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Autore: Fuckin wrong    14/06/2012    1 recensioni
"Faceva freddo, ma andava bene così. Per la prima volta non era da sola a tre chilometri da casa."
 
 
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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"Cercava di avanzare sul filo sottile ma rimaneva sempre allo stesso punto.
E' il pezzo forte del funambolo: la camminata ad occhi bendati.
Lei camminava e non vedeva nulla, nemmeno i propri passi. Si sentiva così sola su quel filo.
Attendeva solo che qualcuno la prendesse in braccio e le dicesse: -Adesso basta camminare, adesso ti porto io-."


Marie, seduta a gambe incrociate sulla poltrona rossa dietro la scrivania, cestinava distrattamente le mail inutili, mentre arrotolava annoiata i vermicelli di soia sulle bacchette di plastica. Porse le bacchette alla bocca. Fece una smorfia e deglutì senza masticare, prese la scatola rettangolare e bianca con ideogrammi in rosso sui quattro lati, ci infilò le bacchette gialle e la gettò energicamente nella spazzatura “Cartone”. Poi ci ripensò. L’ultima volta che aveva buttato del cibo nel cestino sotto la scrivania se ne era dimenticata. Risultato, il giorno dopo Kathrine lo aveva trovato pieno di formiche e non era più entrata in biblioteca per due settimane.
Le caddero gli occhiali sulla punta del naso. Li tolse, con l’intenzione di stringere le viti dopo, e scese dalla sedia. Marie prese il cestino con le gambe ancora indolenzite dalle ore passate seduta in quella scomoda posizione.
Si trascinò di malavoglia fuori dal tepore del locale, nel buio umido di novembre. Il temporale aveva lasciato il posto ad un’inutile pioggerella sottile, impercettibile. Girò l’angolo ed entrò nel vicolo buio alla destra del palazzo, raggiunse il cassonetto verde, lo aprì, e ci svuotò il contenuto del cestino. Uscendo dalla via, vide una sagoma indistinta camminare sull’asfalto bagnato della strada principale.
Il corpo si muoveva lentamente, mentre Marie, anche a distanza, sentiva lo scorrere veloce di pensieri sconosciuti. Trovò se stessa in mezzo alla via a chiedersi cosa stesse pensando quell’ombra in quell’istante.
Poi la fissò, riducendo gli occhi a due fessure, in mancanza degli occhiali. Sembrava bionda, alta, stanca.
-Anne?- sussurrò Marie alla nebbia, la voce tremante accompagnata da una nuvoletta di vapore. Le braccia le caddero lungo i fianchi, con il cestino della spazzatura ancora stretto nella sinistra. -Anne?- avanzò, inizialmente insicura, poi senza nessun timore. Avanzava a passi piccoli e decisi nella nebbia di novembre, chiamando il nome di sua sorella. Era morta di leucemia il diciotto agosto di due anni prima. Marie aveva ricordi confusi di quel giorno, come se non fosse stata veramente lì. Non aveva pianto quel diciotto agosto, e non lo aveva fatto per i tre mesi successivi. Era rimasta impassibile, fredda. Passava le giornate sul letto, a guardare il soffitto, dello stesso colore insignificante che sembrava avere il suo cuore. Non aveva pianto, e non aveva più sorriso davvero.
La verità è una: ci sono dolori che non si distinguono. Ci sono dolori che non portano lacrime, ma silenzio. La mancanza di reazioni esterne è la cosa peggiore: ti trascinerai quel dolore nel tempo come un macigno che porterai a vita. Cancellare il senso di colpa per non essere stata lì a morire al fianco di una persona che amavi è pressoché impossibile. Anne era stata portata via dalla leucemia, a quindici anni. Marie questo non poteva accettare: aveva tre anni in più di lei, e stava vivendo la vita che le aveva rubato.
La sagoma si avvicinava agli occhi miopi di Marie. Era scalza, stringeva nella stessa mano una borsa nera in simil-camoscio, completamente bagnata e un sacchetto bianco, quasi trasparente, con il simbolo verde della farmacia. Aveva l'aspetto di chi, dopo anni nella sala d'attesa del purgatorio, ha bussato al paradiso senza poterci entrare; ed è tornato deluso all'inferno. Anne sembrava non sentire la voce della sorella che urlava il suo nome; come ci fosse un oceano fra le due anime. Marie la raggiunse e la strattonò per la manica del cappotto bagnato. Quando quella si girò, Marie incontrò due occhi azzurri, gonfi, stanchi. –Ci conosciamo?- sussurrò incerta una voce stupita, quasi inquietante. Aveva gli stessi occhi spossati di Anne, vitrei, abbattuti. Erano solo del colore sbagliato: Marie si accorse di aver avuto un’allucinazione. Uno strato di ghiaccio l’avvolse: divenne pallida, occhi spenti. –Anne?- esalò con quel poco di voce che la realtà non aveva ancora tolto alla delusione. –S-sono Valerie.- Marie mimò uno “scusa” con le labbra, non riuscendo ad emettere alcun suono. Lasciò il braccio della sconosciuta e corse verso la biblioteca con gli occhi pieni di sale e l’amaro in bocca: l’amaro che ti che resta quando un’illusione si trasforma in un’inevitabile delusione.

