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Autore: Najara    11/06/2012    4 recensioni
Due archeologi e una pergamena, un ritrovamento che apre le porte ad emozioni e sentimenti che non si sono persi nel tempo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Frammenti di storia

 

 

“Fai attenzione, fai attenzione…” L’uomo teneva gli occhi puntati sul piccolo frammento che la donna stava estraendo dal muro. Trattennero entrambi il respiro mentre con delicatezza la dottoressa Donini posava l’involto in un recipiente.

“Cosa credi che sia?”

“Non lo so, potrebbe non essere nulla…” La dottoressa sorrise al collega, malgrado le parole prudenti i suoi occhi scintillavano.

 

***

 

“Allora?” La dottoressa Donini sorrise al collega mentre posava la pinzetta che le aveva permesso di distendere la delicata pergamena.

“Abbiamo il testo completo, ti aspettavo per leggere, la grafia è femminile ed è stato usato il volgare. Curioso non trovi?” L’uomo annuì poi tutti e due si immersero nella lettura.

 

 

18 ottobre 1439

 

Credo abbia avuto pietà di me, ha solo dodici anni, è giovane, il suo cuore non è ancora stato indurito dalle privazioni e dalla sofferenza che questa vita le riserverà. Guardandola mentre con gli occhi bassi mi porgeva la pergamena e l’inchiostro che le avevo domandato, non avevo potuto fare a meno di chiedermi se la sua storia fosse simile alla mia. Ma come potrebbe essere diversa? Suo padre l’avrà portata al convento per lasciarvela per sempre? Avrà potuto dire addio alle sue sorelle? A sua madre? Io non ho potuto.

Non ha importanza, nulla ne ha più ormai, su questa pergamena non voglio raccontare i rimpianti o ciò che non mi è stato concesso, voglio dire ciò che mi è stato donato.

Domani la mia vita finirà, non so se Dio mi accoglierà tra le su braccia o se sarà, come sembra essere sicura la Madre Superiore, Satana ad artigliarmi per trascinarmi all’Inferno, però ho una certezza, l’unica cosa che ho fatto è stato amare. E, Dio mi perdoni, lo farei ancora.

 

Per tutto il secolo precedente la peste aveva flagellato le nostre terre, ma erano ormai alcuni decenni che non appariva. Speravamo che l’ira di Dio si fosse placata, che le preghiere, le processioni, le donazioni alla chiesa avessero finalmente posto fine a quel flagello, ma ci sbagliavamo.

Ricordo quando ci giunse la notizia: eravamo nel refettorio, il silenzio, rotto solo dal leggero raschiare dei cucchiai di legno nelle ciotole, era stato infranto dal suono della campanella. La Portinaia si era alzata e quando era tornata aveva con sé un messaggio. Era vietato alzare lo sguardo, ma ricordo che sbirciai l’espressione della Madre Superiore, nulla passò su quel volto, nessuna emozione poteva intaccare quel cuore divenuto da tempo di pietra.

E così lasciammo il convento che sbarrò le porte dietro di noi, loro avrebbero rispettato l’isolamento, mentre noi avremmo portato ai malati la carità cristiana, come voleva il nostro ordine, e come chiedeva il Vescovo, mittente del messaggio. Eravamo un gruppo di venti suore, non so perché fui scelta, forse era l’ennesima punizione, eppure il mio cuore gioiva all’idea di tornare nel mondo. Accolsi quella piccola gioia con colpa, la peste colpiva la nostra città, molti sarebbero morti, nostro compito era dare sostegno e aiutare dove possibile. Nessuno voleva farlo, la paura del contagio prevedeva l’isolamento più totale, ma noi eravamo protette da Dio.

Mi accorsi di quanto fosse debole quella protezione quando vidi morire le mie compagne, una dopo l’altra. Ben presto rimanemmo solo in sette. Malgrado ciò non mi venne mai in mente, e nessuna delle altre lo propose, di ritornare al convento, al sicuro tra le mura che ci avevano nascosto per tutti quegli anni. Forse tutte noi sapevamo, intimamente, che eravamo già morte, molto tempo prima, il giorno in cui avevamo attraversato il grande portone di quercia del convento.

 

Perdonatemi, sono stanca e la luce è sempre più fioca, non dovrei indugiare, il mio unico desiderio è parlarvi di lei, lei sola occupa ogni mio pensiero, eppure la mia mano mi tradisce, trema al pensiero di vergare in chiare lettere quello che a lungo ho nascosto anche a me stessa. Ma è per questo che ho chiesto la pergamena.

La vidi per la prima volta vicino ad un pozzo, gli abiti eleganti la ponevano in alto nella gerarchia sociale della città, eppure era lì. Forse non potete immaginare quanto questo mi stupì, ma dovete sapere che la città era stata abbandonata, non c’erano più nobili o signori, persino i borghesi avevano superato le mura prima che la città venisse chiusa. Avevano case di campagne pronte ad ospitarli e tenerli al sicuro dalla malattia. Eppure lei era lì e quello che faceva la rese ai miei occhi ancora più strana: stava lavando un bambino.

