle fiamme scoppiettanti del loro falò. Lo scienziato non si voltò nemmeno quando il suo assistente lo interpellò di persona, limitandosi a borbottare qualcosa di inintelligibile in risposta.
Il suo sguardo vagava tra le ombre della foresta senza fissarsi su nessun punto in particolare, e i suoi pensieri erano persi per vie ancora più tortuose e lontane. Camus dovette accorgersene, perché dopo qualche minuto di silenzio si azzardò a domandargli: “Qualcosa non va, padron Vexen? E’ così silenzioso stasera…”
“Sono stanco per il viaggio, tutto qui.”
Dal silenzio che seguì Vexen dedusse che Camus non era del tutto convinto dalla spiegazione. E aveva ragione: ma come spiegargli il turbinio di sensazioni dolorose che si agitava in quel momento dentro di lui? Non poteva capire: era giovane, ingenuo e condizionato. Soprattutto era giovane, beato lui. Chissà, forse un giorno la sua vita poteva ancora cambiare, gli si sarebbero spalancati davanti nuovi orizzonti, nuove possibilità. Vexen ricordava bene il giorno in cui lui aveva lasciato la casa natale, tanti, troppi anni prima: pieno di fiducia nel futuro, credeva di avere il mondo nelle proprie mani. All’epoca non aveva alcun dubbio: sarebbe diventato un grandissimo scienziato, avrebbe scolpito il suo nome per sempre a grandi lettere nella storia.
E in effetti era arrivato vicino, vicinissimo a quell’ambito traguardo. Ma un attimo di paura, di panico cieco e assoluto era bastato a rovinare tutto: aveva premuto il fatidico pulsante, il Castello dell’Oblio era esploso, e con lui tutti i suoi sogni e le sue speranze.
Che idiota…
“Per quanto andrà ancora avanti così?” gli sfuggì detto all’improvviso, con rabbia.
“Che cosa, padron Vexen?”
“Tutto questo” disse con disprezzo, allargando le braccia per indicare la grotta e tutto ciò che lo circondava. Continuava a dare le spalle a Camus. “A che serve, mi chiedo… se tanto devo morire in questo posto dimenticato dal mondo, senza aver….”
“Morire?!” lo interruppe Camus scandalizzato. “Padron Vexen, così mi fa paura! Perché pensa a una cosa del genere?”. Il giovane assistente era chiaramente spaventato, e anche Vexen si chiese cosa gli fosse preso, così all’improvviso, di mettersi a esprimere i suoi pensieri ad alta voce. O forse ciò che voleva era proprio spaventarlo. Infliggere anche a lui almeno una parte della propria sofferenza. Sì, doveva essere così.
“E a cos’altro dovrei pensare?” fece con rabbia. “Non c’è nient’altro davanti a me… niente di significativo, almeno”.
“Ma padron Vexen, come può dirlo, è ancora giovane e…”
“Non per i canoni di questo mondo.”
Già, il suo mondo. Un mondo primitivo, superstizioso, dove la gente temeva le innovazioni e i cambiamenti quasi più della peste e della carestia. Un mondo dominato dallo strapotere dei sacerdoti fino a quando non era arrivato il GSB, che forse era l'unica cosa ancora peggiore della loro religione ridicola e bigotta. Un mondo che aveva sempre odiato, perché era una maledetta prigione, per il corpo e per la mente. Eppure nel momento del bisogno era tornato a rinchiudervisi lui stesso, gettando via per sempre la chiave. Si sentiva un tale stupido.
Per i canoni del suo mondo una persona della sua età era oltre la metà della vita. E Vexen vedeva chiaramente il solco tra le due parti: alle sue spalle una primavera rigogliosa, alberi talmente carichi di frutti dorati da piegarsi quasi del tutto sotto il loro dolce peso; di fronte invece….
’Ma dove troverò fiori in inverno, dove i raggi del sole, e l’ombra della terra?’”. Vexen sussultò. Non si era accorto che Camus era venuto a sedersi accanto a lui.
“Che cosa…?”
“E’ il verso di un salmo.” disse il sacerdote con semplicità. “E’ di questo che ha paura?” chiese poi, con la solita dolcezza che accompagnava ogni suo gesto e parola. “Di invecchiare?”
