Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: PaganGod    15/06/2012    0 recensioni
"Incubi.
Erano così frequenti e vividi che non potevo più considerarli frutto della mia immaginazione. Nella mia vita ben poche volte mi sono potuto appellare ai rassicuranti parti della mente, e da quasi una settimana l'immagine del vecchio pazzo, chiuso nella cella di un ospedale, mi perseguitava ogni volta che cercavo di riposare gli occhi. "
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il ciclo del Custode'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Si conclude, con questa storia, il breve ciclo del Custode e dei pomeriggi piovosi di rivelazioni. 
Spero che abbiate gradito le atmosfere e che abbiate potuto intravedere la trama generale.
Se vorrete regalarmi qualche secondo del vostro tempo per una critica, un commento,
o anche una smorfia disgustata, avrete fatto felice un povero vecchio.


Boati. 

Tonfi così frequenti e numerosi da somigliare ad uno scroscio d'acqua: milioni di pelli tese, tronchi cavi, e legni percossi con sacrale maniacalità.

I reami di follia che sono costretto ad osservare e descrivere, minano la lucidità della mia mente, ormai non più impavida e ferma come in gioventù. Vedo le cime di alberi vetusti, malsani, contorcersi sotto l'azione del vento irrequieto. Chiuso nella stanza spoglia e candida, così simile ad una cella ormai, posso solo immaginare chi siano gli artefici di una tale, orrida, cacofonia. Il battere fortissimo supera in intensità l'uragano, che trasporta e tortura immense nubi nere e gravide. 

La mia mente partorisce mostri ormai, forse ricordi di un epoca passata, che vivono al di là della foresta morente e scherniscono questo povero vecchio prigioniero. Di tanto in tanto li vedo muoversi, strisciare sul terreno scuro e appiccicoso, avanzare in processione, per venire a porgermi omaggio in forma di offesa e derisione.

Sento le loro risa, il loro grugnire, oltre la pesante porta di metallo rugginoso.

Per non impazzire completamente scrivo. Ho terminato le pergamene. Ora scrivo su ogni cosa. Le pareti della mia cella sono ricoperte di resoconti minuti delle mie giornate interminabili. Perfino la Morte, la bianca signora che tanto a lungo ho servito e venerato, mi deride battendo incessantemente al di là della foresta senza nome.

Incubi.

Erano così frequenti e vividi che non potevo più considerarli frutto della mia immaginazione. Nella mia vita ben poche volte mi sono potuto appellare ai rassicuranti parti della mente, e da quasi una settimana l'immagine del vecchio pazzo, chiuso nella cella di un ospedale, mi perseguitava ogni volta che cercavo di riposare gli occhi.

Ad onor del vero non posso definire quelle visioni come incubi. Non erano spaventose, né inquietanti. Provavo pena per il canuto scrittore, provavo rabbia. Una rabbia intensa, devastante, come di chi si vede sottratta ogni gioia, ogni libertà. In realtà non osavo fare raffronti tra la condizione del vecchio e la mia.

Forse, in un angolo lontano della mia mente, rifiutavo il compito che avevo abbracciato con tanto fervore? Il vocio dei miei predecessori, incessante ed echeggiante, non mi aiutava nel comprendere l'origine della mia frustrazione.

Di cosa potevo lamentarmi? Avevo raggiunto ciò che anelavo dal primo giorno della mia esistenza terrana: conoscenza sopra ogni limite, potere assoluto, la Verità primordiale. Eppure la libertà di cui godevo, mi apparve molto relativa e provai una remota tristezza: chi si poteva definire davvero libero?

Spesso la libertà è semplice ignoranza. Perfino chi abbandona ogni cosa, per mortificare le proprie carni e liberare lo spirito, diventa schiavo della fede e delle pratiche. Chi si abbandona ai piaceri immediati, chi non cerca altro se non il proprio godimento, diventa succube delle sue presunte esigenze. Io, che con un gesto avrei potuto alterare ogni particella del reale, io ero forse il meno libero di tutti.

I passanti, che osservavo invidioso dalle imposte oblique e impolverate delle mie finestre, non potevano definirsi liberi. Se solo avessi voluto avrei potuto spazzar via le loro anime, condannarli alla follia delle Terre senza Tempo, abbandonarli nelle spire di avidità dei loro stessi simili. Non erano liberi, eppure si sentivano tali.