Alto, pelle olivastra, aveva una vecchia tracolla verde sulla spalla sinistra, mentre con la mano destra, dita lunghe e perfette, spingeva la porta di vetro della biblioteca. Qualcosa cadde. Era un cartoncino con una scritta corsiva, perfetta, “Biblioteca”. La B, formata da due ovali perfettamente incrociati, inseguiva una i, il cui ricciolo finale si arrotolava attorno alla linea verticale della b. Tutte le lettere di seguito formavano un’armonia tanto perfetta quanto strana. Zayn fu sollevato nel notare che la stanza era vuota, e che nessuno aveva notato un ragazzo sul ciglio della porta che fissava interessato un pezzo di cartone.
Si diresse verso il tavolo di legno, dove appoggiò la borsa verde da cui estrasse un portatile. Stava cercando Freud nello scaffale denominato “psicoanalisi” dalla stessa grafia del cartellino di prima, quando qualcuno entrò in biblioteca sbattendo la porta.
 
 

♦♦♦



In una situazione normale, Kathrine si sarebbe sentita inevitabilmente a disagio. Ma quegli occhi trasparenti non la fissavano interrogativi. Non erano carichi di silenziose domande come gli occhi di chiunque, passando per strada, vede il tuo viso imperlato di amarezza liquida. Erano piuttosto gli occhi di qualcuno che calpestava tremando lo stesso filo di lana su cui stanno le cose fragili. Kath cercava nella profondità di quelle fessure risposte che non hanno domande.

Il funambulo non ha una risposta al problema dell’equilibrio,
sa solo come trasformare la forza che lo fa cadere nella spinta che lo salva.
- Cose che nessuno sa; Alessandro D’Avenia.