“No.” rispose lo scienziato dopo un po’. “Ho paura di come invecchierò. Di questi giorni sempre uguali. In questo mondo non c’è nulla per uno scienziato come me… non sarò mai niente di più di un ridicolo medico girovago, e ormai è troppo tardi per cambiare le cose”.
“Si sbaglia. Perché sminuisce così quello che fa? Ha salvato un intero villaggio dalla peste, ogni giorno ridona speranza a qualcuno con le sue azioni… le pare poco? Dovrebbe essere fiero di se stesso”.
Probabilmente Vexen gli avrebbe riso in faccia, ma all’improvviso un rumore fortissimo di rami spezzati squarciò il buio della notte e li fece sobbalzare entrambi. Dal folto della foresta proveniva una cacofonia di voci rauche e profonde, quasi più simili a versi di bestie feroci che a vere e proprie voci umane.
“Una grotta nella Foresta Nera… capirai! E’ come dire un verme in una città umana!”
“Silenzio! Continuate a cercare! Abbiamo guardato quasi dappertutto, quei due non possono essere lontani”.
Le voci diventavano sempre più forti, e cominciava a sentirsi lo scalpiccio di molti passi pesanti in avvicinamento, impegnati a districarsi in maniera piuttosto violenta tra la folta vegetazione del sottobosco.
“Padron Vexen…” Camus era cereo.
“Spegni il fuoco.” gli ordinò Vexen in un sussurro, alzandosi in piedi. Tremando, Camus si affrettò a obbedirgli, ma era troppo tardi..
“Guardate laggiù! Eccoli, i vermi umani!”
Prima che la fiamma si estinguesse Vexen fece in tempo a vedere, in mezzo agli alberi, un braccio… no, una specie di zampa puntata inequivocabilmente contro di loro. Poi la foresta fu immersa nel buio, e i passi si fecero sempre più vicini, rapidi, concitati, pesanti: un esercito di ombre gigantesche si abbatteva su di loro.
Non c’era possibilità di fuggire, e Vexen reagì d’istinto, il corpo guidato dall’adrenalina e dal panico: poggiò una mano a terra, richiamando l’essenza del suo elemento, e in un lampo il ghiaccio si espanse sul terreno, verso i nemici misteriosi.
“Che diamin… ahi!”
Dalle ombre giunsero dei tonfi pesanti, seguiti da grugniti di dolore e imprecazioni. Vexen corrugò la fronte per lo sforzo di mantenere l’incantesimo su una superficie così vasta (il clima estivo non lo aiutava), facendo disperatamente appello ad ogni riserva di magia presente nel suo corpo. Rischiava grosso ad avvicinarsi così tanto al suo limite, ma se non l’avesse fatto… poi, improvvisamente, fu come se un peso sulle sue spalle si alleggerisse. La magia prese a scorrere con più forza, libera come un fiume in piena. Vexen guardò accanto a sé: anche Camus era in ginocchio, e aveva poggiato la mano a terra. Lo stava aiutando.
“Camus…” sussurrò lo scienziato. “… adesso!”
Con un urlo Vexen liberò in un istante tutta la magia che gli era rimasta, e grosse punte di ghiaccio emersero prepotentemente dal terreno, costellando di temibili trappole la radura di fronte alla caverna.
Gli urli e i grugniti aumentarono a dismisura, più disumani, più strazianti di prima; ombre di corpi grossi e deformi incespicavano sul ghiaccio, tentando invano di rialzarsi e precipitando rovinosamente al suolo. Iniziarono a sentirsi i primi gemiti di agonia.
“Basta così!”
Era stata una voce più profonda e autoritaria delle altre a parlare. Vexen colse lo scintillio di un’arma alla debole luce della luna, poi si udì il rumore di qualcosa che va in frantumi, e piccole schegge di ghiaccio volarono da tutte le parti, atterrando anche sul viso dei due scienziati.
Vexen chiamò di nuovo la magia per evocare le colonne che erano state distrutte, ma neanche l’aiuto di Camus bastò stavolta: ormai era esausto. Il suo respiro si fece pesante, la testa cominciava a girargli.