Io non potevo dire la stessa cosa di me.

Il vincolo che mi legava alle Fate, più antico del più antico dei miei antenati, mi toglieva la libertà di ignorare la Verità, di credere nelle piccole cose, di appagarmi di uno spiraglio di sole, di godere della brezza che si leva improvvisa. Il vincolo, il Patto, mi permetteva di vedere con chiarezza ciò che davvero è il mondo: niente di più di una vibrazione dell'Onda, una conseguenza di una catena di eventi fragili e fondamentalmente senza scopo; ma donava ai miei adorati passanti l'illusione di essere privi di legami.

Qualcuno che vegli su di loro ci deve sempre essere, e quel qualcuno ero io.

Una sottile ansia e un subdolo dubbio, uniti alle visioni angosciose dello scrivano, mi avevano reso particolarmente nervoso. Evitai con cura di avere contatti umani, non che solitamente fossero numerosi. Chiusi le imposte per rimanere al buio. Per un Custode il concetto di luce e buio, giorno e notte, sono solo sfumature di colore, ma cercai di calmarmi e di sfruttare solo gli occhi per vedere la mobilia scura e impolverata della mia casa. Rimasi nello studio per tutto il giorno, riempiendo il silenzio con il ticchettare furioso dei tasti del mio personal, nel tentativo di calcolare l'istante esatto in cui una nuova Soglia si sarebbe aperta, causando chissà quali perturbazioni fisiche e metafisiche.

Nell’ignoranza abissale che i più saggi tra gli uomini osavano chiamare sapienza, c’erano sempre nuovi temerari che sognavano, speravano, di poter dominare la materia senza davvero comprendere l'ordine delle cose. Quanti sforzi e quanti millenni erano stati necessari solo per permettermi di increspare appena l’Onda e ottenere un mutamento nei mondi temporali! Come potevano solo sperare di manipolare la realtà con parole vuote e gesti senza sostanza? Come potevano non comprendere che il Tempo e la Materia si sarebbero ribellati, come una tempesta, solo per l'orrore che provano dinanzi al mutamento?

In quei momenti il compito per cui ero stato scelto mi appariva più che mai giusto e la furia che soffiavo nella mia anima nel giustiziare chi si era macchiato di troppa sfrontatezza non aveva nulla di eccessivo ai miei occhi. Era proprio per impedire ai Reami del Tempo di sfaldarsi sotto le azioni incoscienti dei più ambiziosi, che le Fate mi avevano scelto e donato gli strumenti dell'Arte.

Nei rari momenti, però, nei quali smettevo di inserire dati e ascoltavo il brusio dei miei antenati, sospettavo che il motivo per cui le Fate mi avevano eletto a Custode non fosse così nobile. La questione non mi dava tregua: milioni di ipotesi si accavallano, l’una all’ altra, senza che riuscissi a metterne a fuoco una plausibile. C’era un senso di sconfitta e di pericolo sempre presente nel loro parlare; un avviso gridato dai miei predecessori fin dal primo istante in cui la loro coscienza si era proiettata nella mia, un avvertimento che mi invitava ad aprire gli occhi.

Quando la soglia si aprì io ero lì. Immobile nelle ombre, i pugnali sottili come l’aria stretti in mano, il volto coperto dalla terribile maschera che era sudario e armatura del Custode; la maschera che in mille occasioni aveva gettato nel panico chi si avventura nel mondo ultrasensibile, il simulacro del quale gli stregoni bisbigliavano a bassa voce, per timore che il suo stesso nome potesse gettare su di loro una mutilante maledizione.

Ma non avvertivo intelletti in grado di riverberare nell'Onda, che avessi commesso qualche errore nei miei calcoli? Non apparii, fulmineo e feroce come mio costume, ma mi limitai a guardare. In qualche modo i miei antenati guidavano i miei occhi, voltavano la mia testa e indicavano in silenzio.