È così che la ricordo meglio, l’elegante abito blu scuro a cui aveva rimboccato le maniche, l’orlo che ormai era inzuppato, tra le mani uno straccio che lei stava strofinando vigorosamente su un fanciullo di strada.

Lo stupore mi aveva immobilizzato, ero sola, per visitare i malati ci dividevamo ogni mattina eravamo così poche ormai, e lei mi vide.

Non riesco più a vedere nella mia mente, il volto di mia madre o quello delle mie sorelle, così come non riesco più a ricordare i visi delle decine di persone che trovai morte nelle loro case, nei loro letti, i volti stravolti dal dolore, i corpi ricoperti dalle piaghe della peste, eppure ricordo con estrema chiarezza i suoi occhi: verdi. Un verde meraviglioso. Li fissò nei miei e sorrise, mentre si passava il braccio sulla fronte nell’inutile tentativo di allontanare dagli occhi i suoi scuri riccioli ribelli.

Non so chi ispirò il mio cuore, se Dio o il Diavolo, ma so che fece un balzo.

Fuggii, ma il giorno seguente i miei passi mi riportarono di nuovo lì e provai un brivido nell’accorgermi che lei c’era.

Non so quanto tempo ci misi per parlarle, scoprii che donava una moneta ad ogni bambino che accettava di sottoporsi ad un bagno. La Madre Superiora dice che fu la stessa curiosità che spinse Eva ad assaggiare la mela quella che fece sì che io fossi spinta a conoscerla, so che è una menzogna, la mia non era curiosità, era desiderio, lo voleva il mio cuore, non la mia testa.

Dopo quelle prime parole parlai con lei molte altre volte, scoprii chi fosse, come avesse deciso di ribellarsi al padre e all’idea di partire per rimanere in città ed aiutare i malati. Era convinta che lavarsi avrebbe tenuto lontano la peste, aveva letto molti saggi e ne aveva tratto quella particolare nozione, così attirava i bambini con la promessa di una moneta e, loro malgrado, li proteggeva dalla peste, o almeno così lei credeva. Ogni sua parola, ogni suo sorriso, ogni suo gesto la rendeva per me più amabile. Era colta, intelligente, eppure sapeva ridere, qualcosa che non avevo più sentito fare al convento e in quella città colpita da quotidiani lutti.

Mi vergogno di dire che iniziai a trascurare i malati pur di aiutare lei nei bagni quotidiani che offriva ai bambini della città. Ora so che si sbagliava, ma allora le credetti, avrei creduto ad ogni sua parola, le credetti anche quando mi disse che l’amore che provavamo non poteva essere un peccato.

 

Mi trema la mano, so che queste parole andranno perdute o saranno bruciate, so che nessuno vi poserà mai gli occhi, eppure la semplice idea che qualcuno possa leggerle mi getta nel terrore, è il mio cuore che metto a nudo. L’ho amata, sì, vorrei che questa pergamena fosse più lunga e che l’inchiostro fosse di più, perché ora che l’ho scritto vorrei poterlo fare ancora e ancora.

 

L’amai, le donai il mio cuore e il mio corpo.

Furono i giorni più belli della mia vita, finalmente respiravo, finalmente ero viva, come non ero mai stata prima. Vedevo la morte ogni giorno, eppure malgrado provassi un forte senso di colpa, acuito quando non ero con lei, io ero felice. Insieme leggevamo i trattati che tanto amava, ma non solo, mi lesse poesie d’amore, mi mostrò un mondo di parole, grazie alla sua voce delicata scoprii per la prima volte che le parole potevano essere usate per esprimere sentimenti meravigliosi e non solo preghiere e sermoni.

 

La luce ormai se ne è andata, avrei voluto dirvi di più, di come la peste uccise quasi la metà della popolazione della città, di come fummo scoperte da una mia consorella, incuriosita dalle mie lunghe assenze. Ma soprattutto avrei voluto dirvi di come la peste si è portata via lei e di come io, già rinchiusa in questa minuscola cella, non abbia potuto salutarla, baciarla un’ultima volta.

Domani mattina sarò giustiziata per crimini contro Dio e la natura, non ha importanza, domani sarò con lei.

 

 

I due archeologi rimasero in silenzio a lungo, poi la donna sorrise.

“È meraviglioso. È per questo che ho scelto questo lavoro, per secoli queste parole sono rimaste nascoste, poi oggi nel 2012 a causa di uno scavo, si ritrova un muro del quattrocento, uno studente nota qualcosa di strano, ci chiamano ed ecco: la storia ci restituisce intatte, come se non fossero mai morte, emozioni così intense e uniche.” L’uomo annuì, sul volto della collega scorreva una lacrima.

 

 

 

Note

 

Questa piccola storia è stata scritta per il contest “A spasso nel tempo” indetto da Talismaa

in cui ha ottenuto il sesto posto. Ho voluto condividerla con voi, perché a me piace un sacco!

Spero vogliate commentarla e dirmi cosa ne pensate…

Grazie.

 

Revisionata nel novembre 2016

  
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