In quel momento la creatura misteriosa, a dispetto della sua mole immensa, saltò. Atterrò a pochi passi da loro, e a Vexen sembrò che la mano di un gigante avesse scosso la terra.
Era terribile a vedersi. Sembrava un coccodrillo su due gambe… ma era molto, molto più grande, imponente e massiccio. Brandiva un’ascia gigantesca e le sue fauci scintillavano alla luce della luna. Vexen sentì che anche le sue ultime forze venivano meno.
Poi il coccodrillo sollevò l’ascia, e tutto il mondo sprofondò nel buio.


Si risvegliò faccia a faccia con una superficie liscia, fredda e bianca. Un pavimento di marmo… il Castello dell’Oblio?! Evidentemente stava ancora sognando….
No, il dolore alla testa era troppo reale. Le tempie gli pulsavano dolorosamente, tanti colpi di martello che si abbattevano senza pietà sui suoi neuroni straziati. Cercò di alzarsi in piedi, ma tutto ciò che gli riuscì fu di mettersi in ginocchio, le mani poggiate a terra per non cadere di nuovo.
La scena che si presentò allora ai suoi occhi era più incredibile e assurda di tutte le leggende sulla Foresta Nera messe insieme.
Si trovava in quella che sembrava la sala del trono di un palazzo, ma il trono, posto proprio di fronte a lui su una piattaforma rialzata, era vuoto. La sala era arredata e decorata con grande semplicità; la si sarebbe definire persino spartana, ma ogni cosa, dalle colonne massicce che sostenevano la volta al trono stesso, di semplice mogano nero, emanava un’inquietante aura di autorità e potenza. Dalla lunga fila di finestre sulla parete di destra si scorgeva solo una distesa infinita di cielo e nuvole, così che era impossibile capire dove si trovassero.
Più che l’ambiente però, a mozzare il fiato a Vexen fu la vista delle persone che vi si trovavano. Camus era accanto a lui, seduto sul pavimento, e si guardava intorno confuso e spaventato. Quello in piedi dietro il trono, con in mano l’ascia gigante, non poteva che essere il coccodrillone che li aveva catturati; c’era da dire però che alla luce del giorno sembrava molto meno inquietante, soprattutto perché le sue scaglie si rivelarono essere di un insolito e quanto mai buffo colore rosa. Il suo corpo era protetto da un’armatura a piastre che gli conferiva l’aspetto di un grosso carro armato.
Alla sua sinistra, invece, c’erano diverse…. creature. Alcune di esse erano umanoidi, e avevano lunghe orecchie a punta e i volti di un pallore mortale. Li riconobbe all’istante, e un brivido gelido gli passò lungo la schiena: demoni. Altre creature avevano tratti animaleschi o mostruosi; tre di esse, dotate di lunghi e squamosi tentacoli, tenevano immobilizzati con essi tre malridotti prigionieri umani.
“Ciao, Vexy!”
“V-voi!” lo scienziato rischiò di cadere all’indietro per lo spavento.
Larxen si agitava nel chiaro tentativo di avvicinarsi a lui, ma la creatura tentacolosa la teneva ben stretta, bloccandole sia le braccia che le gambe. Era l’unica nota positiva di quella giornata iniziata male e che prometteva di finire ancora peggio.
Vexen non credeva ai suoi occhi. “Che c’è, pensavi di averci fatto fuori?” A dispetto della situazione il consueto buon umore di Larxen non era intaccato di una virgola. Accanto a lei Axel e Marluxia non sembravano però condividere il suo ottimismo, e si scambiavano di tanto in tanto sguardi preoccupati. Tutti e tre erano sporchi e avevano i vestiti strappati in più punti, e Axel sfoggiava un superbo livido violaceo sotto l’occhio sinistro.
“Credevi davvero di liberarti di me così facilmente?” il sorriso di Larxen era quasi tenero, e questo significava pericolo imminente. Siano lodate le creature tentacolose, pensò Vexen, ma era così sorpreso e sconvolto da non poter ancora spiccicare parola. Non sapeva di cosa dovesse avere più paura, se di quel luogo misterioso e dei suoi demoniaci abitanti oppure della Ninfa Selvaggia che da un momento all’altro poteva liberarsi e….