In una stanza bigia, sospesa in un angolo di un alto palazzo di cemento e ferro, una ragazza dagli occhi tristi annaspava nel mare melmoso della sua solitudine. Voleva morire e, ritagliando simboli sulla carne dei suoi avambracci, aveva imbrattato il tappeto di rozzi cerchi concentrici invocando l’avvento di chissà quale ultraterrena entità con lo scopo di augurare la stessa sua fine al genere umano. Quei fanciulleschi rituali non avrebbero smosso la più innocua delle creature al di là del Tempo, ma l’uomo ha in sé un grande potere che non conosce: un solo istante, un brevissimo momento di sincronia scaturito dal baratro della sua disperazione, e l’Onda della materia si era turbata, sconvolgendo le leggi che gli uomini credono immutabili. La donna era rimasta incosciente su un liso divano marrone, madida di sudore e sudiciume. Le ferite che si era inflitta l’avevano fatta svenire e il suo respiro era un canto di morte; un'agonia che sarebbe durata per delle ore.

Uscii dalle ombre non visto e scacciai i pugnali e la maschera: che senso aveva fare del teatro se non si ha un pubblico a guardare? Saldai la soglia con un gesto distratto della mano, era una piccola e innocua falla che si sarebbe richiusa da sola poiché l’Onda ha orrore dei mutamenti.

Ma non mi era permesso essere clemente. La legge delle Fate era inquivocabile, vergata nei caratteri antichi sulle rocce amaranto della scaglia sull'abisso dove esse si mostrano a chi sa cercarle. La legge delle Fate era implacabile: nessuno, nei reami del Tempo, può avventurarsi nell'ultrasensibile; la pena è la morte e la condanna dell'anima a non esistere più.

I miei antenati tacevano.

Osservai quel gracile corpo steso per terra, la sua testa tonda, i capelli biondi e rasati. Avrei dovuto conficcare le mie lame perfette in quella schiena gracile? In quella carne che già stava soffrendo per la sua incapacità di vivere, e sbracciava non per chiedere aiuto, ma solo per far sapere al resto del mondo che lei era lì.

Sarebbe stato sufficiente che me ne andassi: lei sarebbe morta a breve, la soglia era chiusa, le Fate mi avrebbero rimproverato ma lo scopo era stato raggiunto e il continuum della realtà non era stato intaccato.

I miei antenati guardavano dalle ombre della mia coscienza.

Presi la ragazza tra le braccia. Era leggera, come se il suo corpo fosse di soffice seta ripiegata, e fredda, fredda come le notti nebbiose. Attraversai lo spazio in un soffio, mentre la realtà scorreva indifferente come l’acqua di un ruscello intorno a me. Cosa stavo facendo?

Raggiunsi la mia piccola dimora, adagiai la donna sul mio letto badando a non far urtare le sue membra esili e ossute. Imposi le mani sul suo corpo e costrinsi la vita a non fuggire da lei. Non so cosa mi spinse a farlo. In passato avevo giustiziato più di una persona senza il minimo indugio, non era la capacità di uccidere che mi faceva difetto. Intere congreghe di stregoni e adoratori invasati degli Dei Ulteriori conobbero il gelido abbraccio delle mie lame, senza che la più pallida ombra di rimorso agitasse i miei sonni. Eppure quella volta non ne fui capace: quella donna non bramava il potere sugli uomini; non cercava la fine del mondo, non voleva sovvertire l’ordine delle cose. Non era altro che una bambina innamorata delle stelle, con solo un fiammifero per sognare, e com’era dolce il suo respiro,  com’era bella la sua pelle candida e tatuata.

Una sensazione di oppressione mi costrinse a sedere. La stanza gonfiò le sue mura ed esplose in una nuvola di particelle iridescenti. Alla velocità della luce attraversarono l’orizzonte e mi lasciarono nel fluorescente livore dell’Onda. Le Tre Fate comparvero, terribili e splendide nelle loro vesti virginali, i volti identicamente adirati, gli occhi verdissimi dardeggianti di rabbia.

Le loro voci erano tuono e tempesta. “Hai osato trasgredire la tua consegna, hai tradito la fiducia delle Fate! Noi siamo deluse, noi rinunciamo ai tuoi servigi e malediciamo il tuo essere e la tua mente. Ti condanniamo all'oblio.”

