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Autore: CapaFelpy    17/06/2012    2 recensioni
E' una 'storia' strana. Non so come mi sia venuta in mente. Avevo voglia di scrivere e ho cominciato, senza una vera idea. Era finita bene inizialmente. Mi sembrava poco realistico però se si analizzavano bene i contenuti. Modificata stasera finalmente la pubblico. Spero vi piaccia. :D
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I focus on the pain, the only thing that's real.

<< Posso raccontarti come un singulto diventi un singhiozzo? Come una lacrima diventi un pianto? >>
Il vecchio alzò lo sguardo per dare un volto a quella voce. Una ragazzina un po' gobba e magra dai lunghi capelli biondo ispido lo fissava curiosa attraverso due iridi azzurro ghiaccio.
Una piccola ciocca dorata le era scivolata in avanti coprendo gli occhi da regina intoccabile. Aveva il volto magro e le braccia sottili sottili che ci potevi passare un bracciale in mezzo, sembrava Alice sperduta nella realtà non una ragazza di quindici anni con i piedi per terra. Il volto rosso era segnato dal passaggio di due lacrime scese probabilmente poco prima di rivolgergli la parola, dondolava leggermente sulle gambe forse a causa degli alti tacchi viola che portava in tinta con il vestito a balze. Una collana di perle le accarezzava il collo magro. Lo guardava come si guarda qualcosa di nuovo, di mai visto, come si guarda qualcosa di cui si ha paura, ma da cui allo stesso tempo si è affascinati.
Apro la bocca per rispondere e la richiudo di scatto come un pesce fa in acqua. Poi prendo fiato e cerco di formulare qualcosa che abbia senso quanto la sua frase.
<< Ma cosa..? >>
Non ha abbastanza senso, lo so, ma non ho saputo dire di meglio. Si siede affianco a me lisciando le pieghe della gonna.
<< Lei è grande, magari lei sa dirmi cos'è la felicità e come trovarla. >>
Rimango sbalordito fissandola. A settant'anni non ti aspetti che ti vengano poste domande simili, a settant'anni ti sembra che la vita sia finita, che tu abbia vissuto ogni possibile esperienza, che tu abbia incontrato ogni tipo di persona. Poi ti trovi davanti una ragazzina un po' allucinata che ti sorride in mezzo ad un parco con a fianco il tuo cane.
Ed è allora che ti domandi come tu abbia fatto a pensare di aver terminato il tuo ciclo di vita, c'è ancora qualcuno che forse ha bisogno di te. Congiungo le mani rovinate dal continuo lavoro nella bottega dove rimettevo a posto le scarpe di ogni cliente con la delicata e leggera cura che si usa con qualcosa di fragile. La guardo.
<< Inizialmente mi hai chiesto se potevi raccontarmi, ora chiedi che io parli, cosa vuoi veramente? >>
Il suo sguardo diviene pensieroso, aggrotta le sopracciglia e abbassa lo sguardo fissandosi i piedi poi lo rialza sicuro.
<< Parlami tu, racconta. >>
<< Cosa vuoi sapere? >>
<< Cos'è la felicità? Esiste? Dove si trova? 
I suoi occhi cercavano disperatamente una risposta, qualcosa a cui aggrapparsi, sembrava aver perso senno, ragione, ogni minimo legame con l'armonia stessa.
<< Lo chiedi a qualcuno che ha perso la cosa più bella della sua vita anni fa, ma credo che riuscirò a parlartene, credo che... >> soppesai la frase non sapendo come concludere << Andiamo avanti. Mi hai chiesto della felicità. Cos'è? Non credo che sarà un vecchio solo a potertelo spiegare, ma ci proverò. La felicità è quando vedi oltre gli occhi, quando tutto ti sembra bello e perfetto. La felicità è tornare a casa e rifare il letto per la prima volta visto che solitamente ti dà noia. Felicità è preparare la cena alla mamma e mettere in ordine la casa anche se ti fa schifo. Felicità è sorrisi. Felicità è non fingere di provarla. La felicità esiste, ognuno l'ha provata, ma non si è accorto di lei, è passata veloce  e sfuggente, come una nuvola in un giorno di sole. E mi dispiace dirtelo, ma non si trova. Si prova. Cambia solo una lettera forse, ma il significato è enorme. La differenza è enorme. La felicità puoi trovarla in un buon caffè, nel pane caldo, nel sorriso di qualcuno che ami, nella dolcezza con cui un bambino stringe la mano della mamma. Capisci? >>
Scruto il volto concentrato della ragazza. Aveva seguito ogni parola con bramosa curiosità, assaggiato ogni frase senza lasciarmi il tempo di finirla. Ogni tanto aveva corrugato la fronte come se non fosse d'accordo, a volte aveva sorriso, ma di certo non aveva mai perso l'attenzione. Mi fissava immobile mentre io attendevo paziente risposta.