Solo dopo vari confusi balbettii riuscì finalmente a formulare una frase di senso compiuto. Una domanda, per l’esattezza.
“E Zexion?”
Larxen scoppiò a ridere. Una risata acuta e penetrante che si innalzò cristallina tra le volte della grande sala e fece voltare tutti nella sua direzione, mentre sui pallidi volti dei demoni si disegnavano smorfie di disapprovazione e disgusto. La creatura tentacolosa strinse ancora di più i polsi e le caviglie di Larxen, ma la risata della ragazza era incontenibile, un fiume in piena che non si arrestava mai. Alla fine aveva il fiatone, fu costretta a fermarsi per respirare; boccheggiava, con le lacrime agli occhi.
Trafisse Vexen con uno sguardo crudele e finalmente rispose, lapidaria:
“E’ morto. Esploso con il Castello!”.
Vexen chinò il capo, e non disse nulla. Larxen riprese a ridere.
“SILENZIO!”
Il grido del coccodrillone fece sobbalzare tutti i prigionieri umani, stroncando persino la risata della Ninfa Selvaggia.
Ora da dietro il trono proveniva un brusio di voci e di passi, attutito dai pesanti tendaggi che separavano la grande sala da un altro ambiente che si trovava evidentemente al di là.
“In ginocchio, umani!” tuonò di nuovo il coccodrillo. “State per ricevere l’immeritato onore di trovarvi alla presenza del signore della famiglia demoniaca e di questo intero mondo, il Grande Satana Baan!”
Camus era riuscito a rimettersi in piedi, ma fu subito circondato da demoni armati di lance che lo obbligarono a inginocchiarsi; anche Axel, Larxen e Marluxia non ebbero scelta, forzati dai tentacoli che li imprigionavano. Vexen non si era mosso.
Come un sol uomo anche tutti i membri della famiglia demoniaca piegarono il ginocchio, rivolti verso il trono in rispettosa attesa.
“Siamo nella merda.” bisbigliò Axel, ma non abbastanza piano da non farsi udire dal suo carceriere e da non beccarsi un violento colpo di tentacolo in piena faccia. Il suo urlo di dolore venne soffocato da quello stesso tentacolo, che si avvolse attorno alla sua bocca stringendo senza pietà.
Ora solo i suoi gemiti soffocati disturbavano l’assoluto silenzio della grande sala; persino i brusii dietro il trono erano cessati.
E infine la tenda si sollevò.
Vexen aveva gli occhi fissi sul pavimento, e dapprima sentì soltanto un confuso rumore di passi, passi di parecchie persone. Voci di demoni che salutavano con rispetto, fruscii di vesti o mantelli – tutti suoni che gli parevano distorti e lontani, come se lui si trovasse all’interno di una bolla d’acqua. Non era sicuro di voler alzare la testa, oltrepassare la bolla e vedere cosa stava succedendo… non credeva di averne la forza.
“E così voi siete quelli che hanno condizionato Mistobaan.”
Una voce autoritaria, vibrante di sdegno. Una voce… no, non anziana… antica era la definizione più corretta. Antica, ma carica di una tale forza che Vexen fu strappato via dai suoi cupi pensieri, mentre i suoi occhi, come catturati da una calamita, si sollevarono per vedere chi aveva parlato.
Il volto che si ritrovò di fronte era lo specchio perfetto di quella voce. Antico e impassibile, come scolpito nel marmo bianco, con due intensi occhi scuri che lo trafissero da parte a parte colmi di tutto il disprezzo del mondo. Un disprezzo che, Vexen in qualche modo lo percepiva, andava ben oltre i limiti dell’umano; un sentimento che loro piccoli mortali non potevano neanche azzardarsi a capire, perché esisteva da molto prima di loro. Doveva essere quella l’“ira degli dèi” di cui a volte parlava Camus…
L’anziano demone lo scrutava dall’alto in basso, seduto sul trono; era furente, ma non sembrava aver fretta di incalzare la sua preda umana, limitandosi per il momento a studiarla con attenzione, come se avesse avuto tutto il tempo del mondo; e probabilmente lo aveva davvero. Indossava un’ampia veste sontuosa e il suo volto era incorniciato da lunghi capelli grigi e da una corta barba. Ogni cosa in lui, dal portamento fiero allo sguardo implacabile, emanava un’incredibile aura di regalità.