La guardò con gli occhi di chi si guarda dentro. Aveva la bellezza travolgente di tutto ciò che è fragile. Le porse istintivamente una mano sottintendendo un sorriso che forse non era più in grado di fare. Lei vi si attaccò, come se egli possedesse fra le dita tutta la forza che mancava al mondo.
Kath si alzò, prese l’ombrello e notò che il contenuto della borsa giaceva sparso sull’asfalto. Si chinò per raccogliere almeno chiavi e portafoglio, ma lui stava già rimettendo tutto nella borsa di finta pelle marrone, sciupata dal tempo e dalla monotonia dei viaggi di cui era stata compagna. Lei chiuse la portiera e prese la borsa che le stava porgendo. Non aveva smesso di guardarlo. Era poco più alto di lei, e gli occhi stavano sullo stesso piano dei suoi. “Grazie mille” Avrebbe voluto dire, ma dalle sue labbra secche e bagnate uscì un –Grze lle- pronunciato da una voce innaturalmente roca: era stata in silenzio troppo a lungo.
Lui non se ne accorse. –Nlla.- Era come la terza lingua del bilingue. Se due soggetti parlano dalla nascita due stesse lingue come fossero quella materna, nella fase di mescolanza non si renderanno nemmeno conto di parlare i due idiomi mescolati: semplicemente si capiranno. Kathrine e Niall avevano mescolato la lingua della gente comune a quella della malinconia, e non se ne erano nemmeno resi conto.
Non parlarono più, perché le parole sono i nodi che stringiamo quando stiamo intrecciando il filo di un legame e questo si spezza in imbarazzanti silenzi. Loro non ne avevano bisogno: non c’era nulla di imbarazzante in quel silenzio.
-Ono..-  tossì –Sono Niall.-
-Kathrine.-
Non si strinsero la mano, come è usanza fare fra gli esseri umani. Strinsero piuttosto i loro corpi: si abbracciarono come per cercare il proprio battito nel cuore dell’altro, si abbracciarono inspirando l’uno l’odore dell’altra e lasciandosi andare. Lui pianse. Piangeva disperatamente stringendo una sconosciuta che parlava la sua stessa terza lingua. Si abbracciavano perché la forza di uno era nascosta da qualche parte, nel cuore dell’altra. Erano lacrime di gioia miste a lacrime di dolore: come quando ritrovi un amico che ti ha ferito, come quando scopri la cosa più bella dell’universo e piangi gioia e piangi dolore, insieme.                                                          

Chissà se la loro composizione è la stessa.
Quello che è certo è che provengono entrambe dal cuore del cuore.
Il cuore non è altro che una fila di stanze, sempre più piccole.
Sono in tutto sette stanze. Il cuore del cuore è la settima, la più difficile da raggiungere,
ma la più luminosa perché le pareti sono di cristallo.
Gioia e dolore vengono da quella stanza e sono la chiave per entrarci:
gioia e dolore piangono le stesse lacrime, sono la madreperla della vita.
-Cose che nessuno sa; Alessandro D’Avenia.

Era una situazione surreale. Erano due corpi uniti in uno solo, tremante, insicuro. Erano due anime che si abbracciavano sotto la pioggia umida di fine temporale.
Le persone trovano la forza di rialzarsi negli amici, nei genitori, nei fratelli. In assenza di qualcosa di simile, le persone trovano la forza in se stessi. Non sono molti quelli disposti ad offrire la propria forza e a prendere quella dell’altro se questo è qualcuno che non avevano mai visto prima.
Sciolsero l’abbraccio e sorrisero del sorriso più onesto che potessero trovare. Sorrisero come entrambi non facevano da tempo.
 



Ok, dovrei fare un capitolo di sole scuse per averci messo un mese per scrivere sta roba -causa blocchi, mancanza di idee, Venere in Saturno, Giove in Plutone e il mio bradipo gialloblù che mi ha mangiato il pc.-
Dovrei rinominare la storia "Citiamo/copiamo luridamente D'Avenia perchè lui è figo e io sono una merda", ma non lo farò.(?)
Si sarà capito che non è una FF vera e propria, i personaggi hanno solo i nomi e le caratteristiche fisiche dei ragazzi, per il resto potrebbero chiamarsi Giovannino Luchino Giuseppe Astolfo Idelfonso che poco cambierebbe.(?)
Onestamente pensavo che questo capitolo fosse più lungo invece non lo è, LOL.
Sta iniziando ad uscire un po' della mia insanità mentale, quindi occhei. Ti ringrazio se sei arrivato a leggere fino a qui -leggendo anche il capitolo s'intende, sennò non vale(?)- e ti chiedo scusa se rimarrai deluso o se il cane ti ha fatto pipì sul letto.
Sayonara,
-K
  
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