<< Lei è strano. Dice di averla persa, ma ha ancora presente questo sentimento. >>
Era vero. Conservavo il ricordo di ciò che avevo provato come fosse oro. A volte non ci rendiamo conto di quanto un ricordo possa valere, possa stamparci addosso il miglior sorriso mai visto. Pensiamo spesso ai ricordi come bestie che ci fanno soffrire, mutilano ogni parte di noi lasciandoci freddi e vuoti. Ci siamo dimenticati che è proprio in quel momento, quando ci accasciamo sul pavimento terribilmente stanchi di tutto e di tutti che scorgiamo quella scintilla dorata che ci riporta vivi. E' ciò che ci riporta a coloro che non possiamo più sfiorare, con cui non possiamo più parlare. Ed è bello perché tutto assume una luce nuova, tutto diviene migliore ai nostri occhi e impariamo a vivere, magari meglio, magari senza farci del male.
<< Tutti siamo strani, ragazza mia, ma lasciamo stare me. Non dovevi raccontarmi nulla? >>
Lei mi fissa divertita dalla mia apparente nonchalance e si posa le mani sulle cosce in un gesto apparentemente casuale che invece significa molto, significa che è agitata, che ha qualcosa di importante da dire.
<< Conobbi una persona tempo fa. Era molto simile a me fisicamente. Era alta, di media corporatura, aveva dei lunghi e morbidi capelli biondi e due occhi verdi scintillanti. La trovai molto bella. Mi avvicinai a lei un giorno, per caso. Eravamo sullo stesso autobus e lei mi cominciò a parlare guardando fuori. "Brutta giornata, eh? Piove" disse solo mentre io annuivo. "Già, brutta proprio" E poi si sa, una cosa tira l'altra. Uno scambio di numeri, un'uscita per un gelato e diventi amica con qualcuno. Facevamo lunghe chiacchierate, parlavamo di tutto, sfioravamo Freud incuriosite dai temi che trattava, era sempre stata una ragazza intelligente. Ci scambiavamo libri, andavamo insieme in vacanza, dormivamo una a casa dell'altra.
Mi raccontò del suo ragazzo, un certo Ivan. Era bello e dolce, stavano insieme da due anni, una volta ci uscì anch'io. Non mi convinceva molto, ma non ebbi mai il coraggio di dirglielo.
Lui la mollò. Lei ci rimase malissimo, ma non era il tipo da buttarsi giù facilmente, cercò di non rimanerci troppo male. Pochi giorni dopo sua madre morì di leucemia, malattia da cui era affetta da anni. Il lutto la distrusse, non aveva parenti paterni, suo padre non era mai esistito, era figlia di un uomo ignoto. Non aveva zie e nemmeno nonne. Venne messa in orfanotrofio. Lì la picchiarono, era tedesca da parte di madre nonostante fosse nata in Italia, i ragazzi dell'orfanotrofio ciò non lo tolleravano comunque. Quando andavo a trovarla era sempre piena di lividi e l'aria sempre più morta. Mi ricordo il discorso che mi fece un giorno. Disse: "Sai, ho scoperto di essere sbagliata. Non vado bene, devo migliorare. Mi sono accorta di essere grassa, devo dimagrire. I miei occhi sono brutti, devo migliorare. I miei capelli sono troppo morbidi. Devo diventare come loro, sono troppo diversa."
Fu l'ultima volta che la vidi. Che vidi la ragazza che conobbi sull'autobus, i giorni successivi non era più lei. La vedevo mangiare con me e poi correre in bagno a vomitare ficcandosi un dito in gola. Vedevo il suo corpo consumarsi sotto il giogo della bulimia mentre usava lenti a contatto azzurre per nascondere il vero colore dei suoi occhi. I capelli erano divenuti ispidi e  si era ingobbita a forza di nascondersi. Poi uno spiraglio. Una luce, forse la felicità. Un uomo chiese di poterle parlare. Un uomo che per quindici anni non si era curato di lei: suo padre.