“Tre anni fa il generale Mistobaan si è infiltrato per mio ordine nel vostro Castello dell’Oblio, e non è più ritornato.” disse infine il Grande Satana Baan, rivolto a Vexen e Camus. Lo scienziato ebbe la sgradevolissima sensazione che tutti gli occhi nella grande sala fossero puntati su di lui.
“Ora i vostri complici” e il GSB accennò col capo in direzione di Axel e gli altri “mi hanno detto che voi membri dell’Organizzazione avete… modificato la memoria di Mistobaan. In uno scatto di ammirevole lealtà e spirito di sacrificio verso i loro compagni, questi tre hanno indicato te come unico responsabile.” lo sguardo del Grande Satana Baan, ora carico di sprezzante ironia, si spostò di nuovo su Vexen. “Hanno detto che sei l’unico che sa fare una cosa del genere, e sono stati così gentili da indicarmi dove trovarti. Cos’hai da dire a riguardo? Cosa avete fatto a Mistobaan?”
Si vedeva lontano un miglio che la collera del signore dei demoni stava per esplodere. E che cosa avrebbe dovuto rispondere lui? Che era stata la famiglia demoniaca a iniziare, mandando Mistobaan a ficcare il naso nel loro Castello? Che cosa avrebbero dovuto fare, farsi ammazzare da quell’essere abominevole invece che cercare di combatterlo con le armi a loro disposizione? Chiaramente non era la risposta giusta… ma esiste una risposta giusta quando l’ira di un demone millenario incavolato col genere umano incombe su di te?!
“Noi…noi ci siamo solo difesi…” tentò infine Camus, con una vocina ancora più flebile del solito. Al demone bastò sollevare mezzo sopracciglio per ridurlo al silenzio. Continuava a guardare Vexen come un predatore in attesa.
Chissà perché ma mentire gli sembrava una soluzione tremendamente sbagliata.
Era con le spalle al muro…e quindi disse la verità. Tremando e balbettando, schiacciato dallo sguardo inquisitore del demone, Vexen disse la verità.
Cos’altro avrebbe potuto fare? Anche se avesse tralasciato delle parti, quei bastardi di Marluxia e gli altri volevano vederlo morto, e avrebbero testimoniato contro di lui.
“Così mi stai dicendo…” la calma velata di minaccia nella voce del GSB era terribilmente inquietante. Per tutta la durata del racconto di Vexen non aveva battuto ciglio, ma nei suoi occhi ardeva uno sdegno senza confini. “…mi stai dicendo che Mistobaan ora o è saltato in aria a causa di un non so che strano esplosivo impiantato nel suo corpo, oppure è vivo al servizio del sovrano di un altro mondo a cui è fermamente convinto di aver giurato fedeltà?”
“S-sì…”
“Il tuo racconto coincide con quello dei tuoi compagni. Ma vedi, scienziato, c’è una cosa che non mi convince affatto in tutto questo. Posso arrivare a comprendere la storia degli esplosivi, un simpatico trucchetto degno di voi umani. Ma il condizionamento… perché non obbligare Mistobaan a servire voi? Questo è molto strano, e nessuno dei tuoi amici mi ha saputo dare una risposta soddisfacente.”
La risposta di Vexen fu poco più che un sussurro, ma nel silenzio che avvolgeva la sala tutti la udirono come se fosse stata gridata attraverso un megafono.
“Era… era un esperimento…”
Una nube troppo nera e minacciosa non può resistere in eterno: prima o poi esplode, riversa sul mondo tutta la terribile furia del suo temporale. Il GSB si alzò dal trono. Divorò in due falcate lo spazio che lo separava da Vexen, e lo scienziato si ritrovò a strisciare sul pavimento in preda al terrore nel tentativo di sottrarsi alla sua furia. L’aura magica del GSB era così spaventosamente potente che persino un mago da tre soldi come lui poteva percepirla: era come una mano artigliata che gli serrava la gola, lo schiacciava a terra lasciandolo senza fiato.