Spalancai la bocca. Il vento impetuoso dell’Onda mi impediva di parlare, ma in quell’istante compresi le parole che i miei predecessori gridavano incessantemente. Mi avvertivano della freddezza delle fate, della loro indifferenza nei confronti della vita, della loro determinazione inarrestabile. Volevano punirmi per aver avuto misericordia di una vita umana.

Ogni mio antenato conosceva questa verità e aveva cercato di mettermi in guardia: esse non amavano il tempo e la vita, non vogliono proteggerla! I loro piani andavano al di là perfino della mia sovrannaturale coscienza e reprimevano senza pietà chi osava deviare dai loro dettati.

Il vecchio scrittore, condannato in una realtà folle, in un tempo statico senza speranza, altri non era che uno sventurato prescelto che aveva osato contraddire la volontà delle Fate. Mi aspettava un destino simile. Il turbinare dell’Onda impazzita, scossa dall’ira delle Tre, lacerava la mia vibrazione e mi procurava un dolore echeggiante ben al di là di ogni umana sopportazione, e la concentrazione necessaria a mantenermi coeso ormai era un filo sottile, prossimo a condannarmi al nulla. I tre volti, meravigliosi, splendenti e duri come acciaio, gridavano il loro ineluttabile intento.

Improvvisamente il silenzio.

Vidi il volto del vecchio scrivano rugoso. Gli occhi lucidi di una febbre mai spenta, le minuscole miniature sui muri, la scrittura perfetta: unico interesse in una realtà che non scorre. Mi guardò. La sua espressione divenne speranza, paura, coraggio e vendetta; mi aveva attirato mentre l’Onda vibrava, l’unico istante in cui la cella perdeva un po’ della sua solidità, per trasmettermi una verità che mi abbagliò nella sua semplicità. Non lo ringraziai, non ne ebbi il tempo, però i suoi occhi velati compresero ciò che stavo per fare e ne furono illuminati.

Agii in fretta, prima che la mia condizione si stabilizzasse, sfruttai il paradosso, feci ciò che non si sarebbero mai aspettate.

Fuggii dalla loro morsa, concentrando la mia volontà in un solo punto, e scappai nell’unico luogo in cui non avrebbero mai potuto toccarmi: la mia casa dalle persiane sulla strada, i miei amati passanti, la mia realtà fatta di tempo e lunghe ore in solitudine.

Tornai e non era accaduto nulla, lei era sul letto e dormiva piano, io ero seduto e fluttuavo tra l'estasi della vittoria e il terrore della vendetta.

Ciò che lessi nella stanza del vecchio mi diede la comprensione necessaria per tentare un piano così rischioso eppure così elementare. Barcollai alzandomi, ero sconvolto e fuori dalla mia abituale compostezza. Ferite profonde nella mia mente avrebbero impiegato secoli per rimarginare: l’odio delle fate avvelenò la mia anima e i miei occhi condannandomi a notti insonni, ad incubi mostruosi. Ma ero libero. Sarebbero venuti giorni di guerra, che nessuno mai avrebbe potuto vedere, ma aprivano così tante trame nelle possibilità da giustificare ogni istante di dolore, ogni fatica.

La piccola figura sul mio letto si svegliò, e un po’ di quel malessere, di quei tetri pensieri, scomparve. I suoi occhi tristi si girarono verso di me, sorrise.

Non avevo bisogno di parlare con lei. La mia mente parlava alla sua.

***

Manderanno altri emissari a cercarmi. Forse proprio in questo istante la voce suadente delle Tre sta corrompendo la volontà di qualcuno, promettendogli potere sopra ogni cosa, e tacendo sui doveri dolorosi che questo compito porta con sé.

Ora osservo le persone, gli ignari passanti che mai conosceranno le conseguenze del mio agire, e una mano esile, dalle dita fredde mi cinge le spalle. La mia fanciulla dagli occhi tristi ora abita con me. Si abbraccia alle mie spalle cercando calore dal mio corpo devastato dalla febbre. Le bacio le punte delle dita, e mi sento osservato e vulnerabile.

Le Fate mi spiano, controllano ogni mio movimento, ma le parole e la saggezza del vecchio recluso mi danno la forza di proteggere il mio piccolo mondo dagli occhi tristi.

“Esse temono il tempo”.

  
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: PaganGod