La riportò a casa, la curò. La ragazza rimase uguale. Non cambiò mai. Alice perse la strada per il paese delle meraviglie. Ogni tanto vado a trovarla, ma non è la stessa cosa. Non le interessano i libri, vuole solo perdere dieci chili. Un giorno è svenuta. L'hanno portata all'ospedale dandole da mangiare forzatamente e impedendo che vomitasse. Giorni dopo si è punita mangiando meno. Una volta la trovai piena di tagli, le chiese spiegazioni. Disse che si era incisa sulla pelle la parola "schifosamente diversa" per ricordarsi quanto fosse sbagliata e quanto dovesse soffrire per questo. Quella ragazza non tornò mai come prima. >>
I miei occhi la scrutarono per un secondo. Avevo seguito ogni piccolo dettaglio, ogni parola. A tratti ero inorridito, a tratti neanche un sospiro aveva sfiorato le mie labbra rovinate.
Sapevo il messaggio nascosto dietro le parole della ragazza, sapevo solo adesso il suo nome e solo adesso sapevo il perché del suo avvicinamento.
<< Mariline Owen. >>
Un soffio, un nome. Era lei, ecco ciò che era accaduto. Una goccia di sudore mi scivolò lungo la fronte, avevo la gola secca, le mani sudate, non sapevo più cosa dire, cosa pensare.
Lei mi scrutava, osservava ogni movimento. Lei era la ragazzina, lei era stata in orfanotrofio, lei aveva sofferto. Lei aveva smarrito il significato di felicità. Lei, sua nipote.
Quel cretino di mio figlio era fuggito a questa bellezza, l'aveva abbandonata nel vortice della vita, mandata a schiantarsi contro il dolore. Non l'aveva sorretta quando era caduta, non le aveva dato il braccio per aiutare a rialzarla. Non c'era stato. Forse è inutile che gli addossi la colpa, io sono colpevole quanto lui, purtroppo. Non ho mai mosso un dito per lei.
<< Lo sapevi fin dall'inizio. >>
Dondola leggermente le gambe in avanti e indietro, scoprendo le calze bucate in diversi punti. Rialza lo sguardo su di me e sorride.
<< Importa? Ora sono qui. E parlo con te di me. Sai che non vi perdonerò mai, vero? Né a te né a lui. Sono stata la migliore amica di una bilancia, un paio di lenti a contatto e dei lividi per troppi anni. Siete rimasti a guardare, siete stati complici. Ci sono cose come queste >> Alzò lentamente il braccio, in un gesto quasi estenuante, e accarezzò la scritta “schifosamente diversa” sul braccio con l’unghia rovinata dell’indice. << Che non guariranno mai. Continuerò ad essere inseguita dai miei fantasmi, a piangere la notte, a far vedere al mondo come una ragazza normale possa impazzire per colpa della stupidità altrui. Loro e vostra. Ci siete tutti dentro fino al collo. >>
Non l’avevo detto con cattiveria o accusata. Aveva utilizzato il tono delicato e noncurante di chi sta elencando ciò che mangia la mattina o il liceo dove studia. Era la sua calma glaciale, la sua consapevolezza così scottante, a scatenare in me un totale senso di ansia.
Ero sempre stato un ragazzo claustrofobico, fin da bambino.
Avevo paura di ogni spazio troppo piccolo, andavo in panico per nulla, mi sentivo soffocare. Potete dire fosse anche per la mia asma, ma ancora oggi, nonostante mi sia passata l’asma, la claustrofobia vive in me.
Non si parla di ascensori, camere piccole e armadi.
Si parla di sentimenti. Mi soffocano, mi fanno agitare, sudare, tremare. 
La sua calma, indifferenza, abitudine mi soffocava.
<< Cosa.. Posso fare? >>
<< Oh… Niente. Solo aspettare. O che io ti perdoni o che il senso di colpa svanisca. >>
Dondola di nuovo le gambe prima di appoggiarle per terra e fare leva per rialzarsi. Guarda l’orologio al polso e poi posa nuovamente lo sguardo su di me.
<< E’ estremamente tardi. Mi ha fatto piacere parlare con te. Ti lascio nel tuo senso di colpa come ogni sera. Io ho i lividi sulla pelle, voi nell’anima. Ad ognuno il suo. A presto. >>
Si gira e va via. Percorre la stessa strada con la stessa calma. Ha lo stesso passo con la stessa cadenza. Lo stesso muovere del vestito con gli stessi colori.
E io ho ancora il mio senso di colpa con le stesse crude verità.
  
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