“UN ESPERIMENTO?! Voi avete costretto Mistobaan a rinnegare tutti i suoi principi più sacri…PER UN ESPERIMENTO?! Non vi siete limitati a difendervi… lo avete USATO! Per voi non era altro che un gioco, un passatempo! Oh, chissà quanto ve ne sarete compiaciuti! Miserabili, sudici, sporchi vermi UMANI!!”
Vexen era arrivato a rannicchiarsi contro il muro, assolutamente impietrito dal terrore. Il Grande Satana torreggiava su di lui, la personificazione vivente dell’ira divina.
“Dimmi, scienziato, sei soddisfatto della tua opera? Ne vai fiero? Immagino per te sia motivo d’orgoglio. Voi umani siete sempre felici quando riuscite a distruggere qualcosa.”
Vexen non lo ascoltava nemmeno. Sperava solo che tutto finisse presto, e che il GSB non fosse un maniaco delle torture come Larxen. Un colpo secco, e non si sarebbe nemmeno più dovuto preoccupare di invecchiare….
Ma il colpo non arrivò mai. Senza neanche aspettarsi una risposta il demone anziano gli voltò bruscamente le spalle e tornò al centro della sala. Forse lo considerava così infimo da non valere nemmeno lo sforzo di eliminarlo di persona… purché facessero in fretta, dannazione!
I demoni però sembravano avere una concezione del tempo tutta loro. Vexen notò che dall’inizio dell’interrogatorio erano rimasti tutti immobili, una selva di statue identiche, con il ginocchio piegato e il capo chino di fronte al loro sovrano. Nessuno aveva parlato o anche solo causato il minimo rumore. Ed era passato… quanto? Non poco, sicuramente…. Notò anche che nel frattempo Camus era stato catturato da una creatura tentacolosa, da cui cercava invano di liberarsi.
Fu proprio a lui che ora si rivolse il Grande Satana. “Tu sei un sacerdote delle Dodici Case.”
“Prima di ogni altra cosa sono il leale servitore di padron Vexen.”
“Lealtà.” la voce del sovrano vibrava di disprezzo. “In bocca a voi umani questa parola è un insulto. L’armatura che indossi parla per te, sacerdote. E questo significa una sola cosa: avete infranto il patto.”
“Patto?! Quale patto?”
“Vedo che la vostra memoria è ancora più corta della vostra misera vita. Avevate giurato di cessare per sempre la vostra predicazione. Di non uscire più dai confini del Tempio. Ed eccola, eccola qui la vostra ‘lealtà’!”
“Ma… ma non è vero! Noi non….”
“Non è vero?! NON E’ VERO?!?”. Camus tacque immediatamente, terrorizzato. “Che ingenuo sono stato a credere di poter trattare con creature per cui i patti non sono altro che pezzi di carta! Ecco cosa succede quando uno prova a esser generoso con voi: siete cani rognosi che mordono la mano che li nutre, salvo poi venire a uggiolare con la coda le zampe e le orecchie basse non appena vedete l’ombra del bastone! Ebbene, ora il bastone calerà: farò radere al suolo il vostro Tempio fino all’ultima pietra, così imparerete cosa significa sfidare la famiglia demoniaca!”
“NO! Grande Satana, non può farlo! La prego, non…”
“SILENZIO!”. Camus fece la stessa fine di Axel, le sue urla soffocate dall’ennesimo spietato tentacolo. Vexen vide il suo assistente dibattersi disperatamente, piangendo e contorcendosi fino a farsi male, ma non poteva nulla contro la forza sovrumana di quella creatura nata dalla magia.
“Generale Hyunkel!”
Da dietro il trono si udì un rumore di passi metallici, e un giovane in armatura completa si presentò sull’attenti al cospetto del Grande Satana.
“Levami dalla vista questi parassiti. Portali in prigione e organizza delle esecuzioni pubbliche: serviranno d’esempio per i traditori come loro”
“Ma… Grande Satana!” protestò Marluxia, che fino ad allora era rimasto in silenzio “Le abbiamo detto tutto, le abbiamo rivelato il nascondiglio di Vexen!”
“Mmmm, mmm! MMM!” dalla sua scomoda posizione anche Axel cercava di sostenere le argomentazioni del compagno come meglio poteva.
“Abbiamo collaborato! Abbiamo fatto tutto quello che…”
“Non ho alcun rispetto per chi vende i propri compagni per salvarsi la pelle.” disse il GSB con durezza. Intanto nella sala avevano fatto il loro ingresso dei guerrieri non-morti: veri e propri scheletri animati che indossavano pezzi di armatura e portavano spade, elmi e lance. Ad un cenno del generale Hyunkel le creature tentacolose lasciarono andare i prigionieri e gli scheletri li presero in consegna, spingendoli senza troppe cerimonie verso l’uscita. Due di loro sollevarono Vexen per le braccia, e lui si lasciò trascinare senza opporre resistenza.
“Generale Hyunkel, un’ultima cosa. Lo scienziato per il momento potrebbe servirci vivo: fino a nuovo ordine voglio che sia tenuto in prigione e trattato in modo dignitoso. Gli altri invece….”
“Grande Satana, la prego, aspetti un momento!”.
In un primo momento Vexen non riuscì a capire da dove arrivava quella vocetta stridula; anche gli scheletri che lo portavano si fermarono un momento, passando in rassegna l’ambiente con le loro orbite vuote e scure dentro cui brillava il fuoco azzurro della magia.
“Avrei una richiesta da sottoporle”. La voce proveniva dal pavimento. Vexen guardò in basso, e vide la creatura più piccola e strana su cui gli fosse mai capitato di posare gli occhi. Sembrava un improbabile incrocio tra un demone e uno gnomo….
“Cosa c’è Zaboera?”
“Grande Satana, questi umani potrebbero essere delle ottime cavie per i miei progetti sui corpi biologici stregoneschi. Se potessi usarne anche solo uno….”
“Ti servono veramente? Tanto varrebbe usare delle zecche o dei parassiti a questo punto..”
“Mio signore, i maghi elementali sono rarissimi… forse questa è un’occasione unica. La supplico, Grande Satana. E’ molto importante per la mia ricerca”.
“E va bene.” disse il GSB dopo una breve pausa. “Ti concedo di sceglierne due che non siano lo scienziato.”
Il piccolo demone si profuse in mille inchini e ringraziamenti, poi passò a domandare ai membri dell’Organizzazione quale fosse il loro elemento. Alla parola “fiori” rischiò quasi di cappottarsi su se stesso per un attacco improvviso di risate (contagiando anche il coccodrillo rosa e il generale Hyunkel; il GSB alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla), e alla fine, tra un singhiozzo e l’altro, dichiarò che avrebbe preso Axel e Larxen. Gli scheletri condussero le due cavie al laboratorio dell’Arcivescovo Stregone, mentre Camus, Vexen e Marluxia venivano scortati verso le prigioni da Hyunkel in persona. Vexen si ritrovò a passare accanto al giovane generale, e guardandolo di sfuggita notò un particolare che lo fece restare a bocca aperta: le sue orecchie non erano lunghe e appuntite come quelle dei demoni. Erano normali, comunissime orecchie umane.
Hyunkel dovette accorgersi che lo scienziato lo stava fissando, perché gli diede una spinta che per poco non lo fece cadere a faccia in avanti.
“Cammina!”
“Perché?” anche Camus se n’era accorto, e i suoi grandi occhi azzurri erano sgranati per lo stupore. “Perché fai questo?”
Hyunkel si limitò a fissarli con uno sguardo severo e assolutamente privo di qualsiasi pietà:
“Perché io non sono come voi”.
Cosa questo significasse i tre prigionieri non lo seppero mai, perché proprio in quel momento la porta della cella si chiuse alle loro spalle con un pesante clangore metallico.


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Nota: i versi citati da Camus appartengono a una poesia di Friedrich Hölderlin che da' anche il titolo a questo capitolo :)
  
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